A cura di Valeria Tassinari

Ouverture
«Ho un lavoro tridimensionale, base, altezza e tempo. Base per altezza e tanto lavoro artigianale.»
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Suite chimica
è il titolo di una nuova mostra, ma anche il titolo di una mostra che c’è già stata, perché il lavoro del suo autore si fonda su pratiche e forme, generate da un’idea fondativa persistente e ritornante, una ricerca che si ripropone costantemente pur non rinunciando ad intonarsi alla specificità di ogni evento espositivo.
La personale site–specific di Roberto Rizzoli per lo spazio Lavì City, infatti, è concepita come un progetto pittorico unitario che, attraverso un’attenta impaginazione in parete di diverse tele libere, coinvolge completamente l’ambiente della galleria, e con questo si misura, fisicamente e percettivamente. La stanza, di dimensioni raccolte, si trasforma in una grande opera corale, strutturata dall’autore declinando il tema della “suite2” musicale in una sequenza di variazioni cromatiche, costruite attraverso una serie di opere pittoriche, nelle quali la ripetizione di composizioni astratte esibisce un raffinato repertorio, i cui preziosi accordi sono attinti da una profonda conoscenza della storia dell’arte. Dalla policromia fino al bianco e nero, la pittura ripete e rilegge gli schemi segreti della pittura stessa, in un lucido processo di riappropriazione della sua bellezza, che si basa su una disciplinata rielaborazione razionale, ancorata al controllo del tempo, dimensione della memoria, ma anche misura dilatata, necessaria per la restituzione “artigianale” della materia e per la comprensione della sua spiritualità.
La tridimensionalità del lavoro – identificata dall’autore nella combinazione delle due misure lineari della superficie dell’opera con la misura psichica del tempo, fondamentale per i processi di concepimento, sedimentazione e produzione – si assesta qui nello spazio, avvolge il vuoto e lo incornicia, occupandone la profondità con una sorta di perentoria delicatezza. Limite e confine, la pittura diventa frontiera permeabile allo sguardo.

Allemanda (lenta)
«Il tempo è una linea orizzontale che unisce le caverne di Altamira a Duchamp e ti lascia la libertà di non scegliere.»
Il lavoro del tempo è uno dei misteri sui quali l’uomo non può fare altro che scendere a compromessi. Diamogli una forma, e sarà una linea; diamogli una direzione, e sarà una freccia; cerchiamogli un senso e, paradossalmente, sarà un pendolo che oscilla nella mente, un gioco di forze che si alternano, sfiorato dal soffio della memoria e dell’oblio. La possibilità di muoversi nella storia dell’arte come se il tempo non fosse misura di una distanza ma segnale di persistenza, incidenza, identificazione, è una certezza che libera dall’obbligo ossessivo della ricerca del nuovo.
Stare sul solco, muoversi come scivolando, il passo che fluisce e torna indietro, un giro sulle punte, girare pagine di libri in direzione opposta alla sequenza grammaticale, capire Rothko in Piero della Francesca, e Giotto nella Metafisica. Intorno all’arte, quello che cambia è la cronaca dei fatti, il tempo è altra cosa.
Suite chimica, dunque, è una mostra di nuove opere pittoriche, ma la metrica della sua identità ritmica esisteva già nei lavori fotografici presentati da Roberto Rizzoli nella sua prima personale, allestita allo Studio G7 di Bologna negli anni Settanta. La struttura delle immagini e il bilanciamento del rapporto luce/ombra erano temi nitidamente definiti negli scatti fotografici di allora, stessa astrazione elusiva, stessa volontà di stare assolutamente dentro all’immagine, senza deragliamenti all’esterno. Cinquant’anni sono così pochi, in fondo, se la misura del tempo parte dalla preistoria. Un giro di stanza, in una piccola camera, da qualche parte che si fa luogo irripetibile.

Corrente (veloce)
«L’artigianato è un valore aggiunto a quello dell’arte.»
La pittura si fa con la pittura, non ci sono altre possibilità. Il colore, l’ombra, la luce, il gesto, il segno, il pieno, il vuoto, la texture fanno la pittura. La figura no, è un’altra cosa, è un racconto che si può fare in tanti modi, anche con la pittura. In questi lavori di Rizzoli la figura non c’entra più. Il controllo del linguaggio qui è una pratica di ripetizione, selezione, revisione, accostamento, estrazione e astrazione. Nelle tele libere la pittura si concentra al centro, un rettangolo impercettibilmente tattile organizza la superficie in vibrazioni cromatiche che attingono agli spartiti timbrici delle tavole del Trecento, o alla gravità tonale di un paesaggio veneto, fino al trasmigrare del bianco nel nero in dialoghi di luce pura. Intorno, sulla tela nuda, tra i pochi segni liberi in cui si concede di sconfinare, Rizzoli appunta riflessioni rapide, guizzanti. Una corrente, un brevissimo evento, come un corteggiamento intorno a un’apparizione.

Sarabanda (lenta)
«La libertà di non scegliere mi permette di decidere come gestire la superficie.»
La superficie è il luogo, per un pittore è lì, o prima di tutto lì, che ci si mette alla prova. Per questo la si sceglie, o la si lavora, costruendola con lenta consapevolezza. Sotto le dorature e le tempere fragranti dei Primitivi pregiotteschi le tavole erano preparate con imprimiture segrete, e più tardi i pittori otturavano la porosità delle tele con tonalità colorate, talvolta cupe, per dar risalto alla pelle traslucida della pittura ad olio. La preparazione delle superfici esisteva come condizione di partenza: non vista, perché obliterata dall’immagine, rimaneva comunque preziosa in quanto azione controllata dalla volontà dell’artista, era preludio intimo, aveva un senso tattile e immateriale. Nella sua pittura, Rizzoli lascia invece uno spazio di affioramento, dichiara apertamente che la preparazione della superficie è parte del processo e, proprio perché il processo stesso è il tema, nel suo svelarsi si completa l’unica forma possibile di racconto. Pittura e basta, su vari livelli.

