A cura di Roberta Valtorta

 

Quando uno spazio viene rappresentato fotograficamente, esso non è più solo una rappresentazione ma diventa una realtà in sé: una nuova realtà autonoma, con limiti ben determinati, luci e rapporti interni stabiliti, che si dispone su una superficie bidimensionale dotata di una propria grandezza, e lì rimane, statica. La scena è ripresa da un punto di vista preciso, quello e non un altro, ed è stretta dentro una inquadratura molto ben determinata, quella e non un’altra. Quando questa fotografia, questo oggetto bidimensionale che rappresenta uno spazio, viene installata in un altro spazio, i due spazi – quello rappresentato e quello “reale” – entrano in una relazione immediata e visivamente potente che li rende improvvisamente necessari l’uno all’altro, ma al tempo stesso diventano incerti, oscillanti, spaesati. Si legano tra loro, eppure uno di essi è uno spazio “virtuale”, è “solo” una fotografia, l’altro è uno spazio “reale”, “vero”. Il noto, classico avvertimento di Magritte “ceci n’est pas une pipe” è lì, evidente, davanti ai nostri occhi: “attenzione, questo non è uno spazio vero, è una fotografia”, eppure la nostra percezione instaura tra i due spazi di diversa natura un rapporto alla pari, come naturale.
A partire dal 2010 Annalisa Sonzogni lavora ad approfondire questo complesso rapporto tra spazio e rappresentazione dello spazio usando sia la fotografia sia l’installazione. In particolare, va precisato, l’artista sceglie lo spazio architettonico. E lo fa immedesimandosi sinceramente nella questione, buttandosi anima e corpo in medias res. Nel 2010, con Passeggeri, installa in ambienti della Casa del Fascio di Como fotografie che ha realizzato nello stesso luogo, e nel 2014, con Synopticon, installa nei saloni della Pinacoteca di Brera immagini da lei realizzate nello stesso luogo. Nella serie in progress Identikit, iniziata nel 2014 ma già annunciata nel metodo in Lilian Baylis School un anno prima, installa invece fotografie di certi spazi in spazi altri aventi con gli spazi fotografati assonanze di forme, colori, strutture. In questo modo il livello di complessità del discorso aumenta e la relazione tra i vari elementi visivi si fa più ambigua, nel senso etimologico del termine: può essere vista da più parti. Infatti l’installazione si offre all’osservatore in due differenti modi: la fruizione diretta nel vero e proprio spazio tridimensionale che accoglie dentro di sé anche le immagini bidimensionali; e la visione dell’installazione fotografata, e in questo caso avremo fotografie che rappresentano lo spazio “vero” all’interno del quale si trovano anche le fotografie installate. Il pensiero corre in questo caso alla nota sequenza fotografica di Duane Michals Things are Queer, che conduce l’osservatore da uno spazio fotografico a uno spazio “reale” e poi ancora a uno spazio fotografico che però sembra uno spazio “reale” e avanti ancora in un percorso straniante potenzialmente senza fine.
Annalisa Sonzogni predilige spazi complessi, con più pareti, finestre, angoli, colori diversi spesso netti e ben differenziati tra loro, utilizza talvolta anche specchi per creare raddoppiamenti, rimandi ed effetti di moltiplicazione delle strutture, come in un caleidoscopio. Non si pensi però a installazioni e immagini che producono un senso di caos o di confuso accavallamento di visioni e geometrie. Al contrario, l’artista punta lucidamente a ricreare spazi credibili, assai articolati ma ben controllati e ordinati quasi come dipinti della stagione astratta o, più esattamente, costruttivista: progettati, proprio come accade nell’architettura. Il suo lavoro è infatti segnato in modo determinante dal rapporto tra fotografia e architettura, mette in discussione l’impianto prospettico della scena ma in fondo lo rispetta e lo riprogetta con decisione e chiarezza, ponendo in dialogo realtà diverse, fisiche e virtuali come si diceva, sulla base delle quali possono nascere narrazioni diverse, sia di tipo visivo, sia di tipo architettonico. Va poi sottolineato che Sonzogni sceglie sempre spazi vissuti, nei quali è possibile leggere tracce di storia e di vite umane che di lì sono passate: qua e là dagli ambienti affiorano dunque frammenti di memorie individuali e collettive, a dimostrazione che l’architettura è qualcosa di vivo, è un organismo nel quale il visitatore-osservatore sente il peso del tempo, e sente il proprio vissuto misteriosamente mescolarsi a quello del luogo.

