A cura di Monica Manfrini

 

“Gli incontri avvengono sempre nei momenti in cui la mente è molto libera o molto affollata: nel primo caso donano alla nostra anima qualcosa di nuovo, nel secondo liberano la nostra vita da qualcosa di sbagliato” (Osho).

 

Le parole del filosofo indiano trascritte nell’esergo riproducono con immediatezza e concisione le sensazioni che ci vengono dalle opere di Manuela Caldi. Attenta osservatrice della natura, ma anche del paesaggio costruito dall’uomo, da anni l’artista trae linfa vitale da queste esplorazioni del visibile. L’acqua e la terra, le luci e i colori sono elementi da usare sulle tele. Tele che a loro volta diventano testimonianza e tracce della riflessione/esplorazione del mondo reale effettuata dall’artista. L’esperienza alchemica del lavoro è il valore profondo dell’opera di Manuela Caldi. Mescolare, plasmare, graffiare, incidere sono i passaggi necessari per spostarsi dal visivo al tattile. Le superfici sono la dimensione preferita, ma non solo come manifestazione tangibile della materialità delle cose. Lo spostamento dal visivo al tattile ci consente di fare un’esperienza in un mondo culturale diverso. L’artista ci fa entrare in contatto, contatto reale e profondo, con i muri dell’architettura. La formazione artistica di Manuela Caldi, architetto da molti decenni, ha impregnato il suo linguaggio poetico. La sua è un’architettura dove i muri non creano strutture stabili, ma luoghi di metamorfosi dove lo spazio ha finalità espressive. Ci vengono in mente le esperienze sulla superficie di Piero Manzoni e le ricerche spaziali di Lucio Fontana o le indagini sulla terra di Leoncillo, poi sfociate nell’Informale.
Nel lavoro di Manuela Caldi si respira la presenza di queste due anime, quella della spazialità architettonica e quella della sperimentazione visiva. L’incontro di questi due mondi, solo apparentemente distanti, ha qualcosa di magico che spinge a toccare fisicamente le sue opere, trasferendo in chi guarda una parte della vis creativa che le ha generate.

Alcune delle sollecitazioni più importanti per la sua pittura, ricercate di anno in anno, quasi come una necessità fisica, sono venute dall’isola d’Elba, un luogo eletto dall’artista sede ideale delle sue creazioni. Cuprite, azzurrite, crisocolla, ematite e berillo, aragonite, eritrite, fluorite, granato, petalite, quarzo prasio, pollucite e ilvaite sono solo una piccola parte dei minerali che si trovano nel ricco territorio elbano. Ognuno con una sua spiccata qualità cromatica, ognuno ripreso, imitato, adattato sulle tele a creare campiture, spazi e contrasti. Minerali recuperati in ogni viaggio e in ogni escursione con cura e attenzione, a volte maniacale, tanta è la forza attrattiva di quei luoghi per Manuela. La necessità di avere proprio quel colore, quella terra, quella polvere sminuzzata per ricreare i luoghi amati e soprattutto lo spirito di quei luoghi, ha portato l’artista a rubare sassi preziosi per le realizzazioni in studio delle tele. E sono questi sassi riconvertiti ad altra vita che hanno convinto l’artista a ripercorrere anche altri luoghi e proporre temi legati al mondo dell’inconscio e dell’indagine profonda del sè. Ci riferiamo al percorso iniziato nel 2009 con Terra e giunto con passaggi di sintesi estrema alle tele di vorrei essere isola del 2017.

A cura di Elena Orlandi

 

Un disegno al giorno per raccontare quello che ogni giorno accade. Chiara Dal Maso ha iniziato il progetto Everyday Distraction all’inizio del 2017 ed è alla fine del suo percorso: disegnare ogni giorno, per 365 giorni, per poi diffondere e pubblicare sui social.