Giga (veloce)
«Il risultato è un lavoro autobiografico che nel tempo mantiene alcune costanti, l’artigianalità, un rispettoso e appassionato collegamento con tutta l’arte che mi ha preceduto e per tutto ciò che sembra ma non è.»
Sembrare senza essere, grande teatro del mondo. Ripetizione di sogni inutili e per questo sempre attuali. Rizzoli approda all’opera come risultato di una sequenza perfetta di procedure e puntualizzazioni di registri. I passi sono compiuti, ogni nota riverbera, la tela può essere fissata alla parete.

Inchino a occhi aperti. Uscita.


1Le parti di testo in neretto sono di Roberto Rizzoli.
2La Suite (successione) è un genere di componimento musicale che ha trovato struttura stabile in Europa nel periodo barocco.
Talvolta introdotta da un’ Ouverture, si struttura tipicamente nell’alternanza di danze lente e veloci, che ripetono in successione una tonalità costante.

a cura di Dario Sostegni

Prendere parte a una residenza artistica vuol dire avere a disposizione un tempo e un luogo completamente dedicati alla propria ricerca. Le giornate vengono ridefinite, rendendo possibile l’emergere di una acuta sincronia tra la visione creativa e il trascorrere scandito della vita. Solitamente si è cullati da questo altrove, altre volte ci si sente persi, molto spesso si ricerca solo una scanzonata ironia. D’altro canto, in momenti come questi, quando tutto è una potenziale fonte di ricerca, ci si sente un po’ pazzi. L’essere in un’altra città, con usi e costumi diversi, accentua la propria capacità di osservazione. Ci rende curiosi e estranei, sia vigili che transitori, dato il breve periodo di soggiorno.

These two… è il nome della mostra presso Lavi! City, risultato della residenza di Adriana Marineo e Tereza Šiklová, durante la quale le autrici si sono scambiate di città per un mese. Un dialogo disegnato tra Italia e Repubblica Ceca, promosso da Czech Literary Centre (Sezione della Moravian Library).

Adriana, arrivata a Tábor, porta con sé molte idee. Voleva parlare di archeologia, divinazione, del proiettarsi fuori dal sé, ma non sapeva come raccontarle.

Il suo lavoro è molto legato alla scrittura, raccoglie tutto nei suoi numerosi diari. Inizia schizzando, disegnando storie autoconclusive di una pagina. Tutte sono accomunate dalla presenza di una camera fissa, nascosta ai personaggi, che spia ogni loro piccolo gesto quotidiano, come farsi la doccia nella vasca, pulire i piatti, guardare il telefono. Il movimento viene scandito nelle sei vignette regolari con un tono così inesorabile da essere sardonico. Il testo riporta pensieri intrusivi, come l’interrogarsi su quale battaglia abbia portato ad Alessandro Magno un bottino di quattrocento elefanti, o la chiamata di un operatore telefonico e la sua liquidazione tra scuse formali e saluti.

Adriana, nella prima parte della residenza, registra scene comuni, inscenando momenti non per forza appariscenti, creando un gioco con la loro potenziale attribuzione di significati, a volte più concreti (anche nel disegno), altre più sfuggenti. È un modo per visualizzare il personaggio e seguirlo in ogni suo piccolo aspetto, sinonimo di affezione verso gli abitanti del proprio mondo. Da questi studi nascono due individui che la accompagneranno durante tutta la residenza: personaggio Fiore e personaggio Falena. E proprio da quest’ultimo, Adriana sviluppa un racconto più lungo.

Una costante del suo soggiorno è stata una forte insonnia. Nello stesso modo, il personaggio Falena non riesce a dormire. Sente che sta mutando, ma si è sempre immaginata questa metamorfosi come una fase di sonno, di chiusura nella crisalide, piuttosto che di veglia. È una situazione apparentemente contraddittoria, soprattutto considerando le sue fattezze già al suo ultimo stadio, non più bruco ma farfalla compiuta. L’autrice inscena così uno stato esistenziale di costante trasformazione, di perenne attraversamento di un confine, in una stasi vissuta con disincanto. La falena rimane sempre attenta al rapporto con gli altri. Abita in casa con personaggi di fattezze biologiche diverse, con i quali si confronta o semplicemente vive riti quotidiani, come quello del caffè. La vicinanza che prova con le altre personalità in questo momento di transito è particolarmente accentuata, e la forte empatia porta Falena a desiderare di vivere la vita di qualcun altro.