A cura di Elena Orlandi

 

Dopo lo sfratto, un padre e un figlio cercano casa. Molte ne vedranno: muri, finestre, tetti, persiane, staccionate, pali; vetri, legno, pietre, mattoni.
Si vive non solo nei bei palazzi dei quartieri gentrificati alla moda, ma anche in piccole stanze in affitto, cascine semiabbandonate, appartamenti classe energetica G, sottotetti e cantine, ruderi in estrema periferia, roulotte, baracche, tende.
Il racconto di Davide Catania parla di questo, e i disegni che lo integrano e sovraccaricano diventano indispensabili alla comprensione della ricerca ossessiva e della discesa spiraliforme verso alloggi sempre meno riconoscibili, in quanto tali, agli occhi di noi portatori di uno sguardo privilegiato e perciò profondamente miope.
Il segno spezzato, dinamicissimo, della matita morbida, che tradisce il gesto veloce e ripetitivo, restituisce movimento alle strutture delle case, delle automobili, dei parcheggi, delle impalcature. Tutto è mobile, anche gli immobili per eccellenza; tutto è instabile, precario.
Forse solo l’accumulare segno nero su segno nero restituisce un po’ di struttura alla materia, proprio mentre la mette in discussione, ma questo è subito contraddetto dall’uso dei piccoli fogli di carta povera che quel segno accolgono.
Niente rimane fermo, tutto si inclina e infrange, come preso in un vortice veloce, eppure un paesaggio viene ricomposto.
Un paesaggio fatto di pietre, impalcature, staccionate, ferri vecchi e arrugginiti. Un paesaggio in cui ricostruire il bello in maniera più privata e meno appariscente, perché questo è necessario.
Dove il bello non c’è, va immaginato.

Oltre il paesaggio

 

Il 15 ottobre 2016, XII giornata del contemporaneo dell’ AMACI, abbiamo allestito una mostra collettiva dal titolo “Oltre il paesaggio” nella sede di Lavì! City a Bologna.

Sono esposte opere di alcuni degli artisti che abbiamo ospitato negli anni scorsi. Il titolo sottolinea che oltre a tutelare e valorizzare i nostri beni culturali è importante sviluppare azioni di miglioramento dei paesaggi ordinari, spesso preda dell’indifferenza e dell’individualismo. Gli artisti che espongono sono impegnati a testimoniare attraverso il proprio lavoro, con punti di vista differenti, un’attenzione viva al rapporto tra l’ambiente di vita collettiva e le singole identità degli abitanti. Le opere, visibili nell’archivio mostre, sono a disposizione di chi intende acquistarle, per sostenere l’attività della associazione. Contattateci.

A cura di Sara Cipolletti

 

L’esposizione in corso, ed il libro che la accompagna, presentano una selezione di fotografie alle quali Mariano Andreani consegna la narrazione di una esplorazione compiuta attraverso la pianura centrale veneta.

Con l’occasione l’autore cerca di chiarire un’ipotesi complessiva di approccio e orientamento nella descrizione dei territori contemporanei: le sequenze fotografiche sono infatti le figure narrative conclusive e successive nelle quali far convergere sia i diversi processi di conoscenza di un territorio, quello elementarista per parti che compongono il tutto e quello per relazioni analogico-differenziali, sia i due punti di vista contrapposti ma peculiari della rappresentazione, quello cartografico e quello fotografico.

