A cura di Patti Campani

È uno spazio intimo quello delle opere di Marco Bucchieri, uno spazio che ci è sconosciuto eppure che ci appartiene. Sconosciuto a noi nella sua essenza più profonda perché non siamo nell’intimità poetica dell’artista, eppure che ci appartiene perché l’immagine poetica che ci viene data è in grado di creare un linguaggio inquieto, capace di smuovere il nostro pensiero e che ci porta, illuminante, l’eco del nostro stesso essere. Le immagini sono lì e non c’è alcun bisogno di aver vissuto le stesse cose per sentirle, perché l’immagine poetica parla un linguaggio nuovo, al punto che non è più possibile considerare utilmente le correlazioni proprie dell’esperire. Non è infatti la percezione che può dare senso, giustificare, tali immagini e non si può neppure marcarle come metafora.

È l’immaginazione, e in questo caso l’immaginazione poetica dell’artista, che è in grado di bloccare il processo che vincola le immagini al ricordo personale e di affrancarle dalle condizioni del reale, condizioni che smettono di essere determinanti. Perché l’immaginazione è la facoltà della natura umana in grado di dare un senso (funzione/corpo) all’irreale.

Ma non si tratta di immaginazione sognante o, per quanto piacevole, di un trastullo a ruota libera della fantasia; è anzi un’immaginazione fortemente presente a se stessa e in grado di affrancarsi da singole correlazioni esterne. C’è un termine francese che, a mio parere, ben ne restituisce il senso, ed è rêverie. La rêverie nella sua forma artistica è laconica: non dice né nasconde, ma indica; una sorta di decifratore del codice di un proprio (di chi osserva) sentimento; allo stesso tempo deve

avere un linguaggio perspicuo, legato al disincantamento del mondo, nella volontà di rendere ogni aspetto intimo più chiaro, più trasparente attraverso immagini che la vita non prepara e che l’artista crea.

Questo sono Lesioni Permanenti 84/24, titolo scelto per l’installazione a riprendere quello analogo della collettiva ideata e curata da Claudio Marra nel 1984, evidenziandone il collegamento temporale oramai quarantennale. In queste opere Marco Bucchieri traduce una condizione intima e apre uno spazio illimitato.

L’immenso dello spazio intimo. Perché l’immenso è una dimensione intima. Si dispiega davanti ai nostri occhi, ci prende e ci sostiene con la sua felice ampiezza. È un lavoro vasto, non solo in termini quantitativi e neppure solo in termini temporali, visto che accompagna tutta la vita creativa di Bucchieri dagli inizi ad oggi; uso, piuttosto, il termine vasto in un senso più poetico. Ecco, per aiutarmi, uso una definizione che ci dà Bachelard: – Vasto è un vocabolo della respirazione, si situa sul nostro respiro e richiede che esso sia lento e calmo. – (La poetica dello spazio, Gaston Bachelard) È lento e calmo, meditativo, colmo di implicazioni. Riflessivo.

In questo senso definisco il lavoro di Bucchieri vasto e con questo spirito è necessario guardarlo; l’opera, ogni singola opera, acquista così un rilievo che va al di sopra del vissuto.

Lesioni permanenti 84/24 copre un arco di tempo molto ampio. Quaranta anni di tempo. Tempo che raccoglie e contiene, tempo della coscienza. L’Esserci (di Heidegger). Farsi domande sul significato dell’esserci, cercando di esprimere se non il senso almeno il luogo del senso o il luogo della sua assenza. Non nel presente, che non permane, ma nel tempo o meglio ancora: nel suo riflusso. Perché come suggerisce André Aciman ne Il bacio di Swann – È nel riflusso del tempo che accadono le cose – .

In questo agire, nel flusso e riflusso, tornando, ricominciando daccapo, seguendo l’esigenza che tira, che chiede, in un senso di urgenza che appartiene alla vita, e che è evidente nelle opere di Bucchieri. Torna e ritorna e di nuovo e ancora, perchè – Capita di sentire che qualcosa è rimasto tra le dita, (…) che non si è finito di vuotare le tasche dell’anima. – (subcomandante Marcos – cit. John Berger, Fotocopie)

Le scatoline sono tasche dell’anima, piccoli cassetti intimi che trovano espressione non più bidimensionale. Presenze ognuna dentro ad una propria stanza. Collage di immagini, parole, oggetti, tracce. Un impulso spontaneo ad indagare incessantemente, a suggerirne il luogo, la forma. Suggerire, non imporre. Nella loro fragilità, minutezza, riflettono questo. Non sono definite, finite, sono montaggi di pensiero, aeree parole lasciate alla loro leggerezza profonda.

Ogni opera è un racconto, una forma di narrazione, questo è vero naturalmente; ma è palese l’apertura che non le definisce in una miniatura, che non mette un punto. Perchè anche qui si sente che le parole più importanti, quelle che restano, sono le parole non dette, ma che felicemente ci giungono.

Bianca Tosatti

Per le sue Ciotole d’acqua, Margherita Tosatti ha selezionato una serie di frasi dal famoso raffinatissimo libretto di Iosif Brodskij, Fondamenta degli Incurabili. Questo luogo – che oggi chiamiamo Zattere – incantò il poeta russo al punto di esprimere il desiderio di essere sepolto a Venezia, nel cimitero di San Michele.

Brodskij dice che Venezia è una “città acquario destinata a scomparire… un ammasso di porcellana e di cristallo rotto”. Anch’io che scrivo di queste opere in mostra non posso fare a meno di pensare all’effetto lenticolare, intorbidante e movimentato della luce nell’acqua, come quando si guarda attraverso un acquario colpito da imprevedibili rifrazioni luminose. L’obiettivo dell’artista è proprio questo, quello di spingere verso l’espressione la potenza nell’atto, salvare l’imperfezione nella forma perfetta.

Increspature quasi impercettibili e mobilità di innumerevoli squame, grovigli e singhiozzi, addensamenti e ritmi ipnotici: l’occhio si fa mano e riesce a dare corpo alle sfrangiature e ai trascoloramenti, sgualciture di metalli iridescenti o avvolgimenti come di carta morbida e pastosa. Non è un ritratto d’acqua veneziana: come si diceva prima, l’artista è consapevole dell’imperfezione, di una quota di ingovernabilità della materia che, ritorcendole, restituisce le intenzioni… ma sono vere intenzioni, quelle dell’artista? Credo che si tratti in realtà di attitudini, di un “inclinare verso”: conoscere è sempre deformare il reale e l’arte rappresenta sempre la tensione fra una conoscenza sentita e una rappresentazione oggettiva.

L’unica parola che davvero definisce l’esperienza dell’artista è “sorgiva”.

Bisogna accogliere ciò che sorge, bisogna contenerne l’energia, l’eccesso e, dal momento che l’artista si mette sempre dalla parte dell’eccesso, ha bisogno di definire un sistema che imposti un regime di rigore, proprio perché la sua rottura produca il nuovo e la meraviglia.

Margherita Tosatti ha scelto la purezza della forma primaria che tutti noi riconosciamo nella ciotola, anche se in questa breve riflessione alla parola “forma” preferiamo sostituire la parola “figura”, come ci ha insegnato Klee.

Nella figura della ciotola appunto ritroviamo l’esattezza del cosmo rappresentata dalla perfezione geometrica della sfera che ingloba tutte le simmetrie, le serie, le combinatorie, le proporzioni… ma poiché la ciotola è una figura di sfera tagliata, proprio nel taglio sentiamo la materia e il suo mistero spesso sfuggente, l’idea di limite, di perdita, di indefinito, di tensione deformante.

Pensiamo all’orlo dove tutto può succedere, al margine da cui si può precipitare, al rimbocco che recupera verso l’interno….questa è la parte liminare della figura della ciotola, quella in cui può succedere la deformazione della materia acquosa e luminescente, la dissoluzione della sua compattezza, la vertiginosa consapevolezza del vuoto.

E ci viene voglia di passare la mano sull’asperità della materia per misurarne la solidità, per riconoscerla contro la nostra pelle con quella sapienza meteorologica antica da contadino che saggia, che pesa, che controlla le minuzie e i corpuscoli sotto le unghie.

Verifica effettuata. Sentiamo, anche solo per un attimo, quell’esperienza sorgiva in cui si intrecciano catene di associazioni poetiche: la luce allaga, scorre e zampilla; la cavità della ciotola contiene, incornicia, assorbe; l’acqua si forma e si frantuma, si piega e si fa terra.

Storia e memoria sono in modi diversi una costruzione, come la fotografia, e non rappresentano o raccontano quello che immediatamente appare, ma quello che si vuole conservare, rivelare o sul quale si vuole riflettere.

I monumenti dedicati alle donne che hanno avuto un ruolo “pubblico”, o rilevante nella sfera “pubblica”, note, sconosciute o dimenticate, sono senza dubbio improbabili, come molti dei luoghi nei quali vengono collocati in questa serie, che altro non è se non una catalogazione immaginaria quanto i monumenti stessi.

Quel che si propone è anche una riflessione sul “monumento”, su come siamo ricordate e su come vorremmo essere rappresentate: forse attraverso altre forme che non siano quelle patriarcali che hanno assunto i monumenti.

La catalogazione è presentata come un estratto e la serie è in corso. Anche le lacune e la stessa catalogazione potranno essere colmate o proseguire attraverso proposte, rendendo questa catalogazione collaborativa.

A cura di Valeria Tassinari

Ouverture
«Ho un lavoro tridimensionale, base, altezza e tempo. Base per altezza e tanto lavoro artigianale.»
1
Suite chimica
è il titolo di una nuova mostra, ma anche il titolo di una mostra che c’è già stata, perché il lavoro del suo autore si fonda su pratiche e forme, generate da un’idea fondativa persistente e ritornante, una ricerca che si ripropone costantemente pur non rinunciando ad intonarsi alla specificità di ogni evento espositivo.
La personale site–specific di Roberto Rizzoli per lo spazio Lavì City, infatti, è concepita come un progetto pittorico unitario che, attraverso un’attenta impaginazione in parete di diverse tele libere, coinvolge completamente l’ambiente della galleria, e con questo si misura, fisicamente e percettivamente. La stanza, di dimensioni raccolte, si trasforma in una grande opera corale, strutturata dall’autore declinando il tema della “suite2” musicale in una sequenza di variazioni cromatiche, costruite attraverso una serie di opere pittoriche, nelle quali la ripetizione di composizioni astratte esibisce un raffinato repertorio, i cui preziosi accordi sono attinti da una profonda conoscenza della storia dell’arte. Dalla policromia fino al bianco e nero, la pittura ripete e rilegge gli schemi segreti della pittura stessa, in un lucido processo di riappropriazione della sua bellezza, che si basa su una disciplinata rielaborazione razionale, ancorata al controllo del tempo, dimensione della memoria, ma anche misura dilatata, necessaria per la restituzione “artigianale” della materia e per la comprensione della sua spiritualità.
La tridimensionalità del lavoro – identificata dall’autore nella combinazione delle due misure lineari della superficie dell’opera con la misura psichica del tempo, fondamentale per i processi di concepimento, sedimentazione e produzione – si assesta qui nello spazio, avvolge il vuoto e lo incornicia, occupandone la profondità con una sorta di perentoria delicatezza. Limite e confine, la pittura diventa frontiera permeabile allo sguardo.

Allemanda (lenta)
«Il tempo è una linea orizzontale che unisce le caverne di Altamira a Duchamp e ti lascia la libertà di non scegliere.»
Il lavoro del tempo è uno dei misteri sui quali l’uomo non può fare altro che scendere a compromessi. Diamogli una forma, e sarà una linea; diamogli una direzione, e sarà una freccia; cerchiamogli un senso e, paradossalmente, sarà un pendolo che oscilla nella mente, un gioco di forze che si alternano, sfiorato dal soffio della memoria e dell’oblio. La possibilità di muoversi nella storia dell’arte come se il tempo non fosse misura di una distanza ma segnale di persistenza, incidenza, identificazione, è una certezza che libera dall’obbligo ossessivo della ricerca del nuovo.
Stare sul solco, muoversi come scivolando, il passo che fluisce e torna indietro, un giro sulle punte, girare pagine di libri in direzione opposta alla sequenza grammaticale, capire Rothko in Piero della Francesca, e Giotto nella Metafisica. Intorno all’arte, quello che cambia è la cronaca dei fatti, il tempo è altra cosa.
Suite chimica, dunque, è una mostra di nuove opere pittoriche, ma la metrica della sua identità ritmica esisteva già nei lavori fotografici presentati da Roberto Rizzoli nella sua prima personale, allestita allo Studio G7 di Bologna negli anni Settanta. La struttura delle immagini e il bilanciamento del rapporto luce/ombra erano temi nitidamente definiti negli scatti fotografici di allora, stessa astrazione elusiva, stessa volontà di stare assolutamente dentro all’immagine, senza deragliamenti all’esterno. Cinquant’anni sono così pochi, in fondo, se la misura del tempo parte dalla preistoria. Un giro di stanza, in una piccola camera, da qualche parte che si fa luogo irripetibile.