Adriana lavora su un’età vicina alla sua, mentre Tereza Šiklová torna indietro con la memoria. Arrivata a Bologna sapeva già su cosa lavorare, una storia che aveva cominciato a disegnare per la sua laurea. In Back to the Summer, Tereza parla di momenti quotidiani di estati trascorse nel cottage dei nonni. La casa viene esplorata e mostrata in ogni suo anfratto, costruendo una mappa emotiva dove ogni luogo ricopre una funzione, o scatena un ricordo. Così la cantina diventa luogo di misteri, ma anche di noia, e la cucina lo spazio dedicato al dialogo. Vi è una naturale messa in scena della visione infantile dove si perde il confine tra simbolo e definizione di realtà. Un animismo magico dove tutto è potenzialmente vitale, piccolo e prezioso, dove il cottage allarga i suoi confini, e da apparentemente minuscolo si trasforma in un mondo dove le cose che hai intorno sono le uniche che in quello specifico momento ti appartengono. Così l’albero nel giardino torna a essere una tana per uova di drago, e non è così impensabile che un coniglio possa lasciare una lettera attaccata al cancello. La figura della nonna comunica allo stesso livello della nipote, mostrando una schiettezza propria di chi non idealizza, romanticamente, una visione dell’infanzia. Il disegno regala un’impressione più che una definizione delle figure, collocandosi nel territorio del ricordo e della nostalgia, sentimento che ha accompagnato Tereza durante la creazione del libro e che ha assunto valore terapeutico. Il lavoro di Adriana si sviluppa in itinere con la sua ideazione, mentre quello di Tereza a posteriori. In entrambe, la trama lascia il posto a note biografiche. Adriana usa personaggi per raccontarsi, mentre Tereza si ispira a eventi passati. I luoghi da loro disegnati, che siano urbani o familiari, sono spazi da esplorare e scoprirsi attraverso di loro.

a cura di Gabriele Lamberti

La mostra è il frutto di una selezione attuata fra studentesse e studenti che hanno frequentato i
corsi di Anatomia artistica condotti dal prof. Gabriele Lamberti all’Accademia di Belle Arti di
Bologna. Sono due studentesse di Illustrazione per l’editoria (Valeria Cavallone e Sara Cuperlo) e
una studentessa di Pittura (Giulia Barbasso).
Col titolo Essere e apparire si propongono due categorie sotto le quali è possibile sussumere le
polarità della psyché e del soma, caratteristiche essenziali degli esseri umani. L’identità si
esprime attraverso ciò che siamo e come appariamo. Il dialogo a tre voci scaturisce dalla
diferenza che le tre artiste presentano nel trattare queste due categorie e dai risultati che la loro
ricerca evidenzia.

A cura di Erica Marta

Il racconto presenta un mondo favoloso, il cui sfondo montano lascia trasparire un forte contatto con la terra e con i suoi elementi. Il bosco ospita un particolare aspetto dell’abitare: qui, sembrano radicarsi il vivere la collettività e il mondo sociale di questi piccoli esseri. A rendere possibile questa pacifica convivenza tra varie forme di “sentire” vi è una spinta genuina e insostituibile, che risiede nella volontà – reciproca – di tener conto dell’unicità di ciascun abitante. Si tratta di una volontà che viene raccontata costantemente, a definirne i tratti e la realtà sono la dedizione e la cura che traspaiono dall’agire e dal pensare delle creature abitanti. Soltanto attraverso la costanza e l’unione saranno pronte a dare inizio al rituale annuale. Tutto è volto ad accogliere il divenire, tutto è motore pulsante. Tutto riesce a concretizzarsi attraverso l’alternanza di stili differenti e nuovi. Nelle vignette realizzate a china emergono le identità dei personaggi, le loro voci, i suoni, il movimento costante. Le illustrazioni pittoriche sono, invece, di più ampio sguardo, di ambientazione e contesto, e ci rendono partecipi del pathos che echeggia tra i personaggi. È in questo accostamento che affiora la spontaneità di Rebecca e il suo sguardo verso la realtà.

È un sentiero in cui immergersi, questa mostra, da seguire per comprendere, osservare, annusare e vivere questo microcosmo organico. Così l’incontro si vivifica attraverso la realizzazione di sculture in ceramica, elementi che vivono nella storia e che escono dal libro per lasciare una traccia, fanta-archeologie storte e ritrovate per caso, esposte come reliquie. I diversi media permettono di dare voce ai personaggi, la cui quotidianità pure è costellata dalla produzione artigianale, ora di stoffa, ora di pane. E così il creare oggetti e il profondo contatto con la materia con cui sono stati realizzati sono il mezzo attraverso il quale esistere e farsi vivi.

Estenderemo il senso di condivisione anche attraverso l’installazione di Crookies. Quest’ultime, artiste e artigiane, profondamente si inseriscono e comprendono l’anima del fare, che è lo spirito forte e unificatore del libro. Lo spirito segue il flusso delle identità proprie delle quattro creatrici, è capace di cogliere le diversità e mostrarle come punto di forza attraverso l’arte e i saperi, diventa personale e unica. Crookies riprende l’elemento della lunga stoffa dai colori acidi che Lucilla e la nonna stanno cucendo e lo realizza, lo interpreta, fa in modo che sia fatto di stoffa e insieme muschio e bosco e molle di luce e sole. La loro opera riflette il valore della condivisione: la creazione, infatti, nasce da quattro frammenti di stoffe lavorate in autonomia da ogni persona del gruppo e uniti solo in un secondo momento. Da questo punto di vista le modalità di Rebecca e Crookie si rivelano affini: sembrano condividere un approccio viscerale e istintivo nei confronti dell’arte, dando vita ad opere autentiche e cariche di significato, in bilico tra il saper fare e l’aspettare che la materia prenda vita sotto le nostre mani, come in un rito magico.

La città e la solitudine: un tema antico, frequentato da secoli. A Venezia, poi, parlare di solitudine è una doppia scommessa. Non esiste infatti città più descritta, raccontata, parlata. Il tema della Venezia decadente, culla della solitudine, è uno dei filoni più attivi della retorica sulla sua storia. D’altra parte Venezia è immediatamente associabile alla dimensione diametralmente opposta, quella della folla. Venezia è (o perlomeno era: abbiamo tutti negli occhi gli ammalianti reportage lagunari durante i vari lockdown dell’ultimo anno, con il ritratto di una città inquietantemente deserta) la città delle folle turistiche, dell’invasione delle orde giornaliere di visitatori. Pensare la città come luogo della solitudine sembrava fino ad oggi quasi un ossimoro mentale.