L’immagine satellitare presente in mostra individua una porzione di territorio inscrivibile in un quadrato di 50×50 Km e rappresenta l’estensione del campo di indagine, mentre una linea trasversale seleziona gli elementi, le figure e le strutture, mettendo in relazione ambiti, percorsi, punti nodali, tematismi geografico-ambientali e infrastrutturali.

Organizzata in una unica sequenza fotografica, la mostra ricostruisce idealmente quella linea di sezione cui si faceva riferimento, in un nuovo percorso astratto ed esperienziale, che non permette più di segnare categoricamente su carta il tracciato reale del percorso, ma diviene appunto una nuova topografia possibile dei luoghi.

A cura di Maria Luisa Vezzali

 

Colloquio con Mirta Carroli a cura di Maria Luisa Vezzali

 

Il termine “evoluzione”, scelto da Mirta Carroli come titolo di una delle sue ultime fatiche e per sineddoche anche della sua più recente personale, sembrerebbe – a una prima reazione – alieno rispetto al campo d’azione della scultrice. Sia perché le sue opere arcane e taglienti si collocano in una zona lontanissima dalla proteiformità delle linee curve zoomorfe e dall’ambito biologico che la parola evoca, sia perché chi ha familiarità con questa artista ben conosce la sua frequentazione esperta e affettuosa della tradizione, il suo rispetto per il passato, la sua rara sensibilità poetica e mitopoietica. Ma “evoluzione” significa più in generale ogni processo di trasformazione graduale per cui una data realtà passa da uno stadio all’altro attraverso perfezionamenti successivi ed è qui che si innesta il senso pieno e profondo della parola per Mirta Carroli: un progress vita/arte di lavorio incessante, senza alcun riposo sulla soddisfazione dei risultati, di umile ripensamento e messa in discussione, di indefesso apprendimento. Dopo ventidue anni di amicizia, collaborazione, felice sinergia tra poesia e scultura, e con alle spalle l’esperienza di due libri realizzati insieme, posso affermare con sicurezza che Mirta è movimento, fucina, ribollire di creatività, intelligenza e passione e le sue opere sono come graffi sulla volta del tempo, armi per incidere nel mondo quel che resta della presenza positiva dell’umano, per affermare la ricchezza di una dimensione “virtuale” altra, non in opposizione alla quotidianità, ma in sua difesa e potenziamento.

Che cosa rappresenta per te la mostra che stai preparando per la galleria Spazio Lavì! a Sarnano, nel cuore delle Marche?

E’ una personale di riflessione, su tutto il mio lavoro. Verranno presentati infatti sculture, disegni e gioielli: questi sono i campi di interesse che mi vedono maggiormente impegnata. Vorrei costruire uno spazio compresso, forte e omogeneo nelle due sale comunicanti della galleria. Ogni opera deve catturare l’attenzione e rimandare come contenuto e affinità a quella successiva, per ottenere una unitarietà di intenti.

Le tue ultime sculture, tra cui quella recentemente inaugurata in una rotonda davanti alla Stazione di Lugo, sono in ferro, il materiale che prediligi e che – come spesso dici – costituisce il tuo materiale di affezione. Hai usato anche in questo caso il tuo amato ferro?

La scultura principale “Evoluzione” è nella mia ricerca una novità assoluta perché eseguita in acciao COR-TEN. Non avevo mai usato questo materiale per le sculture di piccole e medie dimensioni. Le altre sculture invece sono in ferro non patinate. “Evoluzione” è costituita da tre elementi avvicinati con forme circolari frazionate. Suggerisce un movimento quasi inarrestabile dei volumi. La stessa tensione viene avvertita anche nelle altre sculture, soprattutto sul bassorilievo a parete, dove ho utilizzato ferri antichi forgiati a mano provenienti da Sarnano.

Disegnare, quasi ogni giorno, è una tua grande passione. Il disegno è per te una grande sfida; cerchi di ottenere dalle matite e dalle chine la massima espressione. A che punto siamo con il disegno?