Corrente (veloce)
«L’artigianato è un valore aggiunto a quello dell’arte.»
La pittura si fa con la pittura, non ci sono altre possibilità. Il colore, l’ombra, la luce, il gesto, il segno, il pieno, il vuoto, la texture fanno la pittura. La figura no, è un’altra cosa, è un racconto che si può fare in tanti modi, anche con la pittura. In questi lavori di Rizzoli la figura non c’entra più. Il controllo del linguaggio qui è una pratica di ripetizione, selezione, revisione, accostamento, estrazione e astrazione. Nelle tele libere la pittura si concentra al centro, un rettangolo impercettibilmente tattile organizza la superficie in vibrazioni cromatiche che attingono agli spartiti timbrici delle tavole del Trecento, o alla gravità tonale di un paesaggio veneto, fino al trasmigrare del bianco nel nero in dialoghi di luce pura. Intorno, sulla tela nuda, tra i pochi segni liberi in cui si concede di sconfinare, Rizzoli appunta riflessioni rapide, guizzanti. Una corrente, un brevissimo evento, come un corteggiamento intorno a un’apparizione.

Sarabanda (lenta)
«La libertà di non scegliere mi permette di decidere come gestire la superficie.»
La superficie è il luogo, per un pittore è lì, o prima di tutto lì, che ci si mette alla prova. Per questo la si sceglie, o la si lavora, costruendola con lenta consapevolezza. Sotto le dorature e le tempere fragranti dei Primitivi pregiotteschi le tavole erano preparate con imprimiture segrete, e più tardi i pittori otturavano la porosità delle tele con tonalità colorate, talvolta cupe, per dar risalto alla pelle traslucida della pittura ad olio. La preparazione delle superfici esisteva come condizione di partenza: non vista, perché obliterata dall’immagine, rimaneva comunque preziosa in quanto azione controllata dalla volontà dell’artista, era preludio intimo, aveva un senso tattile e immateriale. Nella sua pittura, Rizzoli lascia invece uno spazio di affioramento, dichiara apertamente che la preparazione della superficie è parte del processo e, proprio perché il processo stesso è il tema, nel suo svelarsi si completa l’unica forma possibile di racconto. Pittura e basta, su vari livelli.

Giga (veloce)
«Il risultato è un lavoro autobiografico che nel tempo mantiene alcune costanti, l’artigianalità, un rispettoso e appassionato collegamento con tutta l’arte che mi ha preceduto e per tutto ciò che sembra ma non è.»
Sembrare senza essere, grande teatro del mondo. Ripetizione di sogni inutili e per questo sempre attuali. Rizzoli approda all’opera come risultato di una sequenza perfetta di procedure e puntualizzazioni di registri. I passi sono compiuti, ogni nota riverbera, la tela può essere fissata alla parete.

Inchino a occhi aperti. Uscita.


1Le parti di testo in neretto sono di Roberto Rizzoli.
2La Suite (successione) è un genere di componimento musicale che ha trovato struttura stabile in Europa nel periodo barocco.
Talvolta introdotta da un’ Ouverture, si struttura tipicamente nell’alternanza di danze lente e veloci, che ripetono in successione una tonalità costante.

“Il punto fondamentale è quindi la scelta. Nello stadio estetico l’uomo è ciò che è; nello stadio etico l’uomo diventa ciò che diventa (sceglie) e non si tratta di scegliere di essere altro da quello che si è, ma assumere quello che si è.”

Søren Kierkegaard

Il filosofo ritiene fondamentale la scelta per dare significato alla vita di ognuno; scrive di due stadi, quello estetico, in cui l’uomo è ciò che è e quello etico, nel quale l’uomo assume ciò che è. Solo tramite questa assunzione egli trionfa infine su se stesso. Il pittore è pittore, l’artista è artista e non potrebbe essere altro da questo, così è per Ardo.

In questa sua prima mostra bolognese l’artista di origine teramana Alfonso di Berardo, in arte Ardo, ci presenta alcune delle sue opere. Tra queste, le cattedrali immaginarie che raffigura smembrate, e con le facciate aperte, alla costante ricerca della luce, dell’ombra e dell’oro che c’è dietro.

Ardo ha provato a rifuggire l’arte, ma l’arte lo ha sempre ritrovato e trovato pronto. Nelle sue cattedrali, nei neri, nelle incisioni, nei disegni, nella sperimentazione dei materiali, Ardo ricerca sé stesso. La sua malinconia lo porta a ricercare significati che scaturiscono dal buio del suo animo, come fa con la luce nelle sue opere, così in queste la malinconia si congiunge ad una rabbia primitiva nel suo segno.

Il suo viaggio inizia quando è molto giovane. La prima figurazione che lo ispira e spinge ad intraprendere il sentiero che tutt’oggi percorre è una giraffa con le ruote, archetipo dell’inettitudine dell’uomo, ferma ad attendere qualcosa che non arriverà come in Waiting for Godot di Samuel Beckett. Complice la sua passione per l’architettura e i suoi studi nel campo del design intraprende questo percorso artistico.

L’artista vuole pensare ad un’altra modalità di espressione figurativa, così sperimenta con i materiali: il das, l’argilla, per poi scegliere la malta, senza smettere di creare, restando aperto alle infinite possibilità.

Nei suoi lavori Ardo realizza diversi strati, interponendo tra l’uno e l’altro l’acrilico, poi la malta, infine incide, tirando fuori lo smalto oro che ha inserito tra i diversi livelli di materia. Traccia linee e segni nevrotici e forti, mescolati alla malta utilizza i pigmenti per realizzare i colori delle sue opere.

Un’arte cruda, un viaggio in cui la materia si fa luce e tutto si muove e cambia al ritmo dell’universo. Il suo è un tratto autentico, originale, che esprime la sua forza d’animo e il suo coraggio. Scava per tirare fuori la luce dalle sue opere lasciando emergere le figurazioni.
I suoi quadri suscitano forti emozioni, ma necessitano di più sguardi per essere apprezzati sotto molteplici punti di vista. Le opere hanno bisogno delle giuste condizioni e di cura per maturare, così come i semi che diventano alberi. L’esito delle opere non è predestinato, ogni viaggio è un viaggio a sé, questo fa dell’arte di Ardo una sperimentazione incerta nei risultati, come d’altronde è la vita, ma forte nelle motivazioni che la legittimano.

Ardo è un artista che si racconta senza troppe ambiguità. Il suo è un artigianato, complesso e stratificato, votato alla ricerca di territori inesplorati. Scava nelle tele, realizza cattedrali, incisioni e neri, si ispira e nutre della loro luce malinconica ma soprattutto, come dice lui, “pone domande, non dà risposte.”

Elias Caruso

a cura di Dario Sostegni

Prendere parte a una residenza artistica vuol dire avere a disposizione un tempo e un luogo completamente dedicati alla propria ricerca. Le giornate vengono ridefinite, rendendo possibile l’emergere di una acuta sincronia tra la visione creativa e il trascorrere scandito della vita. Solitamente si è cullati da questo altrove, altre volte ci si sente persi, molto spesso si ricerca solo una scanzonata ironia. D’altro canto, in momenti come questi, quando tutto è una potenziale fonte di ricerca, ci si sente un po’ pazzi. L’essere in un’altra città, con usi e costumi diversi, accentua la propria capacità di osservazione. Ci rende curiosi e estranei, sia vigili che transitori, dato il breve periodo di soggiorno.

These two… è il nome della mostra presso Lavi! City, risultato della residenza di Adriana Marineo e Tereza Šiklová, durante la quale le autrici si sono scambiate di città per un mese. Un dialogo disegnato tra Italia e Repubblica Ceca, promosso da Czech Literary Centre (Sezione della Moravian Library).

Adriana, arrivata a Tábor, porta con sé molte idee. Voleva parlare di archeologia, divinazione, del proiettarsi fuori dal sé, ma non sapeva come raccontarle.

Il suo lavoro è molto legato alla scrittura, raccoglie tutto nei suoi numerosi diari. Inizia schizzando, disegnando storie autoconclusive di una pagina. Tutte sono accomunate dalla presenza di una camera fissa, nascosta ai personaggi, che spia ogni loro piccolo gesto quotidiano, come farsi la doccia nella vasca, pulire i piatti, guardare il telefono. Il movimento viene scandito nelle sei vignette regolari con un tono così inesorabile da essere sardonico. Il testo riporta pensieri intrusivi, come l’interrogarsi su quale battaglia abbia portato ad Alessandro Magno un bottino di quattrocento elefanti, o la chiamata di un operatore telefonico e la sua liquidazione tra scuse formali e saluti.

Adriana, nella prima parte della residenza, registra scene comuni, inscenando momenti non per forza appariscenti, creando un gioco con la loro potenziale attribuzione di significati, a volte più concreti (anche nel disegno), altre più sfuggenti. È un modo per visualizzare il personaggio e seguirlo in ogni suo piccolo aspetto, sinonimo di affezione verso gli abitanti del proprio mondo. Da questi studi nascono due individui che la accompagneranno durante tutta la residenza: personaggio Fiore e personaggio Falena. E proprio da quest’ultimo, Adriana sviluppa un racconto più lungo.

Una costante del suo soggiorno è stata una forte insonnia. Nello stesso modo, il personaggio Falena non riesce a dormire. Sente che sta mutando, ma si è sempre immaginata questa metamorfosi come una fase di sonno, di chiusura nella crisalide, piuttosto che di veglia. È una situazione apparentemente contraddittoria, soprattutto considerando le sue fattezze già al suo ultimo stadio, non più bruco ma farfalla compiuta. L’autrice inscena così uno stato esistenziale di costante trasformazione, di perenne attraversamento di un confine, in una stasi vissuta con disincanto. La falena rimane sempre attenta al rapporto con gli altri. Abita in casa con personaggi di fattezze biologiche diverse, con i quali si confronta o semplicemente vive riti quotidiani, come quello del caffè. La vicinanza che prova con le altre personalità in questo momento di transito è particolarmente accentuata, e la forte empatia porta Falena a desiderare di vivere la vita di qualcun altro.

Adriana lavora su un’età vicina alla sua, mentre Tereza Šiklová torna indietro con la memoria. Arrivata a Bologna sapeva già su cosa lavorare, una storia che aveva cominciato a disegnare per la sua laurea. In Back to the Summer, Tereza parla di momenti quotidiani di estati trascorse nel cottage dei nonni. La casa viene esplorata e mostrata in ogni suo anfratto, costruendo una mappa emotiva dove ogni luogo ricopre una funzione, o scatena un ricordo. Così la cantina diventa luogo di misteri, ma anche di noia, e la cucina lo spazio dedicato al dialogo. Vi è una naturale messa in scena della visione infantile dove si perde il confine tra simbolo e definizione di realtà. Un animismo magico dove tutto è potenzialmente vitale, piccolo e prezioso, dove il cottage allarga i suoi confini, e da apparentemente minuscolo si trasforma in un mondo dove le cose che hai intorno sono le uniche che in quello specifico momento ti appartengono. Così l’albero nel giardino torna a essere una tana per uova di drago, e non è così impensabile che un coniglio possa lasciare una lettera attaccata al cancello. La figura della nonna comunica allo stesso livello della nipote, mostrando una schiettezza propria di chi non idealizza, romanticamente, una visione dell’infanzia. Il disegno regala un’impressione più che una definizione delle figure, collocandosi nel territorio del ricordo e della nostalgia, sentimento che ha accompagnato Tereza durante la creazione del libro e che ha assunto valore terapeutico. Il lavoro di Adriana si sviluppa in itinere con la sua ideazione, mentre quello di Tereza a posteriori. In entrambe, la trama lascia il posto a note biografiche. Adriana usa personaggi per raccontarsi, mentre Tereza si ispira a eventi passati. I luoghi da loro disegnati, che siano urbani o familiari, sono spazi da esplorare e scoprirsi attraverso di loro.