I suoi disegni nascono per fortuna ancora legati a un supporto materiale, carta cartoncino taccuini, e si portano molto spesso dietro tutte le imperfezioni di un disegno istintivo e improvvisato e legato a una forma di esplorazione personale e liberatoria.

Una distrazione al giorno, come l’ha chiamata lei, che è poi in realtà diventata a volte un modo per scaricare i propri pensieri, a volte una documentazione vera e propria di quello che le succedeva; a tratti un modo per riempire il tempo e allontanare la noia, altrimenti un peso da incastrare tra tante altre cose da fare e senza nemmeno un’idea per la testa; la possibilità di conoscersi un po’ meglio in una forma di meditazione terapeutica su carta, e un diario dei propri sogni notturni o a occhi aperti. Colori vivaci e tratto sapientemente infantile, pennarelli su carta, di quelli acrilici che così si possono sovrapporre gli uni agli altri mantenendo la vivacità dei toni.

Vengono registrati il momento della spesa, il lavoro quotidiano, l’amore, il sesso, le vacanze. C’è poco cibo nei disegni di Chiara, diversamente da dove tutto viene riportato in prima istanza (Instagram) e c’è poco paesaggio puro. La figura umana è sempre al centro, la casa è molto presente, e a riempire il resto ci sono tanti animali, spesso feroci o fantastici, comunque lontani in questo caso dalla quotidianità di una ragazza cittadina.

A volte una sottile ironia pervade i disegni, altri sono percorsi da un’evidente carica erotica seppure naive, poche sono quelle in cui si mostra un’ansia sottile ed elettrica o un più evidente stress e nervosismo da vita metropolitana, ma quasi mai queste emozioni diventano palese tristezza, malinconia, disperazione: le immagini di Chiara sono vive e vitali, accese come i colori che utilizza. E la surrealtà fa spesso capolino trasformando il mondo davanti ai nostri occhi o meglio ribaltando quello interiore e immaginario di Chiara sulla carta.

Tigri e piante rigogliose fanno pensare a Henri Rousseau il Doganiere e il suo rapporto con il mondo del sogno e dell’inconscio; così come i colori contrastati e vividissimi richiamano alla memoria l’a noi vicino David Hockney e i più lontani pittori Fauve. Suggestioni artistiche ma anche provenienti dalla musica e dal mondo più generalmente pop – pompe di benzina, ufo, aerobica, piscine, pop corn, sigarette, facebook e la pubblicità: tutto si mescola e si fonde con cieli viola e prati arancioni. Dando come risultante un mondo vitalissimo e caotico, con scorci di serenità poco statica e malessere che non si coagula, nella speranza e realtà di un cambiamento sempre in movimento in una spirale o vortice che ogni giorno ci porta un passetto più in là e più vicini a quello che desideriamo e siamo.

Il Teatro Bonci, inaugurato nel 1846, è il principale teatro di Cesena, destinato alla lirica e alla prosa, ed è dedicato ad Alessandro Bonci (1870-1940), famoso tenore cesenate. La mostra presenta un progetto fotografico nato dalla collaborazione tra il Gruppo Fotografico 93 e il fotografo Guido Guidi, a cura di Veronica Daltri ed Emanuele Benini. Le fotografie di Guidi sono opere inedite in bianco e nero risalenti al 1984, realizzate in occasione del libro Due Fotografi per il Teatro Bonci che vedeva la collaborazione di Guidi e Luigi Ghirri. Queste immagini dialogano con quelle realizzate nel 2016 da alcuni autori del Gruppo Fotografico 93, in occasione del 170° anniversario della inaugurazione del Teatro.