Presenterò una serie di nuovi disegni creati appositamente per questa mostra. Verranno esposti nella “sala rossa” della galleria dove le pareti sono decorate con un vivace fondo rosso pompeiano. I disegni richiamano le sculture e costituiscono una nuova ricerca iconografica di forme e volumi. I segni sono estremamente sintetici e i colori delle chine rimandano a una tavolozza ridotta fondamentalmente ai rossi e ai neri, senza per altro dimenticare i toni bruni che si legano alle sculture in ferro. Cerco di migliorarmi e di riflettere molto sui disegni. Mi accompagna sempre una massima di Paul Valéry che condivido pienamente: «il disegno è la più ossessionante tentazione dell’intelletto».

Saranno presenti in mostra anche alcuni gioielli in argento. Noi abbiamo lavorato molto sui gioielli, riflettendo insieme sul senso e sulle rifrazioni delle linee, sui rimandi delle pietre e dei frammenti, sulle possibili continuità tra parola/segno/corpo/spazio, arrivando nel 2011 alla pubblicazione di un libro d’artista, Forme implicite. Gioielli di faiences / Unearthed Shapes. Faiences jewels, edito dalla casa Editrice Allemandi di Torino. Tu affronti diverse linee nella tua ricerca del gioiello contemporaneo. In questa occasione cosa presenti?

Insieme ai galleristi ho pensato di posizionare i gioielli in parete come piccoli quadri. I gioielli appositamente progettati ed eseguiti per questa mostra sono piccole sculture a tutti gli effetti in un metallo prezioso come l’argento. Sono accompagnati da corallo, lapis e frammenti di maiolica faentina del cinquecento “famiglia alla porcellana”. Frammenti di maioliche antiche che da tempo utilizzo come pietre preziose e che incastono nel metallo. Ho chiamato questa mia ricerca “Delle forme pure”. In questi gioielli posso sperimentare molte tecniche dell’oreficeria e ricercare linee nuove nella scultura di piccole dimensioni su gioielli da vivere e da indossare nella contemporaneità.

gianmaria-orlandi

 

A cura di Luciano Leonotti

 

La Torre di Babele (Genesi, 11, 1-9). Tutti parlavano la stessa lingua e vollero costruire una torre che arrivasse fino al cielo. Dio vide in questa opera un atto di superbia, così li confuse facendo in modo che parlassero lingue diverse e li disperse su tutta la terra.

La Torre Unipol di via Larga, fotografata da Angela Todaro, si ferma molto prima di toccare il cielo per paura di qualche anatema, ma nello spazio lineare sul limitare della pianura è lì piantata come una lama a provocare. Le fotografie guardano da tutte le angolazioni come per sincerarsi di quello che è avvenuto in un paesaggio semplice fatto di condomini, supermercato e giardini pubblici, la torre è sola, l’unico riferimento similare è un condominio anni settanta, ma è una brutta compagnia. La torre non sembra eretta dalla terra ma piovuta dal cielo, UFO verticale che da un momento all’altro pare possa ripartire, di notte, silenziosamente. Le immagini testimoniano la sua presenza ma anche la sua assenza, skyline alterato come un elettrocardiogramma che ha un sobbalzo improvviso, un colpo, visivo. La luce quasi sempre chiara nell’aria tersa autunnale prova a scaldare le lucide superfici taglienti del totem metallico insieme alle fronde dei pioppi, che si agitano, indifferenti. Le macchine sfrecciano sulla Provinciale, rallentano all’incrocio e ripartono con stridore.