“A mano libera” è un concorso di disegno promosso dalla Associazione Culturale Spazio Lavì. Risponde al proposito di andare alla ricerca delle opere di quanti ancora – nell’era del digitale e dell’immagine derivata da strumenti fotografici e video – intendono rappresentare la realtà attraverso il disegno.

Il concorso nazionale, alla seconda edizione, è rivolto a tutti coloro che vedono nel disegno a mano libera, anche sotto forma di schizzo, una modalità espressiva da non dimenticare ed è aperto a chiunque abbia la maggiore età. Sono ammesse opere realizzate con tecniche tradizionali (ad esempio matite, carboncino, pennarelli, penne, china, collage, ecc.) su carta o altri supporti bidimensionali.

Spazio Lavì con questo concorso opera nell’ambito tipico della propria attività, e cioè la rappresentazione del paesaggio, dell’architettura, della città; all’interno di queste tematiche la partecipazione al concorso è consentita con opere di tipo figurativo e astratto. Sono esclusi il fumetto, le graphic novel e tutti i generi che prevedono una serialità narrativa.

Al solo scopo di limitare il campo d’azione e di ottenere la maggiore possibile uniformità dei materiali inviati, per la seconda edizione si è proposto un tema, traendolo da un’esperienza del quotidiano tipica di questi anni: l’inquietudine.

Gli elaborati sono stati esaminati con criteri che tenevano conto dell’originalità dei lavori, della capacità comunicativa del disegno, della perizia tecnica dell’autore. La giuria è composta da docenti delle Accademie di Belle Arti e delle Scuole di Architettura e da critici d’arte: Walter Cascio, Davide Catania, Paolo Gobbi, Marina Mentoni, Piero Orlandi e Annamaria Santarcangelo.

Al termine dei suoi lavori la giuria ha selezionato l’opera alla quale attribuire il premio-acquisto di 500 euro: si tratta del lavoro di Ilaria Marchetti dal titolo “Il rumore del fondo”. Ha anche segnalato due lavori di Roberto Carboni e Thomas Gazzola. Inoltre saranno esposte le opere degli altri sei finalisti, in una mostra che apre nella sede espositiva dell’Associazione, Lavì! City, in via Sant’Apollonia 19/a a Bologna, in occasione della Giornata del Contemporaneo di Amaci, sabato 7 ottobre prossimo alle 17,30 e resterà aperta dalle 17,30 alle 19,30 tutti i giorni salvo le domeniche fino al 21 ottobre.

a cura di Gabriele Lamberti

La mostra è il frutto di una selezione attuata fra studentesse e studenti che hanno frequentato i
corsi di Anatomia artistica condotti dal prof. Gabriele Lamberti all’Accademia di Belle Arti di
Bologna. Sono due studentesse di Illustrazione per l’editoria (Valeria Cavallone e Sara Cuperlo) e
una studentessa di Pittura (Giulia Barbasso).
Col titolo Essere e apparire si propongono due categorie sotto le quali è possibile sussumere le
polarità della psyché e del soma, caratteristiche essenziali degli esseri umani. L’identità si
esprime attraverso ciò che siamo e come appariamo. Il dialogo a tre voci scaturisce dalla
diferenza che le tre artiste presentano nel trattare queste due categorie e dai risultati che la loro
ricerca evidenzia.

E il vestito era quello di sempre.
E le scarpe erano quelle di sempre.
E le mani erano quelle che
spezzavano il pane e
versavano il vino.

Natalia Ginzburg

A cura di Elena Orlandi

Claudia Corrent in un suo testo riguardo a questo progetto fotografico cita una parola – tikkun
che mi ha fatto tornare in mente una poesia di Natalia Ginzburg Memoria, dove la poeta racconta
l’ultima volta che ha visto il marito Leone, ucciso da mano fascista perché ebreo.
Tikkun in ebraico significa “riparazione” e si porta dietro un carico immaginifico e utopico
importante: il sogno ebraico di riparare il mondo (tikkun olam) che in piccolo vuol poi dire
prendersi cura non soltanto di sé stessi ma anche di chi ci sta accanto.
Se nella poesia Ginzburg ricorda il viso, il vestito, le mani, le scarpe di sempre, in un tentativo di
ricongiungere il passato ormai perso con la quotidianità del presente, mentre per le strade della
grande città passano persone ignare del suo dolore; Corrent nelle foto del progetto Per te, per
ricordarti spesso
sovrappone e fonde piani temporali attraverso il collage. Le foto, i ritratti, di un
archivio familiare, prendono nuova vita e movimento attraverso la sovrapposizione di paesaggi.
Una donna e quattro bambini sembrano ancora sfiorati dal vento che accarezza il campo; un
occhio diventa penetrante incrociandosi con la luna che illumina una scogliera; un pensiero
insieme solido ed effimero come una nuvola offusca un viso; la foto di una vacanza a Venezia
acquista profondità e prende più spazio sovrapposta a un mare invernale.
Se in Ginzburg era una città indifferente a fare da sfondo al ricordo, in Corrent le figure si fondono
con paesaggi naturali, acqua, erba, cielo. E se nella poesia di Ginzburg ci si sente assediati dalla
rigidità del reale, contro il quale il passato non riesce a tornare anche se nel cuore della poeta non
si vorrebbe altro che quella riparazione, la proposta di Corrent di tikkun olam sta tutta in quei
confini creati dal collage all’interno delle fotografie: ci dicono contemporaneamente che il passato
non può tornare in toto, una parte viene sempre trattenuta di là, non c’è possibilità di fusione,
eppure il peculiare sortilegio operato dalla memoria, visibilissimo nei collage di Corrent, permette
di vedere insieme l’ieri e l’oggi, di rendere vivo un attimo passato, di sollevare per un poco il peso
dell’assenza, sia quella della giovinezza, di un momento felice, o di qualcuno che non è più con noi.
La vertigine di questo slittamento tra passato e presente, nelle foto di Corrent assume tutte le
tonalità delle emozioni più morbide, la malinconia, la serenità, l’allegria, la nostalgia, la speranza. I
confini sfumati delle sovrapposizioni ci dicono che oltre c’è ancora vita. L’opera dell’artista rende
visibile quel senso di cura per gli altri, di tentativo di accoglierli in un abbraccio di bellezza.

A cura di Erica Marta

Il racconto presenta un mondo favoloso, il cui sfondo montano lascia trasparire un forte contatto con la terra e con i suoi elementi. Il bosco ospita un particolare aspetto dell’abitare: qui, sembrano radicarsi il vivere la collettività e il mondo sociale di questi piccoli esseri. A rendere possibile questa pacifica convivenza tra varie forme di “sentire” vi è una spinta genuina e insostituibile, che risiede nella volontà – reciproca – di tener conto dell’unicità di ciascun abitante. Si tratta di una volontà che viene raccontata costantemente, a definirne i tratti e la realtà sono la dedizione e la cura che traspaiono dall’agire e dal pensare delle creature abitanti. Soltanto attraverso la costanza e l’unione saranno pronte a dare inizio al rituale annuale. Tutto è volto ad accogliere il divenire, tutto è motore pulsante. Tutto riesce a concretizzarsi attraverso l’alternanza di stili differenti e nuovi. Nelle vignette realizzate a china emergono le identità dei personaggi, le loro voci, i suoni, il movimento costante. Le illustrazioni pittoriche sono, invece, di più ampio sguardo, di ambientazione e contesto, e ci rendono partecipi del pathos che echeggia tra i personaggi. È in questo accostamento che affiora la spontaneità di Rebecca e il suo sguardo verso la realtà.

È un sentiero in cui immergersi, questa mostra, da seguire per comprendere, osservare, annusare e vivere questo microcosmo organico. Così l’incontro si vivifica attraverso la realizzazione di sculture in ceramica, elementi che vivono nella storia e che escono dal libro per lasciare una traccia, fanta-archeologie storte e ritrovate per caso, esposte come reliquie. I diversi media permettono di dare voce ai personaggi, la cui quotidianità pure è costellata dalla produzione artigianale, ora di stoffa, ora di pane. E così il creare oggetti e il profondo contatto con la materia con cui sono stati realizzati sono il mezzo attraverso il quale esistere e farsi vivi.

Estenderemo il senso di condivisione anche attraverso l’installazione di Crookies. Quest’ultime, artiste e artigiane, profondamente si inseriscono e comprendono l’anima del fare, che è lo spirito forte e unificatore del libro. Lo spirito segue il flusso delle identità proprie delle quattro creatrici, è capace di cogliere le diversità e mostrarle come punto di forza attraverso l’arte e i saperi, diventa personale e unica. Crookies riprende l’elemento della lunga stoffa dai colori acidi che Lucilla e la nonna stanno cucendo e lo realizza, lo interpreta, fa in modo che sia fatto di stoffa e insieme muschio e bosco e molle di luce e sole. La loro opera riflette il valore della condivisione: la creazione, infatti, nasce da quattro frammenti di stoffe lavorate in autonomia da ogni persona del gruppo e uniti solo in un secondo momento. Da questo punto di vista le modalità di Rebecca e Crookie si rivelano affini: sembrano condividere un approccio viscerale e istintivo nei confronti dell’arte, dando vita ad opere autentiche e cariche di significato, in bilico tra il saper fare e l’aspettare che la materia prenda vita sotto le nostre mani, come in un rito magico.

A cura di Alessandra Sarchi

Cosa unisce una mappa o una carta geografica oggetto bidimensionale, perlopiù ricavato su carta, al corpo umano, pulsante, senziente, vivo e di carne?

In apparenza poco. Tuttavia fin dal Medioevo e poi nel Rinascimento sono state realizzate riproduzioni del corpo umano che lo iscrivevano in una sorta di ordine cosmico, collegandolo non solo alla Terra ma anche agli astri, e così per esempio le vene diventano fiumi, il corpo umano era il microcosmo che riproduceva il macrocosmo.

Non so se Alessandra Calò, quando nel 2016 ha iniziato il progetto Kochan, avesse presente questi esempi che si trovano in libri miniati e fogli di umanisti; sappiamo che la memoria visiva si nutre delle fonti più disparate e lavora di analogie e correlazioni anche quando non ce ne rendiamo conto.

La sovrapposizione che Alessandra Calò opera fra carte geografiche e il proprio corpo fotografato, da una parte, richiama il desiderio di centratura che illustri antenati umanisti hanno esplorato, dall’altro proprio perché l’idea di confine, di margine, di centro e periferia è da lei messa in discussione critica – come da tutto il migliore pensiero critico novecentesco e post-coloniale – istituisce un rapporto nuovo fra il paesaggio e il corpo riprodotti.

Calò lavora con materiali d’archivio, vecchie carte, che evidenziano come i confini e le denominazioni cambino nel tempo, come la geografia disegnata sia tutt’altro che definitiva. Allo stesso modo, il corpo cambia, si allarga o restringe, si smussa o si affila, si copre di segni, cicatrici, muta piano piano la forma e il rivestimento, la pelle. Così il tentativo di legare l’identità individuale a una facies definita è destinato a fallire, l’identità resta sempre un’approssimazione. Il volto, gli arti e l’intero corpo della medesima persona non sono gli stessi nelle diverse fasi della sua vita. Il carattere che le immagini fotografiche prodotte da Alessandra Calò hanno realizzato è quindi piuttosto quello della metamorfosi, dello sconfinamento costante. La componente non esplicitata, ma fondamentale di questo progetto, è infatti il tempo. Se la fotografia fissa il momento – e nel fissarlo ne decreta anche l’essere già accaduto, passato, sicché qualsiasi ritratto è sempre postumo – Calò sembra lavorare proprio in direzione opposta a questa contrainte: la geografia non è un dato fisso, ma l’interazione perenne di molti elementi cosiddetti naturali e antropici, il corpo che emerge o si sovrappone a questi lacerti di luogo è altrettanto frammentario e per questo, più che indicare o descrivere, evoca. E cos’è l’evocazione se non la forma più rispettosa del mistero nel rapporto fra il reale e le sue rappresentazioni? La forma più prossima alla ritualità religiosa o magica da cui probabilmente sono scaturite le primissime immagini prodotte da Sapiens. Per questo il lavoro di Alessandra Calò, ispirato nel titolo al protagonista di Confessioni di una maschera di Yukio Mishima, è svelante, nel senso che accoglie il velo, la maschera, la deformazione che ogni rappresentazione produce, come l’unico modo di un fare artistico in cui la fotografia si contamina con altre tecniche, e l’oggetto fotografato non è più, e solo, quello visto, ma quello sognato e immaginato.

