Architetture

Michele Buda

dal 2 al 6 gennaio 2013

Spazio Lavì! – Sarnano

A cura di Roberto Maggiori

 

Le Architetture fotografate da Michele Buda riproducono indifferentemente parti di edifici popolari, rintracciabili nelle periferie urbane o nelle zone industriali, così come costruzioni progettate da grandi architetti, quali ad esempio Mies Van Der Rohe e Alvaro Siza. Lo sguardo di Buda è attratto da tipologie costruttive moderne e essenziali in cui l’angolo retto è il perno, anche metaforico, attorno a cui ruota una concezione spaziale ideale promulgata fin dalle Avanguardie storiche della prima metà del Novecento. In quegli anni, influenzati dal contributo di autori come Mondrian e Malevic e dello stesso Mies van der Rohe, gli artisti “moderni” inaugurarono una lunga stagione fatta di composizioni geometriche tendenti all’astrazione, in cui primeggiavano quadrati, triangoli e cerchi perfetti, metafora della progettazione umana “suprema” in grado di sottomettere definitivamente il caos della natura.

Questa fiducia nel progresso tecnologico e nella struttura essenziale è poi ritornata in voga dopo la parentesi Informale con la Minimal art statunitense degli anni ’60 influenzata non a caso proprio da autori come Mies e altri esponenti del Bauhaus trasferitesi negli USA durante il Nazismo. Ed è proprio da una sintesi tra il Minimalismo e la fotografia di paesaggio che prende corpo il lavoro di Buda.

Dall’esperienza del celeberrimo Viaggio in Italia, l’autore cesenate riprende lo sguardo sul territorio declinato in chiave anti reportagistica: questo tipo di fotografia non intende raccontare storie o far denuncie, quanto proporre un paesaggio che parli anche del punto di vista del fotografo, cosciente del condizionamento che la tradizione visiva che lo ha preceduto esercita su di lui. Uno sguardo apparentemente elementare, ma sostanzialmente colto, fatto di citazioni e attenzione per pochi dettagli, capaci di suggerire una lettura del paesaggio contemporaneo, ma anche dello stesso linguaggio fotografico.

E’ qui che si avverte lo scarto con le avanguardie storiche, più propense a urlare i propri proclami, laddove la nouvelle vague fotografica italiana degli anni ‘80, riprese una tradizione “sussurrata”, iniziata in America da fotografi come Atget, Timothy O’Sullivan, Walker Evans e poi Frank, Friedlander, Egglestone, Shore, Baltz e Robert Adams: autori sottili e sagaci che, come scrive lo stesso Adams, si preoccupavano di non “lasciar trasparire alcuna difficoltà” nell’esecuzione dell’opera.

La declinazione italiana di quest’approccio al paesaggio si è accordata con gli spazi più ristretti del nostro territorio e in particolare con le periferie, dove ritroviamo, secondo Paolo Costantini, “un paesaggio in cui si articolano citazioni, rimandi e riflessi delle cose e delle nostre immagini mentali delle cose, sia un approccio distaccato e minimale che uno sguardo romantico o una fascinazione metafisica.” (L’insistenza dello sguardo, Alinari, 1989). La Metafisica, ecco un altro aspetto tutto italiano che ritroviamo in molta della fotografia paesaggistica di questi autori e negli scenari, quasi sempre disabitati, fotografati da Buda.

La propensione minimalista Buda la deriva anche dal lavoro di Guido Guidi, di cui fu allievo: un’attenzione per gli elementi davvero minimi, quasi evanescenti, caricanta di una struttura formale e geometrica che lo avvicina agli esponenti storici della Minimal Art, ad artisti come Donald Judd e Robert Morris o a un precursore del calibro di Rothko, la cui essenzialità può essere ravvisata nelle fotografie a colori di Buda, tendenti al monocromo.

Questo minimalismo rigoroso, ordinato, teso all’astrazione, nelle fotografie di Buda prende l’aspetto di un impianto grafico essenziale, sobrio ed elegante, che trasforma le brutture del paesaggio urbano contemporaneo in un territorio ideale, derivato ovviamente dallo sguardo dell’autore più che da quello “oggettivo” della macchina fotografica. Luoghi anonimi e banali vengono così monumentalizzati dal linguaggio fotografico che inquadra, isola, astrae e decontestualizza il dettaglio cui dare forma.

Queste composizioni sono caratterizzate inoltre da un elemento pressoché centrale presente in quasi tutte le immagini: che sia una canaletta di scolo o un’ombra, lo spigolo vivo di un palazzo o un elemento colorato stagliato su uno sfondo omogeneo, dalle architetture emerge un centro di gravitazione permanente – direbbe Battiato – attorno cui si costituisce lo spazio organizzato dall’autore, non esente da un certo grado di lirismo.

Se negli anni Venti del Novecento l’angolo retto evocava la fiducia nella razionalità e nel progresso dell’umanità, nelle fotografie di Buda appare spesso associato a strutture logore, arrugginite, spigolose, con simmetrie irreali e di conseguenza inquietanti. Come se al pensiero positivista si fosse sostituita la decadenza attuale, deriva cinica di un razionalismo malsano, asservito esclusivamente alle logiche di profitto delle multinazionali.

Contrariamente alle levigate superfici delle pitture suprematiste, che riverberavano gli echi ideali del mito della civiltà industriale, le fotografie di Buda stigmatizzano la condizione della contemporaneità, sintetizzandola in un presente fatto di edifici fatiscenti e in un passato recente da cui provengono invece le architetture dei grandi maestri.

Esposte nello Spazio Lavì, le une di fronte alle altre, queste fotografie di architetture rappresentano il brutto riscattato dallo sguardo dell’autore e l’essenziale come modello di bellezza. Una dialettica espressa in una forma antiretorica, disillusa nei confronti degli ideali presuntuosi delle avanguardie storiche, ma non completamente sfiduciata nei confronti di un equilibrio possibile.