La solitudine come chiave interpretativa della città serve a riflettere su molte tematiche di stringente attualità per comprendere la sofferente identità della Venezia contemporanea. Ovviamente, in primis, sul rapporto fra turisti e residenti. La signora ritratta con il suo carrello della spesa, seduta su un vaporetto, gli occhi socchiusi come a voler prendere tregua per un po’ dalla visione del mondo attorno a sé, parla di una città abitata da persone anziane, spesso circondate da un bolla di solitudine non necessariamente cercata, ma più spesso subita. In quella efficace immagine, perfino il cane che fa capolino nell’angolo in basso a sinistra appare assorto in una solitaria meditazione.

Nelle fotografie di Wienand le persone ritratte di schiena, in solitudine, “fanno subito” quadro di Caspar David Friedrich. Anziché gli scenari naturali, montagne, scogliere, marine scelti dal pittore romantico tedesco, qui vi sono i celeberrimi sfondi urbani della città lagunare: le calli, i campielli, le fondamenta. L’effetto è straniante, curiosamente stimolante: Venezia assume in questa prospettiva la potenza di una forza naturale, di fronte alla quale i solitari pensatori e le solitarie pensatrici ritratte da Wienand sono intenti a riflettere filosoficamente.

Trasmesse oralmente per generazioni, le leggi del Kanun – o codice – di Lekë Dukagjini sono state per più di cinque secoli il fondamento del comportamento sociale e di auto-governo per i clan del nord dell’Albania, anche quando la regione era ufcialmente sotto il dominio Ottomano. Si tratta di leggi, consuetudini e valori che si sono evoluti per molti secoli, sia prima che dopo l’esistenza (1410-1481) del personaggio storico a cui sono attribuite. Alcune, in particolare quelle riguardanti il concetto dell’onore, che regolano le faide di sangue, potrebbero aver avuto origine dagli Illiri, gli antenati degli Albanesi. Il Kanun fu codifcato e scritto in una forma comprensibile ed efcace per la prima volta negli anni venti del Novecento da un prete Francescano, Shtjefën Gjeçov. Nonostante i tentativi di abolirne l’autorità durante i cinquant’anni di dittatura comunista di Enver Hoxha, i precetti del Kanun continuano ad esercitare un’infuenza signifcativa, soprattutto tra i cattolici che abitano gli altipiani del Nord. Quest’infuenza diventò particolarmente evidente durante le crisi politiche e sociali degli anni 90, quando gli abitanti degli altipiani settentrionali dovettero afrontare il crollo dell’autorità centrale del paese e si rivolsero quindi spontaneamente al Kanun in cerca di una guida. Oggi la maggior parte degli abitanti degli altipiani si è spostata in altre località dell’Albania o è emigrata. Poiché la popolazione proviene da una struttura sociale basata sulla famiglia estesa, sul clan, prova scarso rispetto nei confronti di qualsiasi autorità che non sia la gerarchia familiare. Alcuni clan hanno distorto i valori originali del Kanun e usano i concetti di ‘onore’ e di ‘fedeltà familiare’ per svolgere attività illegali in ambito internazionale (dall’omicidio a contratto, al furto a mano armata, alla prostituzione, al trafco di armi, persone e stupefacenti) così come la siciliana Cosa Nostra ha stravolto le proprie tradizioni. Questa è la storia di un popolo legato al proprio passato e dilaniato dalle contraddizioni che emergono afrontando la realtà dell’inizio del nuovo millennio. Questa è la storia di un museo ancora vivo: la terra del passato vivente. Le fotografe presentate in questa mostra sono state scattate tra il 1992 e il 2000. Il libro presente in galleria è un tentativo di far luce su un’enclave relativamente piccola dell’area balcanica e per poter comprendere di più su questa afascinante area dell’Europa.

a cura di Eva Frapiccini

 

La mostra propone il confronto tra due ricerche sulla materialità dello spazio circostante e l’infuenza delle nuove tecnologie nel loro essere in continua evoluzione. Come lo spostamento tra la dimensione ottica e aptica viene risolta nella materialità dell’opera d’arte, così l’uomo si trova a vivere nella trasformazione del post-human, dove algoritmi e nuove tecnologie sostituiscono il libero arbitrio.
Limitless di Giusy Musto e Fashion Erbario di Filippo Bonelli coinvolgono il visitatore in una dimensione intima e rifessiva. Limitless propone un’indagine sulla visione e il ricordo di un luogo in trasformazione. Musto usa le mappe catastali in contrasto con le fotografe di un paesaggio conosciuto, rimandando ad un continuo attraversamento fsico di limiti, confni, quelli di proprietà, ma anche quelli esistenziali, di chi ha voglia e paura di esplorare nuove geografe. Bonelli indaga il linguaggio fotografco nel suo essere fne della vita, e richiamare il signifcato di “é stato” espresso da Barthes attraverso le immagini di piante. Nel lavoro di Bonelli la forma e il contenuto si sposano nel display espositivo: le immagini luminose di piante incastonate in scanners, che lui stesso defnisce “sarcofagi”, incarnano una duplice nostalgia Barthesiana, per l’oggetto fotografato e lo strumento tecnologico ormai scarto del tempo.