A cura di Valeria Tassinari

Vita e scultura si somigliano, ma non è per la solita storia bohémien del legame tra arte e vita.

Che fare spazio e farsi spazio siano condizioni necessarie all’esistenza – nella scultura come nella vita – è un dato oggettivo.

Il ruolo soggettivo dell’artista sta, piuttosto, nella scelta del funambolo, che decide di muoversi tra essere e fare, in bilico sul tragitto, fermandosi negli istanti in cui la tensione diventa forma.

“In bilico sempre” è un verso rubato a una poesia1 di Alessandra Bonoli, artista la cui scrittura risuona di vento e cammino, come la sua scultura e i suoi disegni, ai quali la parola corrisponde narrativamente a una voce fuori campo, nell’intenso libro Una vita in viaggio, che ha da poco pubblicato. C’è, nel suo lavoro, una dimensione ordinata, una misura ponderata con la stessa bilancia di precisione per i versi e per le opere, terre emerse per decantazione dell’amore, della nostalgia, della scoperta felice, dell’assenza dolorosa. C’è, nel suo lavoro, una materia instabile e tumultuosa, ma ricondotta all’equilibrio e riordinata in forme, colori e parole nitide, con una disciplina che governa la consapevolezza dell’instabilità come condizione del fare. Una misura classica, in fondo.

Nella scultura, Alessandra ha fatto la scelta radicale dell’astrazione, una strada austera che ha piegato al sentimento, battuta e ribattuta esercitandosi a non cadere nella maniera, nella replica, nella citazione, schivando il minimalismo, il monumentalismo e ogni sorta di presunzione di eternità, tentazioni che le rimangono estranee, anche quando lavora sulle grandi dimensioni, o con materie persistenti come il ferro e il cemento. Nelle grandi sculture urbane e negli interventi ambientali (quelli realizzati e quelli solo desiderati, restituiti attraverso innumerevoli progetti) geometrie imperfette si aprono in vortici e fughe, forme affini si cullano e si inseguono, correndo verso l’alto come architetture d’oriente, o scorrendo al suolo, come linee geomantiche.

Ma anche nella scultura da interno vibra un’energia tesa “tra stare e andare”, e mi pare che quest’ idea di movimento nella stasi, che ci spinge a parlare di scultura a se “stante”, abbia certamente una storia arcaica, ma riverberata da esperienze non troppo lontane.

Trentacinque anni fa, nel dicembre 1987, al Castello di Rivoli, allora da poco aperto, la mostra Standing Sculture poneva al centro della riflessione critica una certa tipologia di scultura, presentandola come un’ arte plastica capace di farsi spazio ovunque, indipendentemente dall’ambiente circostante. In quel periodo il contesto (urbano, architettonico, sociale o naturale) era ormai considerato il riferimento fondativo di ogni progettualità, dato che tra gli anni Sessanta e Settanta ogni forma d’ espressione d’avanguardia sviluppata nella terza dimensione aveva stretto un legame di irresolubile

In bilico sempre in Una vita in viaggio. Disegni e scritti di Alessandra Bonoli, Imola, Editrice La Mandragora, 2022simbiosi con l’ambiente. Ma esattamente quando il trionfo del site specific – pratica intorno alla quale si erano aggregati fenomeni come Earth Art, Land Art, Environment, scultura “sociale” e le molte altre declinazioni di area concettuale – sembrava aver ormai reso totalmente anacronistica l’idea di scultura “indipendente”, il gruppo curatoriale di quella storica mostra – Rudi Fuchs, Johannes Gachnang e Francesco Poli – aveva deciso di rilanciare l’ipotesi di una “lotta per l’oggetto pesante e consolatorio, la lotta per i tempi lunghi e la stabilità” (così scriveva Fuchs2). L’idea di fondo, supportata da un’ampia selezione di nomi internazionali, non era proposta in chiave provocatoria, come in verità a molti apparve, ma piuttosto nella prospettiva di un’apertura a tutte le forme espressive, comprese quelle che desideravano riprendersi lo spazio di un proprio supporto; era, in fondo, il riscatto di una ricerca indipendente e persino solitaria che, uscendo dalla dimensione ideologica che aveva guidato le più estreme sperimentazioni del Novecento, consentiva di riconciliarsi con l’idea di scultura “stante”, dotata di una propria identità, che l’avrebbe resa autentica in qualunque contesto. Quel clima, che suggeriva il valore di una possibile rilettura “atipica” della tradizione, come già stava avvenendo con la Transavanguardia e altri movimenti internazionali riguardo alla pittura, può essere utile a capire la libertà e il rigore che guidano l’istanza creativa di Alessandra Bonoli, che proprio negli anni Ottanta ha messo a fuoco la sua poetica, intraprendendo il percorso di estrema coerenza e continuità che prosegue ora.

A quel decennio, che per la scena artistica bolognese è stato il più vitale dell’età contemporanea, è dunque significativo riportare l’attenzione, perché nei suoi esiti attuali rivela la complessità di ricerche che, come questa, sanno stare nel tempo in una rara permanenza di intenti.

In bilico, certo, ma proprio per questo in equilibrio.

A cura di Sergio Rossi

Il Viaggio di Carlo
Monica Manfrini

Non era necessario un pretesto per ricordare la vita di Carlo, il suo “viaggio” alle persone che lo hanno amato, ma se l’occasione è un libro scritto da sua nipote Elena che lo inserisce tra i personaggi principali, allora il pretesto mi è sembrato importante da cogliere. Carlo avrebbe compiuto cento anni quest’anno. Ha avuto una vita come tante: una famiglia d’origine molto legata alla terra, alla natura, cinque fratelli, un padre insegnante, ma anche pittore, una madre casalinga, modesta cuoca, ma con l’inclinazione alla poesia. Avrebbe voluto studiare ingegneria meccanica, ma una brutta pleurite quando frequentava il liceo convinse sua madre a farlo studiare in un istituto agrario e poi avviarlo alla Facolta di Agraria per farlo stare più “all’aria aperta”. Mi accorgo di avere scritto molti ma in questo inizio, non è una gran prova di scrittura, però spiegano bene le alternative che nella vita si sono spesso presentate a Carlo che ha accettato, più che scelto i cambiamenti, con un ingrediente meraviglioso, trasmesso più avanti nel tempo ai suoi figli: la capacità di affrontare gli imprevisti, le incognite, le fatiche sempre con un atteggiamento ottimistico, direi creativo e pronto all’evoluzione e alla trasformazione positiva degli eventi.

Carlo è passato attraverso due secoli, e la prova più difficile sicuramente è stata affrontare da giovanissimo la seconda guerra mondiale. Aveva diciannove anni quando fu inviato militare in Russia al seguito di un esercito sgangherato che faceva dormire i soldati in accampamenti di fortuna, tende e baracche di legno costruite nella steppa, poco lontano da Rossosch, vicino al Don.

Era partito con due compagni di viaggio, la macchina fotografica e la fisarmonica. Con la macchina fotografica aveva già documentato molte gite fatte in bicicletta con gli amici più sportivi sulla Marmolada e poi le scalate, i boschi, le cime più impervie in varie zone alpine, gli era sembrato quindi naturale scattare foto durante il percorso in treno verso la Russia e poi in tutti i momenti della vita militare. I campi, gli addestramenti, il lavoro, gli abitanti delle città e delle campagne russe, i mercati, il treno, i convogli militari, gli aerei sono fermati dagli scatti in un bellissimo bianco e nero. La fisarmonica che aveva imparato a suonare da bambino gli fu compagna e amica di lavoro e di sopravvivenza, infatti nel tempo che la vita militare gli lasciava andava nelle isbe contadine a suonare in occasione di feste, matrimoni e battesimi e così poteva sfruttare il calore di una vera casa e forse mangiare un pasto caldo, migliore del rancio distribuito ai soldati. Tornato in Italia in maniera fortunosa, poco prima della disfatta e della tragica ritirata dell’esercito italiano, alla fine della guerra riprese gli studi in Agraria e la passione per la natura torna prepotente a manifestarsi anche nell’attività professionale,. Prima come insegnante di materie tecnico-agrarie poi come sperimentatore di fertilizzanti in vari tipi di colture in Italia, Francia e Germania ha registrato con la fotografia tutto il suo lavoro.

L’allestimento di questa mostra ha al centro le belle tavole disegnate da Giulia Tassi che sono ispirate a momenti della vita di Carlo, quando, già pensionato ha continuato a seguire la vita nei campi nel suo podere a vigneto sulle colline di Dozza. Podere dove una casa di campagna, molto amata, ospitava le vacanze della famiglia, la moglie con i tre figli e più avanti anche i nipoti. Le foto che “incorniciano” i disegni sono state scattate da Carlo in vari momenti della sua vita di lavoro, in Italia e all’estero. Le cartoline illustrate sono un corollario simbolico al tema viaggio, cuciono e ricuciono i luoghi visitati per lavoro e per svago, ma sono solo “cartoline”, il vero racconto è quello delle foto scattate con il sistema analogico, pensate nel momento del clic, ma poi viste dopo ore, giorni e scelte per commentare articoli di lavoro o momenti della vita, del suo viaggio.

A cura di Paola Binante

In occasione di Opentour 2022 la Galleria Lavi City presenta Ogni piccola cosa che resta è una vittoria contro il nulla a cura di Paola Binane 22 al 25 Giugno. La mostra presenta le opere di due allieve del corso di Fotografia dell’ Accademia di Belle Arti di Bologna.

Julija Tioli, Qui, 2022

La fusione di due stati fisici opposti, ovvero la morte ¢ la nascita, equivale ad un evento surreale, innaturale, e crea complicanze emotive e sociali. Cid che viene considerato un inizio diventa una fin. l bambino morto nel grembo materno “è esistito” solo per i genitori, e il loro lutto perde significato perché non vissuto liberamente.

Sulla restituzione di tali sensazioni indaga Julija Tioli nel progetto installativo Qui.

Un lavoro che trova corrispondenze nella tendenza della fotografia contemporanea al tono diaristico che meglio corrisponde al desiderio di vicinanza emotiva alla storia raccontata. Nella nostra società postmoderna assistiamo a una fluttuazione liquida dei sentimenti,caratterizanti la modernità concettualizzata da Zygmunt Bauman. Lo scatto dal respiro breve, ma intenso, contrasta la precarietà delle relazioni umane. La logica del frammento si sostituisce, così al grande racconto. La pratica fotografica assume così una funzione rituale, ben lungi dagli usi sociali ricostruiti a metà anni Sessanta da Pierre Bourdieu. L’esito è un diario visivo che mescola, come in un album di famiglia, oggetti, ambienti, volti e corpi, assumendo tuttavia una dimensione collettiva.

Julja Tioli predilige inquadrature ravvicinate, focalizzando la sua attenzione sulle tracce della limitatezza esistenziale della vita quotidiana. La narrazione visiva, evidenzia la stessa autrice, diviene fondamentale per la costruzione dell’identità genitoriale. E la forma che assume questa narrazione è il montaggio rivelatore delle nuove configurazioni che acquistano nella composizione le singole immagini.