Saluti dal Teatro Bonci è anche un’edizione di cartoline d’autore. Nonostante oggi sia spesso sostituita dagli effimeri ricordi digitali, la cartolina continua a rappresentare un importante mezzo di diffusione dell’immagine di paesaggi e città e resta uno dei souvenir più ricercati non solo dai collezionisti ma anche da molti artisti e fotografi. Uno degli intenti di Saluti dal Teatro Bonci è anche quello di restituire all’edizione di cartoline il suo ruolo di un tempo, quando non si limitava ad essere solo la riproduzione di poche immagini-simbolo ma dimostrava un’attenzione per la complessità della storia e della vita dei luoghi, veicolandone un ricordo insieme visivo e simbolico. Il pubblico della mostra può scegliere alcune immagini e far viaggiare così la propria personale visione del Teatro Bonci.

All’inaugurazione sarà presente Guido Guidi. Nato a Cesena nel 1941, negli anni ’60 frequenta lo IUAV e il Corso Superiore di Industrial Design a Venezia. Dal 1989 insegna Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Ravenna e dal 2001 è visiting professor alla facoltà di Design e Arti presso lo IUAV di Venezia. Ha esposto al Guggenheim Museum e al Whitney Museum di New York, al Centre Pompidou di Parigi, alla Biennale di Venezia e al Canadian Centre for Architecture di Montréal.

Il Gruppo Fotografico 93 è una associazione culturale fondata nel 1993, composta da appassionati e professionisti della fotografia e attiva da oltre vent’anni nel Comune di Cesena.

Saluti dal Teatro Bonci è una produzione del Gruppo Fotografico 93, realizzata con il contributo e il patrocinio del Comune di Cesena, Assessorato alla Cultura e Promozione, in occasione del 170° anniversario del Teatro Bonci. Fotografi: Guido Guidi, Renzo Altini, Emanuele Benini, Elisa Bernardini, Emanuele Biguzzi, Michele Fuschini, Maicol Marchetti, Luca Piccinelli, Mauro Poltronieri, Silvia Sansovini, Vincenzo Stivala, Elena Zanuccoli, Antonello Zoffoli.

In galleria è disponibile il volume che raccoglie l’intera collezione (progetto grafico di Giovanni Ricchi, minimalsonic). www.gf93.it/saluti-dal-teatro-bonci/

Evento organizzato in occasione della Giornata del Contemporaneo promossa da AMACI