 

La mostra fa parte di Opentour 2019: una festa dell’arte lunga una settimana, dal 17 al 23 giugno, con la quale l’Accademia di Belle Arti di Bologna si apre all’esterno e “invade” numerose sedi e spazi espositivi e culturali cittadini, proponendo al pubblico l’occasione di scoprire e apprezzare i risultati dell’attività che studenti e docenti svolgono nelle aule.

a cura di Piero Orlandi

 

Architetti, ingegneri, urbanisti, docenti, artisti, ognuno di loro è stato invitato a presentare un’opera e a raccontarla. Sono stati tutti dei baby boomers, sono nati negli anni del miracolo economico italiano e hanno completato il proprio percorso di formazione quando si lavorava in gruppo, si credeva fermamente nell’interdisciplinarità, si immaginava una società diversa. In mostra ci sono plastici, serigrafe, schizzi a mano libera, acquerelli, sculture, fotografie, collografie, fumetti, dipinti, bozzetti, tavole di progetto. Un vasto insieme eterogeneo di cose che cerca un’assonanza generazionale, cementata da anni di collaborazioni, da frequenti incontri, dialoghi, scambi di idee. Sono testimonianze che raccontano gli anni Settanta, che per tutti sono stati gli esordi nella professione o nell’attività, ma giungono fno agli anni recenti; presentano un momento preciso della propria carriera o una singola idea guida capace di orientare a lungo il percorso professionale, un collage di memorabilia personali o il primo abbozzo di una ricerca; ci raccontano di concorsi di architettura, mostre d’arte, oggetti di disegno industriale, allestimenti museografci, piani territoriali, viaggi fatti o immaginati, libri scritti e pubblicati, cantieri di piccole e grandi dimensioni, strumenti ed utensili di lavoro. Emergono le diverse personalità e i diversi percorsi ma si può rintracciare un background comune nella fducia non smarrita per la sperimentazione e il progetto.

 
Opere di Sandro Breschi, Marco Bucchieri, Manuela Caldi, Paolo Capponcelli, Walter Cascio, Marco Cavani, Alessandra Cazzoli, Pippo Ciorra, Piero Dall’Occa, Antonio Gentili, Monica Manfrini, Cesare Mari, Marina, Mentoni, Romano Miti, Silvia Morselli, Piero Orlandi, Daniele Paioli, Roberto Peluso, Giulio Pesci, Stefano Piazzi, Mario Piccinini, Piergiorgio Rocchi, Mili Romano, Andrea Zanelli, Michele Zanelli.

a cura di Gina Costa e Marina Dacci

 

La selezione di fotografie di Paolo Simonazzi presentate in mostra propone temi e soggetti che meglio rappresentano la sua ricerca. Appartenenti a diverse e talvolta parallele serie di lavori, le immagini traggono il loro potere e signifcato da una coscienza quotidiana e condivisa di esperienze dello spettatore. Simonazzi comprende il ruolo complesso e il potere dell’immagine per ridefnire e focalizzare le nozioni di memoria, di luogo e del processo stesso del guardare.

Farsi coinvolgere da queste immagini signifca viaggiare tra luoghi reali, ricordati e immaginati e anche attraversare condizioni mentali di più ampio respiro. Qui si intrecciano due tradizioni: la profonda e ricca storia visiva dell’Emilia, la provincia centro-settentrionale che è la sua casa, e la mitologia della strada americana iniziata nei primi anni ’50.

Luigi Ghirri, un’infuenza riconosciuta e visibile, ofrì all’inizio questa possibilità, che Simonazzi riconsidera e rielabora. Entra nello spirito del luogo della sua amata Emilia per poi intrecciarlo con la sua passione per la cultura americana “della strada”, la strada come musa.

La chiave della riuscita delle fotografe di Simonazzi consiste nella sua capacità di catturare la nostra immaginazione con queste icone della banalità, proprio come fece Ghirri. Il suo franco umorismo nella rappresentazione ironica dei suoi soggetti è tratto dal linguaggio visivo della road photography americana. Dalle classiche immagini di strada di Walker Evans e Robert Frank a Ed Ruscha, Stephen Shore e William Eggleston, alle voci più recenti della “ballad of the highway”, la visione della strada aperta è stata la modalità con cui i fotograf hanno abbracciato uno dei temi più avvincenti della cultura americana. Allo stesso modo, Simonazzi celebra l’”Emilian Road Trip”.

Le sue foto, immediate e capaci di illuminare ciò che è facilmente ignorato, elevano il banale a straordinario e il bizzarro a umoristico; toccano tutti, indipendentemente dalla nazionalità: il loro potere trasformativo è in parte la chiave della loro riuscita. Signifcato e dignità scaturiscono dall’ordinarietà dei suoi soggetti, rendendo iconici oggetti quasi insignifcanti, stanze e beni di persone semplici. Queste immagini formano un diario visivo che unisce nazionalità e culture, creando in defnitiva un’intima canzone d’amore che risuona con tutti coloro che vivono sulla strada, indipendentemente da dove si trovino.

Le sue foto, immediate e capaci di illuminare ciò che è facilmente ignorato, elevano il banale a
straordinario e il bizzarro a umoristico; toccano tutti, indipendentemente dalla nazionalità: il loro
potere trasformativo è in parte la chiave della loro riuscita. Signifcato e dignità scaturiscono
dall’ordinarietà dei suoi soggetti, rendendo iconici oggetti quasi insignifcanti, stanze e beni di
persone semplici.
Queste immagini formano un diario visivo che unisce nazionalità e culture, creando in defnitiva
un’intima canzone d’amore che risuona con tutti coloro che vivono sulla strada,
indipendentemente da dove si trovino.