Il dato di partenza è il materiale visivo che proviene da archivi familiari sul quale l’autrice interviene con metodologie sperimentali. La restituzione di questo intenso e coinvolgente lavoro si esprime appieno nella pratica espositiva. Gli archivi di famiglia sono accolti in scatole appositamente create. Appaiono simili a contenitori idonei alla conservazione delle fotografie, quasi a simboleggiare la cura con la quale sono trattate le testimonianze visive delle perdite subite dalle famiglie di cui si narra la storia. Queste scatole, però, ci rammentano desuete modalità di raccolta di fotografie familiare, ben prima dell’affermazione del digitale.

Agli antichi rituali funebri rinvia invece la straordinaria invenzione dei calchi in pasta di sale di alcuni oggetti legati al piccolo Gabriele, “venuto al mondo con gli occhi chiusi che non ha mai voluto aprire”, conservati dai genitori come ricordo. I calchi in pasta di sale richiamano alla mente la tecnica utilizzata negli scavi archeologici, più spesso mediante gesso o cemento, per recuperare la forma di oggetti,o, come a Pompei, la forma di esseri umani. Tioli utilizza la pasta di sale, un materiale che parla del gioco dei bambini, mentre le fotografie dei calchi sono montati sulla parete a comporre una griglia aperta, che moltiplica, ampiifica le letture possibili.

Matilde Collinassi, Out of Sight, 2022

Matilde volge lo sguardo verso la complessità emotiva dell’individuo, l’universalità delle emozioni e dei sentimenti. Il suo lavoro ha come fulcro la sospensione del momento nato da un primo incontro. Quanto racconta e quanto nasconde di noi uno sguardo? Il progetto libro di Matilde Collinassi, nella sua complessita, si apre alla riflessione sulla natura delle immagini, riflette sull’interattività della narrazione e sulle possibili future applicazioni e collaborazioni tra fotografia e il mondo videoludico.

La narrazione è frammentaria come i processi della memoria. La ricerca di Matilde è un’occasione per esaminare la natura delle immagini “digitali”, vertendo quindi sulla metafotografia. Prende in esame la condizione post-mediatica della contemporaneità dove fotografia e immagine sembrano sempre più essere assimilabili.

Gli aspetti principali di questa ricerca sono la natura della In-game photography, il particolare tipo di rimediazione del linguaggio fotografico messo in atto, la pratica di appropriazione (e manipolazione). Il dato di partenza sono tre videogiochi, Call of duty: World War II (Activision), Grand Theft Auto V (Rockstar Games) e The Last Of Us Part 2 (Naughty Dog). L’operazione consiste nella “cattura” di alcune immagini, rielaborate nel progetto editoriale. L’autrice offre uno spazio alle potenzialità espressive e concettuali dell’incerto confine tra fotografia e immagine. La sua ricerca possiamo affermare interroghi le modalità di fruizione delle immagini e le diverse forme di ibridazione. La particolare narrazione e interattività, tipica dei videogame, viene rivisitata e modificata per mostrare le potenzialità che questo tipo di immagine digitale, interamente composta da codici, può portare nella pratica contemporanea della fotografia. Le due sequenze presentate all’interno del progetto sono accuratamente studiate per interagire tra di loro e dare Ia possibilità all’ osservatore di creare delle associazioni visive sempre diverse.

Out of Sight è una storia di dolore e perdita, passato e presente e, allo stesso tempo, uno studio sulle diverse pratiche e applicazioni della fotografia in-game. L’atto di appropriazione e manipolazione di questi screenshot video-ludici sono solo una parte del ben più complicato processo di decontestualizzazione, distruzione e ricostruzione della narrazione.

La scelta curatoriale di avvalersi dell’oggetto libro, perseguendo quindi uno spazio visuale caratterizzato dalla forte sperimentazione di nuovi media, palesa l’intenzione di indagare il tema della memoria nelle sue diverse forme e nei diversi dispositivi che ne mediano la conoscenza. Ne comprende le sfaccettate forme, le storie reali o immaginarie di cui si nutre la nostra memoria nell’epoca post-mediale. Assembla ricordi di persone percepite attraverso un video, parte ormai del nostro quotidiano, a tal guisa delle relazioni che intratteniamo con i nostri simili. Infine, dunque, il progetto di Collinassi sembra riflettere sulla costruzione della propria identità.

A cura di Pippo Ciorra

Nella storia dell’arte l’autoritratto è un esercizio nobile e intenso. Nel corso dei secoli lo hanno praticato con passione e severità pittori talmente importanti che si esita a evocarne il nome, ma anche scultori, fotografi, artisti astratti, perfino architetti (Carlo Aymonino era tra i patiti del genere) o musicisti (la Terza di Beethoven come autoritratto). “L’autoritratto – afferma Volonterio – è un pozzo profondo”. Oltre a una forma di introspezione e di riflessione sul senso e le tecniche della rappresentazione – basta pensare a Piet Mondrian – l’autoritratto è un motore di ricerca a intensità crescente: da sempre la possibilità di avere a disposizione un modello a buon mercato, un esperimento facilmente ripetibile, infine una scelta efficace per costruire un livello ulteriore di rapporto tra l’opera e l’autore e il mondo. Vale per Raffaello, che si inserisce come “comparsa” nella Scuola di Atene, per gli autoritratti performativi di Claude Cahun (forse un precedente interessante per Volonterio), come per per Cindy Sherman, che invece fa del proprio ritratto un dispositivo concettuale ossessivo. Di recente alcuni architetti particolarmente eco-sensibili fanno circolare il loro termo-autoritratto, una scansione termografica che mette in evidenza le zone calde e fredde del loro corpo (probabilmente in vista di un’azione di riscaldamento mirato). Nel caso di Gaia Volonterio, anche lei non estranea a conoscenze di architettura alla scala dell’intérieur, l’autoritratto sembra essere uno di quei punti di riferimento ai quali alcuni artisti amano tornare ripetutamente lungo il loro percorso, come una specie di termometro del rapporto con il proprio lavoro (e ovviamente con sé stessi). Non è un caso quindi se per la mostra Her Self Gaia Volonterio abbia scelto di tornare ed espandere quest’area specifica della sua ricerca sul corpo e sul ritratto, arricchendo notevolmente la sua già cospicua collezione di autoritratti. Lo spazio ridotto della galleria, la sua propensione all’intimità spaziale, la consapevolezza di presentarsi a un pubblico nuovo sono condizioni importanti. Da un lato esprimono bene quella concitazione interiore che si scatena quando dobbiamo auto-rappresentarci; dall’altro fanno sì che la potenza introspettiva del “ritratto di sé” appaia come un dispositivo immediato e ad alta intensità per trasmettere le idee di Volonterio sulla pittura e sull’arte in generale. Attraverso l’autoritratto si risale a opere di varie fasi del percorso della giovane artista, nel quale la propria immagine sembra essere il terminale dialettico del rapporto con la propria storia, lo spazio, il paesaggio. La galleria bolognese sembra lo spazio ideale per questo approccio, un luogo dove le opere si guardano da vicino, in cui tecnica e dimensioni hanno un’importanza speciale, in cui il viso del visitatore si avvicinerà pericolosamente alla superficie dipinta o disegnata.

Raramente i dipinti di Gaia, perché di dipinti in genere si tratta, hanno un contesto. Il close-up sul viso è assoluto e si con-fonde con toni e sfondo che ricordano la pittura barocca. Quando lo sguardo si allarga è per proiettarci immediatamente all’esterno, nel paesaggio reale o in quello della memoria. Questo è di certo uno dei caratteri più evidenti dei suoi lavori, la capacità di connettere il paesaggio interno e quello esterno, generare inquietudine nell’avvicinarsi al soggetto, allargare il respiro quando l’occhio si allontana e guarda anche all’esterno, nei luoghi o nei ricordi.

Una buona parte del lavoro di Volonterio, come si è detto, è opera di pittura, a olio: “La pittura ad olio mi permette di lavorare a più riprese. È plasticità, è materia mobile e forse da la possibilità proprio di rappresentare quella figura che non si può fermare”. Alla base, osservando l’insieme dei suoi lavori, emerge anche un interesse forte per il disegno, essenziale nella comprensione/rappresentazione dei paesaggi interiori ed esteriori. Insomma, il suo tracciato di crescita è ampio e pieno di possibilità, grazie alla sensibilità e al talento cristallino che emergono già in questi lavori. Personalmente, dato che in fondo al mio petto batte un cuore da architetto, non succede spesso che mi avvicini a una forma così legittima di pittura. La natura processuale e installativa rende alcuni lavori più accessibili alla mia anima semplice di appassionato di progetti. La natura grafica ne avvicina altri in maniera ancora più ovvia alla sensibilità di chi deve occuparsi a tempo pieno di rappresentazione. Ma i lavori di Volonterio perforano senza fatica queste barriere culturali e disciplinari. Non appartengono all’ennesimo ritorno della pittura (tutti gli artisti sono pittori, diceva Kounellis) o a un rinnovato bisogno di figuratività. Non rientrano insomma, nell’alternanza dei gusti. Trasudano invece significati intimi e collettivi, si nutrono direttamente della forza del loro oggetto, del cortocircuito scatenato all’interno del triangolo magico tra soggetto, autore e medium utilizzato. La ricerca di Gaia si muove così come un pendolo tra i due estremi della figurazione, il ritratto e il paesaggio, il realismo e la sua dissoluzione vagamente onirica, o nella memoria. Sia la rappresentazione del paesaggio che quella della figura umana avvengono sempre attraverso una visione filtrata e imprecisa, che ribadisce la presenza dell’occhio dell’artista e della sua consapevolezza tecnica, concettuale e introspettiva. Soprattutto quella del volto, è una meta-rappresentazione, nella quale i soggetti arrivano alla tela non direttamente dalla realtà, ma attraverso l’intermediazione di una fotografia, uno specchio, una pagina di libro o di giornale, un sogno o un ricordo.

Chiudo confessando l’impazienza di vedere la mostra allestita nello spazio piccolo e compatto di Lavì! City, con i molti volti di Gaia Volonterio che assediano i visitatori e danno loro l’impressione di essere entrati in un caleidoscopio che riflette la loro immagine e la distorce in cento modi diversi. Confido, e aspetto conferma, che si tratti di una di quelle situazioni ideali nelle quali l’opera, o meglio l’insieme delle opere, coincide con l’allestimento, un luogo ideale nel quale lo sguardo dell’autore (o i suoi cento sguardi) si confonde con quello di chi guarda, come in un approccio low-tech all’interattività.

Presentazione di Alessandra Fontanesi

È bastato un soffio perché la memoria sollecitata dalle immagini di Elena Grossi mi portasse in un paesaggio lontano. La tentazione di svelare il luogo per avvicinarsi con la visione agli oggetti comporta uno sguardo audace che invita ad entrare, ma la messa a fuoco dell’occhio non basta. Nelle fotografie, l’uso della polvere che ha rivestito le scene di questa dimora ha sottratto con riserbo l’interiorità delle stanze ritrovate, in cui lo strato di fine pulviscolo della materia era divenuto, come dispositivo del tempo, l’abito della casa. Il suggerimento offerto dal mantenimento dell’involucro mi conduce oltre il momento presente verso la terra vista nella sua nudità, quale corpo attraversato dalle esperienze fissate come tracce nelle fotografie di Timothy O’Sullivan. Una semplicità che riporta alle origini, in spazi deserti dove non è rappresentata la sembianza umana, e la terra è la prima casa, archetipo dell’abitare con tutte le insidie che l’identificazione con la parte negativa del distacco emotivo può comportare.

Nel racconto per immagini della casa dei natali di Elena affiora il sentimento dell’abitare, della memoria della vita passata attraverso la testimonianza di quello che resta con una qualità impersonale, e si fa strada la necessità dell’affetto di arrivare a noi, che lo riceviamo nell’espressione tenue delle sagome incipriate degli oggetti. La polvere sembra dimostrare il vuoto della presenza di vita all’interno di ogni alloggio, l’assenza di cura che con gesti ripetitivi trasmette la memoria delle forme alle mani e radica il mobilio al suo ambiente, ma al contempo l’uso che l’artista ne fa consente alle immagini di “rimuovere la rimozione” di nullità e inesistenza per rendere familiare il ritorno dell’oggetto e del modo di poterlo guardare.