 
ViVi il Verde. Alla scoperta dei giardini dell’Emilia-Romagna è una rassegna ideata e promossa dall’Istituto Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna e giunta quest’anno alla quarta edizione. Sono decine le aree verdi coinvolte, da Rimini a Piacenza, tra giardini pubblici, giardini privati aperti al pubblico, giardini storici, parchi, giardini e orti botanici, aree urbane verdi e giardini di ville o di castelli. La fruizione del verde avviene secondo diverse modalità: visite guidate, laboratori, conferenze “sul campo”, percorsi sensoriali, lezioni pratiche, “treewatching”, atelier didattici per i più piccoli. In occasione dell’edizione dello scorso anno di questa manifestazione, nel settembre 2016, l’Associazione culturale “Spazio Lavì!” ha organizzato un laboratorio fotografico su alcuni giardini del centro storico di Bologna (via San Leonardo-Belmeloro, del Guasto, Parco della Montagnola), appartenenti al territorio del Quartiere Santo Stefano, assai diversi quanto a tipologia, storia, uso attuale. Il laboratorio è stato inserito dall’Ordine Architetti di Bologna tra i corsi formativi professionali, è stato condotto da Fabio Mantovani (www.fabiomantovani.com), fotografo esperto in architettura. La specificità dello sguardo propria degli architetti li ha portati a orientare il loro lavoro fotografico non tanto verso una descrizione dei luoghi come essi sono, ma facendone uno strumento di indagine e ricerca – attraverso l’obiettivo – degli aspetti e degli elementi che possano essere oggetto di una precisa attenzione progettuale. Fotografare per imparare a vedere, piuttosto che fotografare per mostrare ciò che già è noto, questo è il principio che ha condotto il laboratorio.
Il giardino di via San Leonardo è il più piccolo dei tre, origina da uno spazio verde domestico e privato, è attualmente frequentato soprattutto da studenti. Quello del Guasto è stato realizzato alla metà degli anni Settanta del Novecento sull’area occupata dalle macerie del distrutto palazzo Bentivoglio. Il progetto, opera dell’architetto Gennaro Filippini, è particolarmente rivolto al gioco dei bambini e comprende invasi per l’acqua, fontane, strutture in cemento. Il giardino della Montagnola, che ha le dimensioni di un vero e proprio parco urbano ed è sorto nell’Ottocento sul modello degli spazi verdi delle maggiori metropoli europee, ha una complessità d’uso ancora maggiore, essendo frequentato sia da famiglie che da studenti che da giovani immigrati in attesa di occupazione che vi passano buona parte della loro giornata.
Oltre che per i valori naturalistici, gli spazi verdi nel centro della città sono apprezzati in quanto spazi pubblici. La gente li frequenta e vi convive, sono luoghi vissuti come complementari ai momenti del lavoro e dello studio, ambienti ideali dove incontrarsi, giocare, leggere, fare sport. La fotografia può cogliere tutti questi aspetti, farsi indagine sociale, studiare i problemi che ostacolano una piena fruizione, sottolineare le potenzialità di miglioramento. In questo senso essa costituisce una analisi critica propedeutica al progetto di restauro e riqualificazione.
Le immagini selezionate per questa mostra, pur nel diverso approccio di ogni autore, mettono in luce aspetti problematici o meno noti dei luoghi, sui quali orientare l’attenzione sia dei fruitori che degli amministratori: le qualità nascoste e minori, come ad esempio le relazioni visive tra l’interno dei giardini e la città intorno; i dettagli architettonici, artistici, così come gli usi spontanei che la gente quotidianamente fa degli spazi.
 
Le fotografie sono di Manuela Caldi, Alessandra Cazzoli, Piero Dall’Occa, Nicla Di Ciommo, Stefania Giametta, Silvia Landi, Luca Malavasi, Paolo Merlo Pich, Camilla Sanguinetti, Fausto Zanetti.
 
Spazio Lavì! (www.spaziolavi.it) è un’associazione culturale fondata a Bologna nel giugno del 2012 con l’obiettivo di favorire la produzione di ricerche visive sul paesaggio contemporaneo e sulle forme della persistenza e della trasformazione dei luoghi, assegnando alla rappresentazione visiva – fotografica, pittorica, grafica, e in generale con ogni espressione artistica – lo status di ricerca e di progetto. Il concetto di paesaggio viene inteso in un senso allargato, che comprende, oltre allo spazio urbano ed extraurbano, anche le persone e le loro relazioni, la società, il lavoro, il quotidiano, i riflessi materiali dei cambiamenti ambientali, economici, culturali.
Negli anni scorsi alcune delle produzioni di Spazio Lavì! sono state portate in spazi o musei bolognesi, come Duepuntilab in via Solferino e l’Istituzione Villa Smeraldi di San Marino di Bentivoglio. Dalla primavera 2016, in forza di un patto di collaborazione con il Quartiere Santo Stefano, Spazio Lavì! ha aperto la galleria Lavì! City in via Sant’Apollonia 19/A. E’ inoltre stata attivata una convenzione con l’Accademia di Belle Arti di Bologna, che ha prodotto due eventi nell’ambito della manifestazione Open Tour (edizioni 2016 e 2017), con mostre di giovani artisti dell’Accademia.
L’associazione ha uno spazio espositivo a Sarnano (MC), ha sottoscritto una convenzione con l’Accademia di Belle Arti di Macerata e collabora con istituti scolastici e universitari, tra questi con la Scuola di Architettura di Ascoli Piceno, realizzando workshop fotografici.
 