 

Forme indeterminate

Piero Orlandi

 

Mi trovo, con tutti voi che guardate, in una città non grande, fatta di casette a uno o due piani, uni- o bi-familiari, e proprio per questo sembra una piccola città, forse di mare. Però il mare qui dalla strada dove cammino non si vede, forse lo si potrebbe vedere salendo sui balconi al primo piano. Se sui balconi ci si potesse andare. Ma non ci sono porte per entrarci, né scale per salirci, e così sono costretto a continuare a camminare restando fuori dalle case e giù dai balconi. A quanto sembra, da queste case non si può nemmeno uscire, insomma lo spazio che conformano non è pensato per me, per noi, anzi è contro di me e mi impedisce – anziché consentirmi – mi impedisce di fare le cose che si fanno attraverso lo spazio: entrare, uscire, salire, scendere. Anche i miei sensi sono limitati, non posso vedere nulla intorno a queste case, solo piccoli lacerti di giardini e nient’altro, né montagne né strade, né pali della luce né persone, insomma niente di quello che di solito si vede in una città. Non vedo le finestre, non vedo le automobili, finestre e automobili sono gli elementi primari del paesaggio urbano, insieme con le facciate delle case e i nastri grigi delle strade. E poi non sento voci, c’è silenzio, anzi in un certo senso non c’è nemmeno silenzio, c’è più che altro una mancanza di suoni, il silenzio è quando tacciono gli uccelli, la gente, i musicisti di strada e tutto il resto, ma qui, nella città che dipinge Reali, non ci sono uccelli né auto, e dunque non c’è né rumore né silenzio. C’è un’aria densa, non è trasparente se non proprio qui davanti ai miei occhi, tutto intorno c’è un’atmosfera opaca, lo sguardo non riesce a perforarla, non vedo oltre. Non vedo altro che le forme equivoche che Reali mi consente di vedere, ma non mi è dato di capire con precisione a che distanza sono queste forme, la mancanza di una distanza chiara non mi consente di sapere se sono davvero case o invece sono oggetti, ferri da stiro o strumenti di lavoro, automobili o macchinari obsoleti. Sono forme indeterminate. Non ne sono note le dimensioni perché non hanno relazioni percepibili con l’intorno, intorno non c’è niente, oppure poco, e da questo poco non posso capire se quelle aree verdi sono giardini o campi coltivati, praterie o vasi di fiori, se quei selciati sono cortili o marciapiedi, spazi pubblici o privati, e dove portano, e dopo quanto si arriva.

Ma se, una volta visto quello che vedo in questa strana città, ci voglio ragionare su, e mi chiedo se mi piace o no, se è bella o brutta, se la riconosco come antica o moderna o semplicemente vecchia, e soprattutto se è vera o falsa, o anche solo verosimile, allora il mistero diventa sempre più difficile da decifrare. Vero il paesaggio di Reali non sembra, ma se è falso è comunque costituito da elementi veri, perché i muri sono della materia dei muri, le luci disegnano ombre che sono ombre, e dunque con gli elementi veri Reali costruisce un paesaggio che pare falso, così come il sorriso critico, sardonico, glaciale con cui guarda le cose lo porta a produrre dei ritratti immaginari di cose e case per le quali viene spontaneo provare affetto, non ostilità, magari compassione, e dunque un sentimento che non giudica ma condivide.

L’artificio di Reali produce un paesaggio artificiale, decisamente artificiale, di naturale ci sono solo i gerani – saranno poi gerani? – e i giardinetti – saranno poi giardinetti o è l’idea del giardinetto, il ricordo del giardinetto, il desiderio di un giardinetto? Questo succede perché a lui interessano le forme, più che i colori, i colori possono essere quelli o altri, cambia poco, l’effetto è sempre lo stesso, una miscela di realismo e di surrealismo e di irrealismo. E le altre poche cose naturali che ci sono, nei suoi dipinti, il cielo e le ombre, la terra e il mare, anche queste sono idee, in quei dipinti c’è l’idea del cielo, non c’è il cielo davvero, c’è qualcosa sopra quella che sembra una casa, qualcosa che sembra il cielo. Quella di Reali è una poetica in stallo, non si va né indietro né avanti, e anche chi guarda non sa se andare dentro a quel paesaggio, provandone un certo disagio o scappare da quel paesaggio che però lo attrae. Uno stallo, davvero. Il pittore si accorge del mio, del nostro stupore e confessa: “Questo è il mondo che mi sono creato, e non posso farne a meno”, deve inventarlo e riprodurlo continuamente, è la sua ossessione, e la sua pittura è il modo con cui si libera di questa ossessione ponendola fuori da sé, ma al tempo stesso è il modo con cui ubbidisce a questa ossessione, dedicandole tutte le sue giornate. L’ossessione però non dobbiamo vederla come se fosse una vicina parente della sofferenza, no, è invece – anche in amore lo è – una possibile evoluzione della passione, e spesso avere un’ossessione è una cosa quasi tranquillizzante, perché senza si starebbe perfino peggio, in preda alla noia.

Anche noi, come lui, non possiamo fare a meno del nostro paesaggio quotidiano, odi et amo, odiamo questa specie di carcere dove siamo imprigionati ma al tempo stesso lo amiamo, siamo dei carcerati di noi stessi, e a forza di osservare da quella finestra sempre le stesse cose abbiamo le allucinazioni, e le vediamo diverse, un po’ mostruose, cariche del mistero che ogni cosa osservata a lungo butta fuori. Il mistero che coglieva e raffigurava anche De Chirico, naturalmente è questo che ci viene in mente osservando Reali, ma non un mistero così aristocratico, bensì più popolare e massificato, più operaio o contadino, più legato a quegli anni del boom quando operai e contadini sono diventati proprietari delle case al mare.