Nessuno più vede queste devozioni al cielo fatte di piccole stele, edicole votive popolari nate per viaggiatori lenti, alle quali essi misuravano e affidavano il proprio destino in cammino. Qualcuno ancora protegge dalle sterpaglie queste presenze verticali e porta qualche fiore, e ci conforta lo sguardo di Gianmaria Orlandi che le ha scovate, mostrate e sottratte all’indifferenza delle mutazioni del paesaggio, dai detriti, dai cartelli, dall’asfalto, dalle villette. Se il sacro è stato allontanato dal nostro mondo contemporaneo, queste stele contadine testimoniano di un mondo semplice che si è fatto complicato e astratto. Sono a ricordare che il nostro cammino ha bisogno di punti di riferimento, di soste per meditare dove stiamo andando, che molte cose che stiamo facendo forse sono vane, che siamo trascinati da un vortice di cose da fare che ci fanno percorrere i nostri spazi senza appartenere a questi spazi, come fuggitivi in cerca di qualcos’altro, e quindi osservare queste tracce erette prima di noi è come riappropriarsi del tempo e fermarlo per il nostro bene.

Luciano Leonotti

 

Mostra tenutasi in occasione di Opentour 2016

Dalla pittura alla scultura e all’incisione. Dalla fotografia al design, dalla moda al fumetto, dalla grafica alle produzioni cine-video. Una quarantina di eventi in cinque giorni, negli spazi di via Belle Arti 54 e in giro per la città, in gallerie d’arte, chiese, luoghi istituzionali e altre sedi espositive. È il ricchissimo programma di Opentour, una festa dell’arte lunga una settimana: da martedì 9 a sabato 13 giugno, in occasione della fine dell’Anno Accademico, l’Accademia di Belle Arti di Bologna apre le porte alla città e mette in mostra i lavori realizzati dai suoi studenti.

 

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A cura di Marina Mentoni e Paolo Gobbi, con la collaborazione di Emanuele Bajo, Matteo Catani, Paul Meccanico

 

Facendo seguito alla convenzione, stipulata nell’anno accademico 2012-13, tra l’Accademia di Belle Arti di Macerata, l’Associazione Culturale Spazio Lavì! e il Comune di Sarnano, il  workshop SARNANOSCAPE 5 – Abitare un luogo. Storie, volti e cose di Sarnano si è posto l’obiettivo di continuare il proficuo rapporto di collaborazione e di scambio – che nel 2013-14 si è concretizzato nel workshop sul frottage SARNANOSCAPE 3 e nel 2014-15 nel workshop sull’acqua SARNANOSCAPE 4, oltre che negli eventi espositivi finali presso il Loggiato Comunale di Sarnano – con una realtà locale attenta alla valorizzazione di tutto ciò che caratterizza il suo patrimonio socio-culturale.

Inserito nelle celebrazioni del 750° anniversario del riconoscimento a libero comune, il progetto si configura come strumento d’incontro e dialogo con le persone (abitanti e lavoratori di ogni genere) che connotano con il loro esistere e agire quotidiano la vita cittadina di Sarnano. Particolare attenzione è stata rivolta non solo agli antichi mestieri e saperi, ma anche alle nuove realtà produttive e alla loro capacità di mantenere, attraverso il lavoro, attivo e vivo il territorio. La raccolta di testimonianze dirette provenienti da settori diversi (agricoltura, industria, artigianato, cultura, turismo, ecc.) ha contribuito alla costruzione del docufilm Abitare un luogo. Storie, volti e cose di Sarnano, parte costitutiva del workshop, in cui l’esperienza passata o presente del fare e l’importanza della sua trasmissione culturale, così come il racconto di vite vissute, hanno stimolato gli studenti non solo nella produzione di immagini fotografiche, nelle registrazioni video e nel montaggio, ma anche nell’esecuzione di opere che, declinate con varie modalità espressive, promuovono ulteriori riflessioni sul senso dell’abitare e sul valore costruttivo del fare.