Sala Cavazza del Quartiere Santo Stefano, via Santo Stefano,119, Bologna
dal 22 settembre al 5 ottobre 2017
inaugurazione venerdì 22 settembre 2017, ore 17,30
orari: tutti i giorni dalle 15,00 alle 18,00
 
Alla inaugurazione hanno assicurato la loro presenza la presidente del Quartiere Santo Stefano Rosa Maria Amorevole, il direttore dell’IBC Claudio Leombroni e il presidente dell’Ordine Architetti di Bologna Pier Giorgio Giannelli.

 

 

Sarnanoscape 6

 

Sharon Bianco, Gaia Rosita Cecere, Luca Cingolani, Maria Carmen Di Lucia, Natalia Diez De Antonio, Roberta Filieri, Alessia Galassi, Laura Galetti, Stefano Garbuglia, He Ping, Jia Ang Zhuo,
Alicia Johnson De Frias, Li Sai Tong, Ludovica Pesiri, Giulia Piunti, Fausto Nicola Sacripanti,
Alice Schmidt, Inès Vecilla, Diana Vignati, Mandy Virivè, Wei Yifeng, Wu Xiao, Yang Chan, Zhou Di, Anthony Bufali, Madalina Rossi.

 

A cura di Marina Mentoni e Paolo Gobbi, con la collaborazione di Elena Giustozzi

 

La consolidata collaborazione tra l’Accademia di Belle Arti di Macerata, l’Associazione Culturale Spazio Lavì! e il Comune di Sarnano, anziché articolarsi in un susseguirsi di uscite e visite, sulla base del tema di volta in volta proposto, come avvenuto nelle precedenti edizioni di SARNANOSCAPE, quest’anno, a causa delle difficoltà e dei gravi disagi provocati dagli eventi sismici del 2016, si esprime unicamente nella mostra collettiva degli studenti SARNANOSCAPE 6. Per una nuova fioritura. Workshop sulla ferita e sul frammento progettata ed elaborata presso i laboratori delle discipline coinvolte, per le sole stanze di Spazio Lavì! essendo il Loggiato Comunale inagibile per motivi di sicurezza. L’installazione che si presenta sul pavimento neutro della galleria è strutturata con frammenti di affreschi variopinti di varie dimensioni e dalle forme irregolari che, con i loro particolari ingranditi dei fiori spontanei dei Monti Sibillini, compongono un insieme armonico e vivace in una sorta di mosaico pavimentale dalle tessere scomposte. E’ un’opera in cui l’individualità dei partecipanti non è messa in evidenza, non è il dato prioritario, se non nella riconoscibilità del ductus pittorico. Un gesto semplice, corale, che alludendo alle profonde ferite interiori del dramma vissuto, ai danni materiali subiti, vuole comunicare un messaggio semplice e sincero di vicinanza e di speranza agli abitanti di Sarnano, un incitamento al coraggio e alla capacità di continuare a reagire per mantenere vivi e attivi questi luoghi così belli e familiari. L’epoca attuale, nella sua frenesia dell’apparire, è spesso poco sensibile e forse non più in grado di capire quanto sapere, pazienza, fatica, esperienza e sensibilità sono stati necessari agli artigiani, agli artisti del passato per consegnarci le loro opere, da quelle cosiddette “minori” a quelle più note che pullulano e rendono prezioso il territorio marchigiano. Un’indifferenza e un distacco che inizialmente hanno provato anche gli studenti che partecipano alla mostra nei confronti dell’apprendimento di una tecnica artistica antica come quella dell’affresco. Una tecnica difficile, esigente che vuole si dipinga con velocità e sicurezza sulla superficie umida dell’intonaco che facilmente si graffia e muove sotto l’azione inesperta del pennello sporcando e rendendo sorda la stesura del colore. Ma grazie alle finalità didattiche del workshop e anche al fascino esercitato dai materiali utilizzati, è scattato l’entusiasmo, il coinvolgimento e, in qualche modo, l’orgoglio di aver sperimentato, sebbene con tutte le difficoltà della prima volta, e in piccola parte, una tecnica che ci permette, a distanza di tempo, secoli e millenni, di apprezzare cicli affrescati, così come tutti quei frammenti dei dipinti parietali sopravvissuti alle sciagure del tempo e all’incuria dell’uomo. Gli spolveri appesi alle pareti della stanza rossa, sganciati dalla funzione processuale relativa al trasferimento del disegno sull’intonaco, presentati nel candore della carta, delineano i contorni forellati dei singoli fiori dei Monti Azzurri che, scomposti e disseminati a terra, compongono un’infiorata simbolica per la città di Sarnano. All’urgenza di una vera tutela, vigile e attenta, costante e paziente dei fragili luoghi in cui viviamo e del loro vissuto, alla forza protettiva e rigeneratrice della cura sono altresì dedicati gli interventi site-specific dislocati nello spazio espositivo.