Per le finestre vuote di infissi, per le strade vuote di gente, per i colori delle case e per la loro tendenza a parere cose viene in mente Sironi, e per i cieli piatti. Ma quelle di Reali non sono periferie, per la semplice ragione che non sono agglomerati di case e fabbriche ma ritratti di singole modeste costruzioni, non c’è il sentore della folla, delle masse, ci si aspetta di vedere sbucare al massimo un individuo singolo e solo. Queste costruzioni-costrizioni paiono davvero un inno, per quanto dissonante, alla mitologia del secondo novecento, la casa unifamiliare sul mare o nella campagna o alla periferia della piccola città. Siamo nelle Marche, dunque, non potremmo essere altrove. Quale altra regione italiana ha il mare, le piccole città e la campagna tanto quanto le Marche? E infatti Reali ha vissuto le Marche per tutta la vita, e il resto del mondo l’ha visto soprattutto attraverso la pittura, che sia Hopper o Morandi, e di Morandi ha la sedentarietà e il silenzio.

A Sirio – lo chiamo ormai per nome, lo sento davvero amico, per quanto è capace con le sue immagini di comunicarmi tutti questi sentimenti – a Sirio piace viaggiare per le strade intorno alla sua casa – che guarda caso è una casa unifamiliare in mezzo alla campagna – guardando tutto, ma senza porsi l’obbligo di capire tutto, non gli piace chiedersi cosa c’è là dentro quelle costruzioni, dietro ai muri, dietro alle facciate, dietro ai balconi, non vuole saperlo, e non vuole sapere nemmeno cosa è successo prima e cosa succederà dopo, non ama la narrazione, o comunque non è la narrazione che i suoi dipinti sottendono, ma il momento, il puro momento, l’istante. Quelle finestre murate, dove non si riconosce quasi più la traccia del riempimento, coperta dall’intonaco, dalla tinta e dal dilavamento della tinta nel tempo, quelle finestre che un tempo erano aperte e adesso chissà perché non lo sono più e non si sa da quando non lo sono più, sembrano narrare qualcosa, ma Reali non dice cosa, e forse non gli importa nemmeno. Viene in mente l’aggettivo grottesco, nel senso di troppo accentuato, tanto da sfiorare la deformità o l’assurdità. Dice: io sono lì, sono lì davanti alle case, e se c’è qualcosa che mi importa narrare, è narrare di me stesso, dire che sono uscito, ho camminato, mi sono trovato di fronte a quella casa, l’ho osservata a lungo e a forza di osservarla l’ho deformata con il mio pensiero, con il mio ricordo di qualcosa d’altro, di simile o di diverso, l’ho trasformata in una casa mostruosa, deforme e misteriosa. Tutto questo posso farlo perché sono sempre da solo, cammino da solo, dipingo da solo, scelgo da solo dove andare, sento da solo cosa mi attrae e cosa no, e da solo mi domando cosa succederebbe a me e a quella casa se io… e poi non finisco di chiedermi cosa, mi interessa solo il punto di trapasso tra il reale e l’irreale, ma non configurare l’irrealtà, solo abbandonare la realtà e transitare per quel punto di equilibrio. Di equilibrio, sì. Sono in equilibrio, in quel momento, e i miei dipinti registrano quell’equilibrio, l’equilibrio è precisamente il punto che non si può mantenere, è un punto da cui si transita, i corsi e i ricorsi della storia, di ogni storia. A me interessa figurare l’equilibrio tra il concreto e il possibile, tra il bello e il brutto, tra il nuovo e l’antico, tra l’uguale e il diverso, e potremmo continuare. Anche la natura la raffiguro così in bilico, dice Sirio: il mare è lontano e sembra che debba sparire da un momento all’altro dalla faccia della terra, le ombre danno incertezza, le descrivo non come appartenenti agli oggetti che si vedono ma portate da oggetti che non si vedono e proiettate su quello che si vede nel quadro. Una volta, dice, ho fatto una casa con l’ombra di un albero stecchito lì vicino. Una cosa triste? No, piuttosto una cosa senza speranza, quella che proprio manca in queste pitture è la speranza, ma perché è un sentimento non necessario: speranza di cosa, speranza perché? Sforziamoci di guardare in faccia il mondo così com’è, non è una questione di pessimismo, perché anzi Sirio vuole dare un assetto alle cose, ma il suo assetto è quello lì, quello che vediamo. Descriviamolo, e basta. Prendiamone atto. Possiamo amarlo lo stesso.

Le amo, dice Sirio. Amo le case, questo è evidente a tutti. Le case, le case, le case. Le case per amarle davvero non devi conoscerle troppo, aggiunge. Non devi sapere come sono dentro, devi sentirne il mistero. Devi guardarle a lungo e poi dipingerle, magari… ascoltando intanto Mahler e sentendoti il tardo romantico che non sei, che non puoi più essere, ma che ti piacerebbe essere stato.

A cura di Piero Orlandi

 