La mostra allestita nel Loggiato Comunale si presenta come un grande raccoglitore di memoria, di appunti e ricordi, un “deposito” di immagini e oggetti, in contenitori di diversa grandezza, prevalentemente aperti, i quali, composti singolarmente con la tecnica dell’assemblage e dislocati nell’installazione a terra, costituiscono un insieme eterogeneo, ma armonico, che alludendo simbolicamente a una planimetria tridimensionale di Sarnano, rivisita e reinterpreta le tipologie professionali così come la loro produzione di beni materiali e immateriali.

La carrellata di fotografie distribuite lungo le pareti, ritratti e luoghi visitati, guida il percorso espositivo soffermandosi sullo scorrere della quotidianità scandita dal lavoro e dalle relazioni umane, dal loro valore.

Il rapporto tra arte e impresa, sollecitato e ospitato da Spazio Lavì!, è documentato nella mostra  Progetto Airstone dove sono esposti i risultati di un felice incontro tra l’ABAMC e la ditta Paul Meccanico. Si tratta di undici progetti di una borsa della collezione, il modello Airstone, ideati dagli studenti e presentati insieme alle quattro borse premiate. Realizzate con sapiente cura artigianale, le borse comunicano, nella loro originale unicità, quanto nel processo formativo siano fondamentali le occasioni di crescita, le esperienze di confronto e di scambio con chi opera, a vario titolo, nel territorio.

SARNANOSCAPE 5 ha visto la partecipazione degli studenti iscritti ai corsi di Tecniche Pittoriche, Tecniche e Tecnologie delle Arti Visive Contemporanee, Laboratorio delle Tecniche per la Pittura, Pittura, Applicazioni Digitali per l’Arte, Fotografia dei Beni Culturali, Paesaggistici e di Architettura, Metodologia Progettuale Comunicazione Visiva.

Marina Mentoni

 

A cura di Paola Ballesi

 

Ciò che è nascosto non ci interessa
Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche  

 

L’esergo sembra illuminante per comprendere il percorso di ricerca del giovane artista rumeno Mӑdӑlin Ciucӑ, dalla formazione all’Accademia di Belle Arti di Cluj Napoca, perfezionata in Italia presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata che ha accompagnato i suoi esordi nel mondo della pittura e l’ingresso nel sistema dell’arte, fino alla più recente produzione.

Le ragioni della sua pittura, infatti possono essere fatte risalire alle concause della rivoluzione scientifica del XVII secolo, basata sul presupposto che bisognasse raschiare la superficie delle cose per cercare il fondamento della realtà oggettiva profonda, immodificabile, indipendente dal soggetto e così raggiungere descrizioni condivise e giudizi universali su cui impiantare le discipline scientifiche. Ne è seguito di rimando che lo studio della superficie, di ciò che appare, è divenuto nel tempo sempre più interessante  proprio perché le scienze sono state costrette ad impoverire la descrizione dell’apparenza dei fenomeni pur di poter andare allo scandaglio di principi fondamentali. Di fatto, il prezzo pagato per costruire modelli matematici che giustificano il mondo, dalle scienze naturali all’economia finanche alle scienze dell’uomo, è l’eliminazione della nostra esperienza diretta, l’unica che invece rende ragione di questo mondo variegato, ricco, affascinante.

Dunque, al di là degli indubbi irrinunciabili vantaggi derivati dallo sviluppo delle scienze e dei modelli matematici che  rendendo affidabile la realtà hanno contrassegnato le tappe del progresso scientifico, c’è una qualità dell’esperienza soggettiva che in qualche modo deve essere salvaguardata. Di questo delicato compito, a partire dall’ultimo scorcio dell’800, quando diventa virale la crisi di fiducia nelle facoltà dell’intelletto e  nelle possibilità del linguaggio razionale di comunicare il reale,  si fa carico in particolar modo la ricerca artistica. Dalle arti visive alla musica, la potente carica “fenomenologica” insita nelle arti che vantano una precipua, stretta relazione tra io e mondo, diventa il dispositivo più idoneo per indagare l’universo cangiante delle apparenze che schiudono  nuovi possibili scenari e con essi nuovi significati.