 

Marina Mentoni

A cura di Pippo Ciorra

 

“Amo il bello ed il buono ovunque si trovino e mi ripugna di vedere straziata, come suol dirsi, la grazia di Dio”. Così Pellegrino Artusi conclude l’introduzione al suo intramontabile manuale, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. Con le stesse parole Ilaria Ferretti dà inizio al suo Bestiario, una spettacolare sequenza di immagini, citazioni, testi, con la quale l’artista cerca di trovare l’impossibile conciliazione tra due amori paralleli e contrapposti. Da un lato il “suo” paesaggio, la tradizione, la buona cucina, e tutto l’idillio apparente e la violenza implicita che li rendono possibili (e che già spaccavano il cuore a Giacomelli). Dall’altro l’insostenibile empatia con le vittime di quella invisibile brutalità, in questo caso gli animali destinati al macello, così come in altri suoi lavori erano i luoghi di estrazione martoriati dall’uomo o addirittura gli edifici assaliti dal tempo e dall’incuria.

Per tenere insieme due sentimenti così diversi, eppure così presenti in ognuno di noi, Ferretti ha bisogno di un linguaggio fotografico estremo, dove il contesto naturale si nascondein un’oscurità quasi impenetrabile e il colore dei soggetti diventa bianco e  astratto, come fosse quello delle loro “anime”.

Al primo sguardo queste foto fanno venire in mente le luci bruciate dei gruppi di Giacomelli, ma poi lentamente ci si rende conto che il lavoro di Ferretti ha un carattere terribilmente originale e site specific, frutto di un’introspezione feroce che attraversa in un unico percorso l’anima e il genius loci. Per comprenderlo bisogna concentrarsi soprattutto su quello che l’autrice cancella.

La bellezza del paesaggio offuscata dalla voglia prevalente di “mettere in luce” i soggetti del suo bestiario. Il colore e la fisicità degli animali ritratti, bianchi e immacolati come l’anima che l’artista riconosce in loro. Gli animali poi sono spesso di spalle, non hanno faccia, marciano verso una destinazione persa nel buio eppure resa fin troppo ovvia dalle citazioni dell’Artusi. E infine il [buon] cibo, che aleggia come una promessa e una minaccia nelle parole sottratte all’esperto e nel futuro dei capi di bestiame ma non si vede mai. Ferretti non intende denunciare.

Ha empatia ma è allo stesso tempo crudele, toglie i colori al pavone, non consente ai buoi di consolarci brucando il pascolo, racconta l’oca solo come un ammasso ben distribuito attorno al suo gustoso fegato. Isola la “bellezza” dei gruppi, la sospende in un magma scuro e la rende astratta, strappata al terreno.