Le parole di Elena hanno descritto lo spazio delle cose e del rapporto tra l’essere umano e il mondo, un intreccio disponibile a farsi luogo, a trasformarsi nella costruzione del suo immaginario, disponibile al suo gioco e al suo capriccio. E forse è così che la nostra continua erranza, la capacità di vagare e di ritornare all’origine si ripropone ogni volta che dobbiamo rinnovare l’incontro con l’alterità: da un ampio guardaroba scegliamo la pelle della polvere più appropriata alla nostra persona. E la fotografa ricomincia dall’altra parte dell’obiettivo.

Molti scatti testimoniano il girovagare dello spirito mercuriale di Elena nella grande casa di campagna, abitata dalla famiglia da tre generazioni ed ora destinata solo in parte agli eredi. Nuove persone sono venute a vivere nella tenuta dei trisavoli, ma alcuni ambienti privati e diverse aree comuni non hanno ricevuto lo stesso destino. E proprio questi vani interni, passaggi e perimetri esterni all’edificio attendono la sua presenza, per imprimere nella memoria della carta stampata il simbolo del focolare domestico, consacrato dalla vecchia generazione in questa residenza alla quale, con coscienza condivisa, l’autrice desidera dare continuità. In un soffio l’anima di questi luoghi riprende vita e illumina tutte le cose. E noi intuiamo le forme nelle immagini monocromatiche, a tratti sbiadite con un bianco bruciato e velate con la polvere della loro presenza.

Con la concentrazione focalizzata sul compito che la figura di Estia nel mito dedica al tempo della cura, la scelta di Elena delle immagini esposte nella mostra insiste sulla congiunzione dei luoghi. Nella circolarità che unisce gli ambienti, con le scale a pioli delle cantine fino alle scalinate con balaustre finemente realizzate in marmo da una mano sapiente e familiare, si arriva al centro della casa. Qui il mobilio occupa la scena della sala da pranzo, e mostra che la segretezza appartiene ad altri contenitori. Elena sa che non basta togliere la polvere da queste superfici e accumularla con attenzione per velare il fantasticare del tempo passato. Le piace ricordare “Le mueble” di CharlesCros in cui esseri immaginari nascono dal mistero di un mobile amorosamente intarsiato […] e nel silenzio della notte il poeta sorprende i complicati intrighi tramati […].

In questo gioco di andata e ritorno, le riprese di questi paesaggi interiori fatti di spogli scantinati di mattoni e cemento e, via via a salire, di piani un tempo abitati che conservano suppellettili in apparente disuso, mi proiettano di nuovo all’esterno, e il ricordo va ad alcuni lavori fotografici di Marina Ballo Charmet. Qui il dispositivo di richiamo al presente, di interruzione di uno sguardo disabitato, divenuto cieco per troppa abitudine, non è più il punto di vista della polvere ma quello del bambino. Da una diversa altezza, che è anche distanza da un Io incapace di estraniarsi, ci è dato un senso nuovo, un sovrappiù di spazio, nella visione di piazza del Duomo a Milano. Un progetto intitolato milanopiazzaduomo ideato con Gabriele Basilico in cui la sfida dell’autrice di abitare la piazza è assegnata alla vista dal basso, instabile e decentrata, dell’occhio di un io bambina.

Nella poetica di Gaston Bachelard, lo ricordo con le parole di Elena, lo spazio è un sé come il miele nell’alveare. Ecco allora che i due spazi, dell’intimità e del mondo, si toccano, si confondono, diventano consonanti. E noi, portati in tal modo al centro delle immagini fotografiche di questo ciclo di lavoro di Elena Grossi, possiamo scegliere quale sguardo vogliamo abitare per avvicinare, come estranei incuriositi, gli oggetti carichi di casalinga intimità.

Presentazione di Valeria Tassinari

Pierluigi Vannozzi ha l’occhio intuitivo. Non credo sia una categoria che esiste scientificamente, come ad esempio l’occhio clinico, l’orecchio assoluto e altre capacità di decifrazione del mondo che ci piacerebbe avere. Si tratta, piuttosto, di un addestramento a catturare velocemente l’essenza dell’immagine, una particolare abilità di guardare, cercando le relazioni tra ciò che si vede e ciò che si sa.

La sua autentica raffinatezza intellettuale – alimentata dalle letture e dall’appassionata frequentazione di mostre, musei, cinema e teatri – non basta a spiegare questa sensibilità, che in fondo è una forma di sensualità onnivora, di sguardo intelligente e desiderante dell’artista, sempre in cerca di rispecchiamenti in ciò che lo circonda. C’è, in lui, un felice abbandonarsi alle sorprese del visibile ma anche una posizione di rigore concettuale, che gli impone di scegliere il filtro di tecniche fotografiche dall’apparente aleatorietà per disciplinarsi, per darsi il tempo di ragionare sugli effetti della visione, e per tenere sotto controllo l’impulso di mettere a nudo le cose. La fotografia, dopo una lunga stagione di ricerca visiva fondata sulla sperimentazione radicale, per lui ora è una procedura per sublimare la contemplazione delle immagini, una ricercatezza che sconfina in declinazioni pittoriche; solo così, nel filtro della luce che sceglie per lui cosa trattenere, Vannozzi si concede di cedere alla seduzione di un’estetica dagli echi antichi, e di divertirsi con il gioco di libere associazioni, con il quale può costruire un racconto dei suoi viaggi, scegliendo strutture narrative non convenzionali.

Il museo parigino dedicato al più passionale degli scultori non poteva non accendere l’intuizione che lo ha portato subito al di là della visione, amplificando quel sentimento del corpo 4 che in Rodin pulsa sotto la pelle, come un’entità divina in un reliquiario. Negli scatti fotografici realizzati durante la visita, spesso deviati sulle finestre per cercare i riflessi delle anatomie scolpite, tutto diventa meno nitido e più chiaro.

Il filtro della foto impone di tenersi un pochino a distanza da quella bellezza che lascia attoniti, da quella maestria tecnica perturbante, da quel marmo dalle seduzioni tattili, perché funziona da spazio mentale di decantazione. Ma una volta in studio, dopo le rapide alchimie della stampa, la foto restituisce comunque bellezza, e allora è lei a prendere la mano, a guidare verso un nuovo scenario, dove i muscoli in torsione richiamano altre immagini in sovraimpressione, evanescenti e tuttavia potenti, di un’evidenza evocativa che non si riesce a respingere.

L’eco erotico e disperato della pittura di Bacon, che qui è arrivato per intuizione, si è aggrappato subito alla materia, al punto che ormai è difficile scindere i due livelli. Allora meglio tenersi tutto e costruire una nuova narrazione parallela, come talvolta nel cinema si montano frammenti di due storie per crearne una sola senza esplicitarne le relazioni; una storia possibile, proprio perché mai vera.

C’è, in questa ricerca, un lavoro di rilettura critica e abbandono emozionale che coglie così bene l’essenza di due poetiche distanti e apparentemente antitetiche da metterci di fronte alla possibilità di pensarle insieme, in una dimensione fulminea e atemporale.

Presentazione di Federico Cano Correa, Francesco Carofiglio

“Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”

Così scriveva Italo Calvino nelle “lezioni americane” ed è questo l’intento e lo scopo dell’arte di Andrea Serio.

I suoi lavori, realizzati a pastello e matite colorate, ci fanno sentire esattamente così: leggeri.

In questa mostra sono esposte le intense tavole originali realizzate da Serio per la riedizione ad opera di Feltrinelli de “Il peso della Farfalla” racconto del 2009 di Erri De Luca.

Ad accompagnare le tavole definitive ci sono anche alcuni dei numerosi bozzetti preparatori.

Attraverso questi schizzi si può apprezzare e capire più da vicino il lavoro che c’è dietro ad un immagine finale, frutto di vari tentativi, di fallimenti e di successi.

“In ogni specie sono i solitari a tentare esperienze nuove” scrive De Luca e si può dire che anche Andrea Serio sia un solitario, un disegnatore che preferisce stare lontano dai riflettori, che si muove in punta di piedi, in maniera silenziosa.

Questo modo di essere credo si rispecchi anche nei suoi lavori e nel suo modo di interpretare il ruolo di illustratore.

La sua è una tecnica “classica”, un modo di lavorare lento, per il quale occorrono pazienza, tempo e quiete.

Al di là della bravura e dell’incredibile padronanza della tecnica, all’interno dei suoi lavori (ai quali mi piace pensare come fossero quasi degli esercizi meditativi) ci sono alcuni aspetti che spiccano su altri e sono la capacità di giocare con la luce e le ombre, coi pieni e coi vuoti, la capacità di cogliere anche le più piccole sfumature di colore che la natura offre solo a chi ha pazienza di guardarla davvero, infine la maestria del restituire allo statico foglio bianco il movimento della vita e della natura.

Federico Cano Correa

Presentazione di Valeria P. Babini

 

Ho sempre pensato che la memoria di chi tesse o cuce i suoi ricordi, tutti i ricordi, anche le parole che ci hanno attraversato, le frasi che scrittori e poeti hanno lasciato nei nostri cuori, le sensazioni, sì nostre, ma che inspiegabilmente si sono accompagnate da sé, mano nella mano, a un’immagine, a una fotografia, a una parola, ma anche a un filo rosso per il cucito, o ad esempio a un rocchetto, ho sempre pensato che la memoria di chi intende in qualche modo fermarla o esprimerla o esporla, come fa con grande delicatezza Roberta Zucchini nelle sue sette stazioni e nei suoi quindici ex-voto, quella memoria porti con sé, più ancora che un carico di contenuti di cui sembrerebbe voler lasciare traccia, la ragione profonda del suo senso.

A cosa serve la memoria? Le risposte posso essere e sono state molte; e si potrebbe anche dire che la domanda è capziosa. Tuttavia, lo sappiamo tutti, c’è una memoria che, ritrovata, ci è ritornata dentro, grazie al desiderio, prima ancora che alla volontà che ben presto a quel desiderio si asservisce. È il desiderio di trattenere ciò che non vogliamo lasciare andare: e a tenerlo in serbo è proprio lei, è la memoria che non serve, se non a ridare spazio e respiro all’essere che ci anima e attraversa il nostro vivere. Ecco perché Roberta Zucchini tanto si preoccupa che chi guarderà i suoi manufatti non si limiti ad attribuire loro un significato squisitamente autobiografico. Credo abbia ragione: perché anche quando il ricordo parte da noi, dai nostri vissuti famigliari, dalle nostre radici, culturali, collettive, è l’atto della memoria a caricarli di un senso capace di coinvolgere emotivamente e suscitare un sentimento di condivisione. È ciò che Roberta, con le sue opere, riesce a evocare in noi.

Quando sono entrata nella sala espositiva per fare la conoscenza del suo lavoro, ho avvertito da subito un’emozione carica di rispetto: come entrassi in un tempio, nell’anima di una vita, ma meglio sarebbe dire nel cuore della vita: perché una vita non è mai qualcosa di solamente personale e autobiografico, perché porta in sé quell’alito umano a cui tutti sentiamo di appartenere, anche se non tutti riusciamo a restituirlo o esprimerlo, come fa Roberta, con il suo prezioso lavoro di composizione artistica, dove ciò che più domina è proprio il sentimento del rispetto, e l’amore che senza di quello non è amore. Così, a scorrere davanti ai nostri occhi di spettatori è l’amore per le cose che dalla vita sono state toccate o attraversate: che siano abiti, persone, immagini, materiali, stoffe, fili, o semplicemente “ciò che resta degli strumenti di lavoro di una sarta”. È vero: si ha sempre timore che si perda ciò che, salvatosi magicamente, è rimasto nonostante lo scorrere del tempo nello spazio o nella mente di qualcuno: in un cassetto di un vecchio comò, dentro una scatola di fotografie, nel ricordo istantaneo di una immagine, nello struggimento di una emozione. C’è qualcosa di salvifico in quell’atto di ricomposizione artistica delle cose con cui Roberta Zucchini ci restituisce il valore della memoria; guardando il prodotto del suo lavoro, di una cosa diventiamo immediatamente consapevoli: che gli oggetti hanno vita, sono intrisi di pensieri di noi umani, sono rimasti nostri compagni di viaggio, ci testimoniano. Non sono solo il prolungamento o le appendici delle nostre mani e del nostro corpo, utensili di cui ci siamo serviti; sono anche cose che ci hanno accompagnato nel corso dell’esistenza, cose che abbiamo accarezzato con lo sguardo (i quadri appesi alle pareti, le nostre fotografie del passato, le parole stampate nei libri), cose su cui abbiamo lasciato l’impronta del calore del nostro corpo (gli abiti, le stoffe, il velluto delle poltrone, i cuscini su cui abbiamo sognato o pianto), cose che hanno tenuto impegnate le nostre mani mentre dovevamo far passare il tempo o placare il dolore della vita (le stoviglie con cui abbiamo cucinato, i bicchieri dei nostri brindisi, le stoffe cucite, i fili arrotolati, i ricami), cose che ci hanno aiutato a rallegrarci nelle ore felici (un monile, un rossetto, un pettine, un nastro per i capelli). Senza gli oggetti che strada avrebbe fatto l’essere umano?