La casa si trova nella campagna di Sarnano, in provincia di Macerata. Costruita all’inizio del Novecento, è stata abitata per oltre un secolo, poi è rimasta vuota di colpo, in quanto dichiarata inagibile a seguito degli eventi sismici del 2016 e 2017, la cui magnitudo massima è stata appunto pari a 6,5. Due fotografi sono entrati nella casa e hanno fotografato gli interni. Di norma, i terremoti sono raccontati dagli strumenti di informazione attraverso immagini sconvolgenti. Il lavoro fotografico sulla casa ferita ha un obiettivo diverso: la distruzione prodotta dal sisma viene descritta in un modo dimesso ed intimista, non per attenuare l’evidenza drammatica dei fenomeni, ma al contrario per testimoniare che il loro effetto devastante su quei territori deriva in larga misura proprio dalla sommatoria di migliaia di eventi che hanno distrutto o lesionato gravemente singole case private, il tessuto abitativo di una grande area in quattro regioni.
Fabio Mantovani è un fotografo di architettura di cui Spazio Lavì! ha ospitato nel 2014 la mostra Cento case popolari; ha fotografato la condizione quotidiana della casa, il suo essere perennemente al buio, priva di vita e di abitanti, un’oscurità da cui ci si chiede in che modo e quando risorgerà.
Giovanni Zaffagnini ha svolto negli anni Ottanta numerose ricerche etnografiche, documentando le tradizioni dell’ambiente rurale. In seguito si è rivolto principalmente al paesaggio contemporaneo. Le sue immagini evitano ogni clamore, non raccontano l’evento ma arrivano volutamente dopo, descrivendo il terremoto attraverso il vuoto e l’abbandono in cui la casa si trova a dover sopravvivere, nel silenzio.
Affiancando alle fotografie degli ambienti le carte, i quaderni e gli album di famiglia custoditi nei cassetti all’interno della casa, si è inteso dar voce – senza enfasi, con la forza parlante di immagini dalla temperatura corrispondente all’ambiente reale – alla speranza di una ricostruzione materiale e umana.

L’attesa come recupero dell’umanità
Davide Da Pieve

 

L’esposizione ideata da Alessandra Marolla narra la storia di un’attesa e incarna un momento di sospensione in cui le coordinate spaziotemporali vengono meno per rivolgersi direttamente ai nostri sensi.

Lettere dallo spazio/liturgia della memoria è un’esposizione introspettiva, una narrazione che si sviluppa attraverso ricordi e memorie sotto forma di frammenti, in cui è possibile scorgere, riprendendo le parole di John Berger, una tensione tra cultura della sopravvivenza e cultura del progresso: una relazione inestinguibile tra passato e presente, tra memoria e divenire.
Tale legame risulta evidente nella serie di fotografie collocate sul piccolo ripiano; l’impressione di date per mezzo di timbri nel retro delle immagini porta all’attenzione il divario che separa una dimensione passata da una volontà di attualizzazione dell’immagine.

Ciascun visitatore può prendere gli scatti esposti e portarli via con sé, solo dopo aver impresso un timbro con la data in cui lo fa. Affiancandosi all’impressione precedentemente realizzata dall’artista – con la data dello scatto – il secondo timbro evoca uno scarto, una distanza, ma, al contempo, una convergenza: un flusso inarrestabile equiparabile al processo di ossidazione a cui sono sottoposti I supporti in ferro di altre opere esposte.

Le lettere installate a parete giungono metaforicamente dallo spazio, ovvero da un mittente sconosciuto, lasciando allo spettatore assoluta libertà immaginifica, senza correre il rischio di rendere ogni singolo frammento un semplice documento. Ci troviamo di fronte a un grande archivio, a un’accumulazione di frammenti di vita che Christian Boltanski, definirebbe “tracce di identità perdute”. Con queste parole colme di energia l’artista francese indica la concretezza di un’assenza, la matericità di un frammento che acquista nuovo valore ogni volta che viene osservato.
La distribuzione ordinata e simmetrica delle lettere evoca una certa solennità dell’opera, dando vita a un archivio composto da numerosi frammenti di parole e immagini.

L’archivio infatti, nel nostro caso, non è concepito per stimolare una lettura che rispetti una logica consecutio temporum; ciascun elemento in esso contenuto costituisce l’inizio di una narrazione che si sviluppa attraverso piccoli frammenti, lasciando al visitatore la possibilità di leggere una storia da costruire e ricostruire di volta in volta.

Le parole e le immagini, per certi aspetti, sono impiegate dall’artista come mezzo intercambiabile: entrambe sono intendibili come mezzi di trasmissione capaci di veicolare contenuti e, nel medesimo tempo, come reliquie e testimonianze: l’immagine è eterna, è mezzo inossidabile del fragile e instabile passaggio dell’uomo, proprio come accade con il messaggio scritto.

Nonostante le similitudini tra i due mezzi è importante sottolineare alcune differenze: se la fotografia è realizzata per mezzo di uno scatto immediato, la scrittura di una lettera è qualcosa di più lento, un’azione manuale prolungata e fluente che contraddice le spinte tecnologiche avviate dall’immediatezza del click fotografico.

L’arte, quando è legata alla memoria e al ricordo, diventa veicolo di conoscenza e di valori che arrivano all’osservatore in modo diretto e immediato, riportando alla mente immagini forti, e favorendo lo sviluppo di pensieri estremamente personali.

 

Lettere dallo spazio/liturgia della memoria è una mostra evocativa con un forte carattere di apertura, non solo per i suoi contenuti, ma anche per il coinvolgimento empatico rivolto al pubblico. Lo spazio è dunque inteso come luogo simbolico dell’altrove, in cui tutto resta sospeso, in attesa. In questo senso dobbiamo intendere la liturgia: una sospensione tra l’opera e il pubblico, il dono dell’attesa come momento di condivisione intimo. Nel pieno degli sviluppi dell’immediatezza dell’era digitale, nel periodo in cui anche la scrittura è diventata per lo più una somma di numerosi click, potrebbe sembrare quasi paradossale, o addirittura un sentimento nostalgico e fuori moda, parlare di attesa.

La velocità dell’algoritmo corrisponde oggi a una grande frenesia nei comportamenti. I nuovi dispositivi impiegati per la comunicazione ci spingono a esercitare una lettura sempre più per sommi capi, suggestionando negativamente la comprensione del contenuto e del nostro rapporto con la realtà.

 

L’attesa diventa così elemento cardine dell’esposizione: un riscatto, un agente nella sfera percettiva e sociale, per cercare di portare verso l’esterno la densità dei territori incogniti dell’essere.