Baby Boomers Design
Presentazione, 25 maggio 2019

 

L’idea di questa mostra è nata durante una serata con due degli amici presenti nella collettiva. Se ne parlò come di un’occasione anche per chi non aveva l’abitudine di mostrare in pubblico i propri lavori. Ho fatto un invito che non voleva essere divisivo, non sottolineava delle differenze, dei meglio e dei peggio, dei confronti di valore tra i lavori dei partecipanti, ma gettava ponti tra di loro, per vedere le relazioni che esistevano e capire se esistono ancora. Non c’è riferimento solo alle nostre origini, a quel tempo: alcuni degli incontri che ho avuto con le persone e con le idee di queste persone sono stati molto successivi agli anni lontani della formazione, giungono fino ad oggi, e per fortuna continua a capitare anche oggi di incontrare persone con cui scambiare idee e progetti, non ogni giorno ma con meravigliosa frequenza.
Non saprei definire con precisione assoluta l’ambito di interessi in cui hanno operato le persone che ho invitato – territorio, paesaggio, architettura, arte, disegno, fotografia, curatela di mostre, allestimenti museali, poesia visiva, urbanistica, progetto, restauro, insomma discipline che hanno a che fare con le forme, con la città, con l’abitare, con il vedere, con l’immaginare un futuro dove stare, come stare nel futuro.
Sono tutte persone che ho incontrato, prima o poi, e con cui ho mantenuto relazioni, di lavoro, d’amicizia. Non è un’”operazione nostalgia” ma un’azione di riconoscimento. Sarei nostalgico se vi dicessi cosa significava per me la copertina di Albe Steiner della collana SC10 di Feltrinelli, quella meraviglia diagonale che rappresentava tutta la mia – credo la nostra, della mia generazione – sete di sapere e anche un poco la convinzione di arrivarci con modi nuovi, diagonali appunto, rivoluzionari. Non c’è qui in mostra la nostalgia di un oggetto, e neppure la nostalgia di un momento, magari personale, come potrebbe essere per me una certa finestra gialla vista a Londra, questa sì all’inizio degli anni Settanta, con uno degli amici che espongono qui a Lavì! City, una finestra che per me era il simbolo del futuro, io mi vedevo là dentro, chissà quando ci sarei arrivato, per fare cosa, tutto era possibile. No, non parliamo di nostalgia e non la mettiamo in mostra, prova ne sia che molti dei lavori che sono esposti dai baby boomers sono fatti nel nuovo millennio.
Ripeto che io non ho voluto escludere nessuno, ma ho voluto comprendere alcuni, quelli con cui abbiamo percorso tratti lunghi di strada. Cosa c’è in mostra? Due disegni di concorso di due architetti, tre fotografie di un ingegnere, un urbanista e un poeta, il bozzetto per un dipinto di una pittrice architetto, il taccuino di viaggio di un architetto, la ceramica di un artista, due dipinti di una architetto e di un’artista, lo schizzo architettonico di un architetto, la serigrafia di una storica dell’arte, due plastici di due architetti, i provini fotografici e la collografia di un architetto, una composizione grafica a cavallo tra lo schizzo e la geometria di un architetto, la fusione in bronzo di un’artista, una tavola di fumetto di un architetto, la tavola di un progetto di un architetto.