Questa memoria (non i singoli ricordi) in cui ci riporta l’opera di Roberta Zucchini, è anche contagiosa, trova eco in chi sa guardare ed ascoltare, e tiene gli occhi aperti sull’umano che abita ciascuno di noi. Così indugiare con lo sguardo su questi manufatti costruiti a partire da pezzi di vita che noi non abbiamo mai conosciuto, è percorrere una strada, poetica, che ci fa entrare in contatto con il nostro mondo interiore, di noi esseri umani. Grazie ai lavori artistici di Roberta, ognuno può farlo. È questa la magia della memoria che lei ci aiuta a ritrovare.

La delicata cura che si scorge nella costruzione dei suoi manufatti artistici, la cucitura più che il ricamo con cui l’autrice, con un gesto lento delle mani, ha inteso fermare per noi tutti le parole e le immagini fotografiche che le sono per così dire andate incontro attraverso la sua memoria, veicolano un amore rispettoso delle cose che vuole “rendere impossibile la loro dispersione”, ma, fissandole con un filo da cucire, anche sottrarle al destino di semplici istantanee; e, perché no, nasconderle un poco, e proteggerle, sotto quel filo che le cuce, come fossero reliquie da conservare. Il cucito è un gesto antico, mette insieme, tiene stretto; il filo è ciò che consente al gesto del cucire il suo operato, ma è anche ciò da cui nasce il discorso che lega le parole: quelle che accompagnano e riaprono alla vita ciò che la fotografia potrebbe avere chiuso troppo frettolosamente in uno scatto.

La città e la solitudine: un tema antico, frequentato da secoli. A Venezia, poi, parlare di solitudine è una doppia scommessa. Non esiste infatti città più descritta, raccontata, parlata. Il tema della Venezia decadente, culla della solitudine, è uno dei filoni più attivi della retorica sulla sua storia. D’altra parte Venezia è immediatamente associabile alla dimensione diametralmente opposta, quella della folla. Venezia è (o perlomeno era: abbiamo tutti negli occhi gli ammalianti reportage lagunari durante i vari lockdown dell’ultimo anno, con il ritratto di una città inquietantemente deserta) la città delle folle turistiche, dell’invasione delle orde giornaliere di visitatori. Pensare la città come luogo della solitudine sembrava fino ad oggi quasi un ossimoro mentale.

La solitudine come chiave interpretativa della città serve a riflettere su molte tematiche di stringente attualità per comprendere la sofferente identità della Venezia contemporanea. Ovviamente, in primis, sul rapporto fra turisti e residenti. La signora ritratta con il suo carrello della spesa, seduta su un vaporetto, gli occhi socchiusi come a voler prendere tregua per un po’ dalla visione del mondo attorno a sé, parla di una città abitata da persone anziane, spesso circondate da un bolla di solitudine non necessariamente cercata, ma più spesso subita. In quella efficace immagine, perfino il cane che fa capolino nell’angolo in basso a sinistra appare assorto in una solitaria meditazione.

Nelle fotografie di Wienand le persone ritratte di schiena, in solitudine, “fanno subito” quadro di Caspar David Friedrich. Anziché gli scenari naturali, montagne, scogliere, marine scelti dal pittore romantico tedesco, qui vi sono i celeberrimi sfondi urbani della città lagunare: le calli, i campielli, le fondamenta. L’effetto è straniante, curiosamente stimolante: Venezia assume in questa prospettiva la potenza di una forza naturale, di fronte alla quale i solitari pensatori e le solitarie pensatrici ritratte da Wienand sono intenti a riflettere filosoficamente.

Il lavoro raccoglie una selezione di migliaia di scatti realizzati dai fnestrini dei treni, percorrendo l’Italia in lungo e in largo sulle carrozze delle Ferrovie dello Stato. Punti di fuga è un viaggio, un viaggio in treno nel paesaggio italiano attraversato dalla ferrovia.

Questo paesaggio è un paesaggio particolare. La nascita delle strade, il tracciamento delle strade ha creato il paesaggio come noi lo conosciamo. Così la ferrovia. La tracciatura delle linee ferroviarie ha creato un altro paesaggio che è quello che noi percepiamo solo con il viaggio ferroviario.

Perché queste foto ci intrigano tanto? Perché le guardiamo così intensamente? Passando da una all’altra cerchiamo di capire la tecnica di ripresa, individuiamo le costanti operative, ma non ci basta.
Analizziamo i livelli di definizione formale, facciamo attenzione ai primi piani, alle forme sfuggenti, ai colori frammentati. Ci sembra di poter cogliere il punctum, come nella classica definizione di Roland Barthes, in un dettaglio del paesaggio, all’orizzonte… È quindi l’effetto di mosso il segreto di queste immagini? Lo svanire degli oggetti in primo piano a favore della persistenza delle figure in fondo?… Esse non sono per niente casuali: casuale sarà stata la scoperta della novità di una ripresa dal treno in movimento, ma partendo dalla intuizione è stata perseguita una ricerca motivata e rigorosa… Pavone ha viaggiato per anni, percorrendo migliaia di chilometri in treno, producendo immagini dense, dando senso e continuità ad una esplorazione figurativa che è diventata innovazione linguistica e analisi paesaggistica inedita… La figura, il punctum rilevante, non è in primo piano, dove domina il mosso delle forme transeunti, è invece nel fondo dell’immagine… Le immagini sovvertono la nostra abitudine alla nitidezza fotografica: lo scarto visivo, l’inattesa vaghezza delle parti mosse, ci costringono a percorrerle ripetutamente analizzando la visione che ci appare fuggente… In questo inquieto vagare del nostro sguardo, il paesaggio, nei suoi monumenti o nella visione di costruzioni umili e quotidiane, viene valorizzato straordinariamente. La novità linguistica degli effetti di mosso applicati alle vedute dai treni in corsa non è fine a sé stessa, ma è la base per un discorso in forme nuove sul paesaggio italiano… Un paesaggio visto dinamicamente, che non può essere contemplato con lo spirito del turista, che può sostare e scegliere quel che gli interessa, ma che nasce da uno sguardo, per così dire, in fuga, che pur volendo osservare deve cogliere la finestra temporale che gli consente di intravedere qualcosa di significativo e lontano tra gli elementi fermi del suo scompartimento e quelli, all’esterno, in movimento… Il dialogo tra il primo piano sfumato e la nitidezza all’orizzonte sottolinea che il nostro vedere è sempre relativo… La certezza della prospettiva ad unico punto di fuga si disgrega e si moltiplicano i dettagli visivi che il nostro sguardo insegue. Non è immediata la riflessione che il paesaggio non è affatto in fuga, e che in realtà è il fotografo con la sua camera che viene “mosso” dal treno che lo ospita. Una considerazione finale che, sottolineando l’efficacia del linguaggio e della tecnica di ripresa, segnala la novità di questo discorso sulla realtà dell’Italia di oggi.

Enzo Velati

A Castiglion Fiorentino di sera sull’oscuro del cielo al tramonto una lampada della carrozza si riflette come una luna. Tra Orvieto e Terni un paesaggio con cipressi verde, giallo, marrone, e azzurro fa pensare a Corot o ai Macchiaioli… Ma il viaggio è lungo e intrigante. Ogni pezzo di paesaggio è un pezzo di vita che fugge, forse per non ritornare, mentre i toponimi anche si rincorrono, in una identità rafforzata dal viaggio in ferrovia con le sue innumerevoli e fuggevoli tappe…

Dino Borri

La mostra è composta di trenta fotografie eseguite da Stéphane Asseline nel corso di una residenza d’artista presso Spazio Lavì! a Bologna, nel novembre 2019. Si tratta di diciotto paesaggi urbani e di dodici ritratti di richiedenti asilo e rifugiati accolti in appartamenti e strutture di Arcisolidarietà Bologna e Antoniano Onlus. Essi hanno accettato di incontrare Asseline e di farsi fotografare in luoghi della città che “abitano” e che essi stessi gli hanno indicato: la propria casa, il lavoro, un posto caro.

Sono tutti residenti a Bologna e provenienti da paesi differenti, ognuno con una storia personale, un passato ed un futuro da raccontare. Che infatti hanno raccontato in brevi testi manoscritti che accompagnano i loro ritratti.

Il lavoro fotografico di Asseline, esigente nella ricerca formale come nell’impegno civile, si era già cimentato alcuni anni fa in un lungo progetto in collaborazione con Villeneuve-Saint-Georges, uno dei comuni dell’agglomerazione parigina in cui si accumulano inestricabilmente problemi sociali, economici e spaziali. Le foto relative sono state esposte nel mese di novembre del 2019 alla Sala Cavazza del Quartiere Santo Stefano e la mostra che si presenta a Lavì! City si pone in diretta relazione con quella, in quanto è il frutto dello stesso metodo di ricerca applicato alla realtà urbana bolognese. Il progetto fotografico è sostenuto dal Quartiere Santo Stefano, all’interno del programma delle attività di cui al Bando delle Libere Forme Associative per il 2019.

Diplomato alla École Nationale Supérieure Louis-Lumière, Stéphane Asseline apre il suo studio fotografico a Parigi nel 1993. Porta avanti un lavoro autoriale e la realizzazione di commissioni pubblicitarie nel settore della natura morta e del ritratto. Poco a poco si converte a una fotografia più lenta e più documentaria, dove oggi si mescolano commissioni sull’architettura e il patrimonio culturale e un lavoro d’autore orientato soprattutto verso le questioni sociali, le trasformazioni urbane, delle memorie e delle identità.

Trasmesse oralmente per generazioni, le leggi del Kanun – o codice – di Lekë Dukagjini sono state per più di cinque secoli il fondamento del comportamento sociale e di auto-governo per i clan del nord dell’Albania, anche quando la regione era ufcialmente sotto il dominio Ottomano. Si tratta di leggi, consuetudini e valori che si sono evoluti per molti secoli, sia prima che dopo l’esistenza (1410-1481) del personaggio storico a cui sono attribuite. Alcune, in particolare quelle riguardanti il concetto dell’onore, che regolano le faide di sangue, potrebbero aver avuto origine dagli Illiri, gli antenati degli Albanesi. Il Kanun fu codifcato e scritto in una forma comprensibile ed efcace per la prima volta negli anni venti del Novecento da un prete Francescano, Shtjefën Gjeçov. Nonostante i tentativi di abolirne l’autorità durante i cinquant’anni di dittatura comunista di Enver Hoxha, i precetti del Kanun continuano ad esercitare un’infuenza signifcativa, soprattutto tra i cattolici che abitano gli altipiani del Nord. Quest’infuenza diventò particolarmente evidente durante le crisi politiche e sociali degli anni 90, quando gli abitanti degli altipiani settentrionali dovettero afrontare il crollo dell’autorità centrale del paese e si rivolsero quindi spontaneamente al Kanun in cerca di una guida. Oggi la maggior parte degli abitanti degli altipiani si è spostata in altre località dell’Albania o è emigrata. Poiché la popolazione proviene da una struttura sociale basata sulla famiglia estesa, sul clan, prova scarso rispetto nei confronti di qualsiasi autorità che non sia la gerarchia familiare. Alcuni clan hanno distorto i valori originali del Kanun e usano i concetti di ‘onore’ e di ‘fedeltà familiare’ per svolgere attività illegali in ambito internazionale (dall’omicidio a contratto, al furto a mano armata, alla prostituzione, al trafco di armi, persone e stupefacenti) così come la siciliana Cosa Nostra ha stravolto le proprie tradizioni. Questa è la storia di un popolo legato al proprio passato e dilaniato dalle contraddizioni che emergono afrontando la realtà dell’inizio del nuovo millennio. Questa è la storia di un museo ancora vivo: la terra del passato vivente. Le fotografe presentate in questa mostra sono state scattate tra il 1992 e il 2000. Il libro presente in galleria è un tentativo di far luce su un’enclave relativamente piccola dell’area balcanica e per poter comprendere di più su questa afascinante area dell’Europa.