Su questa lunghezza d’onda trova la sua spontanea fonte di ispirazione la pittura di Mӑdӑlin Ciuca, da sempre concentrato sul tema del ritratto che gli consente, confrontandosi con i grandi artisti del passato,  di cavalcare le superfici, moltiplicare le luci e le ombre attraverso lo spettro delle tonalità percettive con cui  inquadra e contemporaneamente disgrega tanto il profilo di un volto quanto quello di una montagna.  Ritratti costruiti imbastendo pazientemente le molteplici caleidoscopiche versioni dell’apparire allo sguardo, vibratili di emozioni e di incroci sapientemente catturati dal pennello con tocchi densi e pesanti, o leggeri e impalpabili come quelli suggeriti dalle trasparenze delle sottili velature. In questo modo, pennellata dopo pennellata, gesto dopo gesto, l’artista compone l’immagine che comincia ad acquistare fisionomia man mano che si libera dalla forma statica dell’oggetto ‘ritratto’ per diventare fenomeno intenzionato da una coscienza e dunque qualcosa di essenziale perché, sostiene Sartre, “l’apparenza non nasconde l’essenza, la rivela: è l’essenza”.

Le pennellate  accompagnano e assecondano impercettibili  ritmi di sistole e diastole precisi ed armonici  che certificano come l’artista abbia gradualmente liberato e guadagnato alla vita esseri altrimenti ancora prigionieri dell’hic et nunc dello scatto fotografico, grazie al suo sguardo penetrante restituito dalla potenza del gesto creativo tanto più forte e seduttivo quanto più guidato dal sapere della tecnica e dalla nonchalance della sprezzatura. Tecnica, talento, creatività sono qualità indispensabili per declinare un’arte che si offre nel suo artificio come natura, una naturalezza che può essere conseguita e raggiunta solo attraverso la fatica e lo studio, che perciò si trova alla fine e non all’inizio di un percorso di ricerca attento sia alla contemporaneità che alla storia.

In questa mostra  il canovaccio per la messa in scena dell’apparire è il bianco e nero con tutta la gamma dei grigi, i toni e i contrasti sapientemente dosati dall’artista per presentare il motivo del ritratto rivisitato con la sensibilità del Lebenswelt, il mondo della vita o delle validità pre-logiche che contrariamente all’oggettività scientifica mostrano le cose come sono nella loro essenza. A questo mondo appartengono i soggetti rappresentati che Mӑdӑlin ci fa vedere. Volti umani ora trattati come rocce scistose, volumi scabri e petrosi resi con pennellate forti e drammatiche che portano ad una intensa accentuazione espressiva, ora vibratili di emozioni ma più composti e classicheggianti. E allo stesso modo vedute aeree di paesaggi, catene di montagne dell’Appennino marchigiano  dipinte  come corpi  vivi  ed ansanti adagiati in  vaste pianure con le sommità immerse in cieli grigi screziati, profondi e gonfi di nubi.

Così lo spazio della tela travalica verso gli spazi immensi dell’arte dove la gradualità dei toni e i forti contrasti giocano una partita senza esclusione di colpi mentre la luce dei bianchi a volte spiazza e a volte intenerisce le ombre in un equilibrio armonico che non può e non deve essere sconvolto. Infatti, proprio l’incommensurabilità degli “infiniti spazi” diventa la misura per l’accettazione e la consapevolezza del limite che scardina la hybris del possesso e del potere mettendo uomo e natura sullo stesso piano. Accomunati e sublimati con identica scioltezza tecnica nella poesia dei portrait, uomo e natura vanno incontro al loro incalcolabile destino scandito da millenarie increspature di onde gravitazionali che si propagano all’infinito intrecciate ad impercettibili refoli di sintesi spirituali fatte di storie, miti e leggende di Sibille, Amalassunte, Angeli RibelliAntiche lontanissime eco che rimandano all’immensità degli spazi siderali e dell’immaginazione.

Paola Ballesi