Oltre che sui suoi animali Ferretti lavora sull’idea stessa di fotografia, ne stressa i procedimenti tradizionali spingendola con consapevolezza in un territorio artistico nuovo, dove immagine fotografica, reportage, pittura, disegno, arte (apparentemente) digitale si confondono e si consolidano a vicenda. Tra gli aspetti più impressionanti di questo progetto c’è la capacità della fotografa di “mettere in posa” (inconscia) gli animali: “attraversano” l’inquadratura come se volessero in qualche modo sfuggire al buio che li opprime, si guardano intorno in cerca di uno spiraglio, ma soprattutto quando si tratta di soggetti singoli sembrano dialogare in modo terribilmente intenso con lo sguardo fotografico. Da questo dialogo nascono inquadrature strazianti e memorabili, ai limiti del barocco, che potrebbero inquietarci un poco alla nostra prossima visita al ristorante, o mentre sfogliamo il più classico dei manuali di cucina.

A cura di Sara Marini

 

Un mondo sta scomparendo. Oggetti, attrezzi, modelli di prova in carta e metallo, riproduzioni del corpo umano e di animali, mappamondi da far ruotare cercando la meta… E’ il mondo dell’archeologia scolastica. Si tratta di un deposito materiale su cui si sono formate schiere di studenti e che progressivamente viene sostituito dall’immateriale, da simulazioni virtuali. Sono cataloghi di una riproposizione del reale spesso custoditi in edifici-arca, in istituti siglati da acronimi e votati alla definizione di mestieri in estinzione.
Tutto ebbe inizio in una struttura scolastica nascosta nel centro di Milano, vuota, solo qualche oggetto metallico e macchinari di un evidente passato recente accoglievano il sole del pomeriggio: gli studenti sarebbero arrivati solo la sera. Lo sguardo di Sissi Cesira Roselli su questi reperti è senza alcuna nostalgia, anzi, forse un accento ironico guida il rilevamento di un atlante che voleva essere fonte di conoscenza e che ora appare sulla scena solo perché pionieristicamente è cercato e imbalsamato dallo sguardo fotografico. Autore ed oggetti si fronteggiano con reciproco stupore, sorpresi di una reciproca necessità: presenti al contempo nella stessa scena, nello stesso spazio senza essersi mai prima incrociati approfittano per ordire trame, dubbi e teorie sul senso dell’archeologia.

Il progetto, svolto tra il 2013 e il 2016, racconta i seguenti istituti superiori:

  • Scuola tecnica diurna e serale IIS G. Giorgi, Milano (indirizzi di Informatica e Telecomunicazioni; Meccanica, Meccatronica ed Energia; Elettronica ed Elettrotecnica; Liceo delle Scienze Applicate; Informatica e Telecomunicazioni; Amministrazione Finanza e Marketing), 2013;
  • Istituto di Istruzione Superiore Ipsia M. Fortuny, Brescia, sede dell’indirizzo moda, 2012;
  • Istituto di Istruzione Superiore Ipsia M. Fortuny, Brescia, sede dell’indirizzo ottico, 2013;
  • Istituto di Istruzione Superiore Ipsia M. Fortuny, Brescia, sede dell’indirizzo arredamento, 2013;
  • Istituto Tecnico Agrario Statale G. Pastori, Brescia, 2013;
  • Istituto di Istruzione Superiore A. Gentili, San Ginesio (MC): Liceo Linguistico, Liceo Socio-psico-pedagogico, Liceo delle Scienze Umane, Liceo delle Scienze Umane ad indirizzo Socio Sanitario, 2014.
  • Liceo Ginnasio Statale L. Galvani, Bologna, 2016.

Per la mostra presso la galleria bolognese Lavì!City il progetto sarà riversato in un grande libro formato A1 che raccoglierà in 50 pagine le immagini principali scattate tra il 2013 e il 2016. L’allestimento è pensato su due livelli di lettura: le immagini saranno veicolate attraverso il libro, la parte testuale del progetto (dati riferiti al sistema scolastico, alle singole scuole fotografate, citazioni, commenti a cura di Sara Marini) scorreranno in proiezione sulla parete retrostante il libro fotografico.