Cosa traggo da questo fantastico esperimento? La cosa più interessante, quella da cui infatti mi aspettavo di più, è il rapporto tra lo scritto che avevo chiesto e l’immagine – a volte didascalia estesa, a volte invece tanto breve da lasciare domande senza risposte, altre volte memoria di un tempo perduto, oppure enunciazione di poetica, di una fede, nel progetto per esempio, nel disegno, nello schizzo, nella pittura, nella fotografia, nell’arte pubblica, molte sono le dichiarazioni d’amore. Per le mogli e i mariti, ovviamente, e per i colleghi e gli amici, e per tante idee od oggetti più o meno simbolici, più o meno utili, per le scale, per la solitudine, per i maestri amati, incontrati o cercati là dove si trovavano, nelle loro opere concrete, sui libri, ovunque (Le Corbusier, Wright, Andrea Emiliani, Marco Porta, Gabriele Basilico, Magdalo Mussio, Giampiero Cuppini, Paolo Monti, Hermann Melville, Georg Simmel ed Emil Cioran, Erwin Panofsky ed Ernst Gombrich, Michail Bachtin) o magari nelle sale da concerto, nei musei, nelle arene, nei cinema (Paul Klee, Schumann, Wagner, ma anche i Beatles e i Rolling Stones, Baglioni, Truffaut e Kubrick), per la ribellione (e se no che baby boomers saremmo?), per i luoghi (la Sardegna, Venezia, Bologna naturalmente, e i tanti luoghi dell’anima di ognuno, le Marche e la Grecia, l’Inghilterra, Parigi e il Jardin des Plantes, e l’America, soprattutto l’America, con la sua musica, il suo cinema, le sue rivoluzioni giovanili), per la casa e le case, per le piazze, per i colori, per Roberto Baggio, per le fabbriche che crollano.
E ci sono le ossessioni: sognare case impilate, ribaltare il punto di vista e guardare le cose in un modo diverso, anche per forza, per partito preso; o le avversioni, per le verità assolute, per la forma, per il rinchiudersi in sé, o anche, al contrario, per chi vuole strapparci dal nostro stare con noi stessi, e chiede, vuole sapere, magari addirittura, come il sottoscritto, vuole sapere se siamo un NOI davvero o solo una sommatoria di IO.
Il NOI io l’ho trovato e riconosciuto nella fiducia nel progetto, mi pare in tutti, che magari non è il progetto solo di architettura, o non è il progetto in quanto cosa fatta e finita ma come processo, come idea che ti stringe e ti toglie il respiro e ti spinge a inseguirla. Il pensiero che resta sempre più indietro rispetto alla realizzazione, che ne è sempre un po’ deluso – e forse invece dovrebbe essere deluso da se stesso e dalla sua incapacità di farsi bellezza, verità. Il progetto come battaglia con se stessi, dicono alcuni, il progetto da rivalutare dopo gli anni in cui era considerato paternalista e demiurgico, dicono altri; il “ponte delicato” dice Silvia, che voglio citare perché mi è piaciuta molto questa sua definizione, il ponte tra ciò che siamo e ciò che vogliamo essere, tra ciò che c’è nel presente e ciò che desideriamo ci sia in futuro. Il progetto anche come connessione tra il pensiero e la mano che disegna. Il progetto racchiuso tutto nel primo schizzo o riconosciuto solo nell’ordine finale del disegno di cantiere, o addirittura nell’atto pratico del modificare in corso d’opera, magari con un martello e qualche chiodo, o con il coltellino svizzero.
È chiaro che in tutto questo c’è il carattere dei singoli e non solo la comunanza di generazione. Però ci sono i diversi caratteri di quella specifica generazione, diversi dagli stessi caratteri delle generazioni precedenti e di quelle future, diversi per il contesto sociale, storico, economico, ideologico.
C’è chi ha dato una testimonianza di un momento, magari di un bivio, con un’immagine simbolica della scelta tra due o più strade, dell’imbocco di un sentiero; c’è chi ha dato un proprio curriculum, ha messo tutto ciò che è o è stato, tutti i momenti salienti, forse perché non voleva sceglierne uno, non si sentiva rappresentato da uno solo.
Le citazioni reciproche sono frequenti, non credo per piaggeria o per convenienza, credo che siano una traccia del vecchio gruppo che riemerge, il gruppo senza leader riconosciuto (ma quasi sempre con un leader sostanziale) che amavamo tanto negli anni universitari e per il quale siamo stati tanto criticati e perfino presi in giro.
Vedo in questi lavori chi è rimasto saldamente concentrato in ciò che crede e chi invece si è disperso – disperso non vuol dire qualcosa di negativo, significa che non si è voluto impedire qualcosa, si è lasciato coinvolgere da molte cose, e per questo mi pare che sia rimasto ciò che era, ciò che eravamo. Non è una critica, forse è stata una forma di coerenza. E c’è chi invece si è concentrato, si è specializzato, ha insistito in un valore, in un amore unico, perseguito per una vita intera.
Chi non ha voluto parlare molto di sé ha dato forse anche di più di altri valore ai suoi amori di una vita, l’urbanistica o l’ingegneria, il disegno o la pratica artistica. Non voler parlare troppo o per niente del proprio amore in fin dei conti mi pare la dimostrazione più toccante di quanto esso sia esclusivo, innominabile, di quanto sia tutta la tua vita.
Ringrazio Monica Manfrini per condividere non solo questo ma tutti i progetti di Lavì, Stefano Piazzi e Josephine Signorelli per il progetto e l’esecuzione dell’allestimento, Davide Catania per la redazione del quaderno, Roberto Melandri per la scelta delle musiche, e naturalmente tutti coloro che hanno partecipato e anche quelli che hanno telefonato, scritto e detto che anche loro sono baby boomers. Ci sarà magari una prossima volta. Per me è stato molto divertente e direi anche istruttivo, spero che qualcosa di piacevole ci sia stato anche per voi, chiedo scusa per i grattacapi che vi ho creato, divertitevi almeno oggi, nel visitare la mostra.

 

Piero Orlandi