a cura di Eleonora Frattarolo

 

L’installazione che Sima Shafti ha creato per il piccolo spazio Lavì è un condensato della poetica e delle forme sperimentate e raffinate negli ultimi dieci anni, un periodo di tempo in cui l’artista iraniana ha spesso realizzato interventi in spazi complessi attivando una poetica e una pratica performativa di grande rigore e intensità. Penso ad esempio all’intervento del 2016 nella Rocchetta Mattei (Stanze della meraviglia. Esotismo, fantastico, incanto nella Rocchetta Mattei), quando in una piccola stanza circolare, con la creazione di un “tappeto” di pigmenti naturali e di fili di lane e di sete, Shafti ridiede vita ai versi del grande poeta Sohrab Sepehri (1928-1980) in difesa delle acque, della Natura, della fecondità della Terra. E sempre, oltre che nelle declinazioni della morfologia del tappeto, il lavoro si dipana nel solco della tradizione della sua terra, dove calligrafia, poesia, musica, corroborano energie vitali e spirituali. Solo chi abbia visto esemplari di antichi manoscritti miniati persiani, solcati da mirabili trasmutazione di caratteri farsi, può comprendere a cosa alluda in quella cultura la scrittura che diviene ritmo, oscurità, luminescenza, rivelazione e apoteosi della bellezza. Solo chi abbia assistito alla lettura di versi sulle tombe dei Poeti da parte di iraniani a noi contemporanei, può afferrare il segreto di una poesia immanente e vitale. Così Shafti, con cura, con cautela, con emozione ragionata, costruisce tappeti, che sono paradisi, che sono recinti, giardini, luoghi dell’origine in cui avviene l’osmosi tra natura e spiritualità, tra materiali e suono. Ogni sua opera è inscindibile dal suono, che la rende compiuta.
Nei laboratori artigianali di tessitura-racconta Sima- c’è l’usanza di “cantare” i colori. Il lettore intona letteralmente con la voce una “mappa”, delle istruzioni che descrivono il tappeto da creare, e il tessitore, seguendo dei veri e propri ritmi, esegue, nodo per nodo. Essendoci tradizionalmente questa componente musicale nel processo di produzione dei tappeti, ho voluto inserire una colonna sonora per l’opera, fatta di suoni di acqua corrente, vento, legno che brucia e ovviamente un canto originale. In sottofondo si sentirà il picchiettio della dafieh, il pettine di metallo che si usa per stringere le trame del tappeto”. Diversamente da ciò che avviene in altre culture, in Iran l’arte contemporanea è aggiornatissima sui modelli occidentali e pure profondamente legata alla tradizione persiana e zoroastriana. E certo, i procedimenti di Sima Shafti contengono rimandi, memorie, valutazioni, analoghi a ciò che connota i volti e le narrazioni, o le combuste archeologie dell’immagine e della scrittura, di una Shirin Neshat o di un Barbed Golshiri…

presentazione di Dede Auregli
 
 
Per Regula
 
Nella morbida campagna di Bagnoregio, a Fontanicchi, si trova un luogo speciale, una piccola casa con un orto-giardino che è anche un parco di sculture, di fantastici animali di legno trovato e ferro riciclato e di grandi fiori di pietra. Quando il vento passa tra gli ulivi anche i fiori oscillano lievemente sui lunghi steli di ferro direttamente conficcati nel terreno e gruppi di oche starnazzanti si rifugiano sotto la grande struttura policroma di una improbabile Arca di Noè. Questo paradiso è anche la casa e lo studio di due singolari artisti, Francesco Marzetti, instancabile creatore di forme fantastiche e Regula Zwicky scultrice vigorosa e insieme delicata. Regula ha collocato lo studio sotto un grande fico che lo ombreggia e lo riempie del profumo delle sue foglie e lì lavora duramente con grande abilità e sapienza dei materiali – travertino, basalto, porfido, peperino – sfruttandone le precipue caratteristiche e anzi come assecondandole. Le forme, siano esse i grandi fiori o nodi d’amore e maternità, sono suggerite dalla vena nel taglio dei materiali e da lei sfruttate con un’abilità tecnica straordinaria dovuta non alla formazione teorica, ma all’esperienza nel campo del lavoro di scalpellino, compiuta tanti anni fa al suo arrivo in Italia dalla Svizzera e condotta con ferrea volontà di perfezione. I fiori possono anche essere “da interno”; lo stelo allora diviene morbido, composto da un patchwork di tessuti e, poiché Regula, come artista contemporanea, ha abolito ogni forma di piedistallo a favore del dialogo diretto e della continuità tra opere e quotidianità, anche questi fiori ne sono privi. Qui prevale il gioco degli opposti tra la dura pietra e il morbido e pieghevole tessuto vellutato o ricamato che funzionano a contrasto e a completamento. E, appunto, ogni opera viene diversamente esaltata dalla forma perfettamente levigata della corolla marmorea e dal sempre differente vellutato o setoso patchwork di stoffe nel lungo gambo. Anche il colore impone la sua presenza, derivato dalle diverse tipologie di pietra utilizzate in ogni fiore e dai vari tessuti coi quali è cucito ogni gambo che danno alle opere un inedito risvolto pittorico. In questa serie di lavori, che appartengono all’ultimo periodo di ricerca e ancora in divenire, è presente anche un diverso modo di fare arte: l’attività dello scolpire, in qualche modo legata alla forza e alla potenza tradizionalmente di segno maschile, e quella del cucire legata all’abilità paziente, delicata e raffinata, tradizionalmente attribuita al femminile. Se queste categorie sono state rese definitivamente obsolete soprattutto dalle artiste contemporanee, per parte sua e senza pensarci troppo Regula le ha scavalcate con naturalezza, solo seguendo la sua passione per i materiali e attirata dalle loro diverse potenzialità. Altri lavori, che vengono anch’essi esposti in questa occasione bolognese, appaiono, e sono concepiti, come una sorta di “pennellate sul muro”, una “scrittura automatica” di vaga memoria surrealista, soprattutto se si osservano quelli più recenti che girano su se stessi all’infinito. In questa serie è evidente che Regula parta già con l’idea della forma da realizzare, ma la ricerca del materiale utile allo scopo è sempre comunque accurata e capace di aderire all’idea. Ancora, la sua abilità a scolpire la porta a costanti e diverse sfide con se stessa e nascono lavori come i fazzoletti di marmo candido lievemente appoggiati su superfici piane come da una mano distratta. Le piccole pieghe che si formano ci sollecitano a toccarle per sincerarci della qualità del materiale che l’occhio non arriva a distinguere immediatamente se tela o pietra. Qui l’amore inflessibile per la precisione e la perfezione tecnica si evidenzia senza schermi e nei lavori recenti – pareva quasi impossibile – si è accentuato. Avevo visto il primo di questa serie alcuni anni fa ad una collettiva di italiani e stranieri “Arte libera tutti” nelle Ex carceri di Montefiascone, in Lazio, mostra che ebbe un buon successo tanto da convincere gli organizzatori (tra i quali anche Zwicky e Marzetti) a ripeterla invitando curatori e artisti differenti in ogni edizione e che negli anni successivi realizzarono sempre lavori site-specific prevalentemente ispirati alla storia e alle funzioni del luogo. Allora si trattava di un pezzo piuttosto grande, appoggiato come casualmente al pavimento della piccola cella, e, pur essendo sorprendente nella realizzazione, si poteva capire anche ad una prima osservazione che era di marmo. Ora è assai più difficile, quando ho visto uno degli ultimi fazzoletti realizzati appoggiato nella penombra di una finestra quasi non ci ho fatto caso tanto questo particolare trompe l’oeil, un vero inganno per l’occhio, risultava veritiero… Qui occorre fermare lo sguardo, focalizzarsi sui bordi, sulle pieghe del piccolo lembo di stoffa per convincersi che si tratta di una scultura in marmo, capace anche di assorbire la luce in un modo opaco molto simile alla stoffa. La produzione di Regula Zwicky tuttavia non si ferma ai lavori presenti nella mostra bolognese, ma spazia curiosa su altri e diversi materiali, naturali e non, che le consentono una continua sperimentazione totalmente libera da cifre stilistiche codificate.

Il fotografo francese Stephane Asseline ha realizzato nel 2017 il progetto Rue de Paris a Villeneuve-SaintGeorges, un comune francese di trentamila abitanti situato nella regione dell’Île-de-France e ha eseguito ritratti di persone e famiglie di immigrati ambientandoli nel loro contesto quotidiano. Una selezione di quaranta immagini del lavoro è ora esposta nei locali del Quartiere Santo Stefano (Sala Cavazza), nel quadro del progetto Una collezione di ritratti, proposto da Spazio Lavì per il bando delle Libere Forme Associative del 2019, per efetto del quale lo stesso autore svolgerà sul territorio bolognese un lavoro analogo a quello fatto nella banlieue parigina, per evidenziare diferenze e somiglianze tra i due casi.
Questa campagna fotografica sarà eseguita tra l’autunno 2019 e la primavera del 2020 con la collaborazione di Arci Solidarietà di Bologna.

a cura di Sergio Rossi
 
 
Fumettibrutti
 
Sesso, droga, violenza, baci, lacrime, abbracci. C’è tutto questo e anche di più nelle pagine di Josephine Yole Signorelli scritte e disegnate senza censure, omissioni, ellissi narrative. Lo sa bene chi la segue su Instagram e su Facebook attraverso le sue storie, sia a fumetti sia quelle personali, che sono poi state alla base del suo primo romanzo a fumetti, Romanzo esplicito. Ma il vero salto autoriale è avvenuto con P. – La mia adolescenza trans, un libro dove mette in scena, pietismi e autocommiserazioni la sua vita, in particolare l’attraversamento di quella linea d’ombra che l’ha portata alla consapevolezza di sé e alla sua trasformazione dall’adolescente dai tratti delicati P. all’attuale Josephine. Testo e disegni sono volutamente sghembi, non realistici, a volte addirittura sbagliati e al limite del comprensibile. Eppure, funzionano. Chiunque scriva e disegni conosce bene l’immediatezza dei primi schizzi e la freschezza di alcune frasi colte al volo che segnano l’inizio di una nuova storia e, insieme, la paura di perdere quello slancio iniziale, quell’intuizione che è stata la scintilla di tutto.
Nelle pagine de La mia adolescenza trans questo non avviene grazie a questo segno scabro che diventa il mezzo più rapido per colmare la distanza tra l’intuizione del cervello e l’esecuzione della mano, una specie di scrittura automatica dettata dall’urgenza di raccontare tutto e subito, e di farlo senza le mediazioni della tecnica e della decantazione dell’esperienza. È un tratto che sembra basato sul modello “buona la prima”, e per questo è a volte oscuro, ma certo più efficace rispetto a uno più meditato, definito, risolto, facile a vedersi, e forse addirittura più artificioso. Il risultato sono immagini 1rese da un’ideale telecamera dotata di una messa a fuoco infinita che, da un lato, ci mostra senza sfumature tutto ciò che inquadra in campo erotico e sentimentale e, dall’altro, lo deforma per amplificarne la forza narrativa. È così che luoghi dove si dipanano le memorie dell’autrice – come i parcheggi, le aule di scuola, le discoteche – vengono resi solo nei minimi componenti strutturali che donano loro quella suggestione che li trasforma in luoghi dell’anima che qualunque lettore riesce a riconoscere come propri. Ed è anche così che l’autrice crea una comunicazione diretta con il lettore, il quale avverte la sincerità del racconto e si accorge subito che in quelle pagine il sesso esplicito ha la stessa forza narrativa delle farfalle nello stomaco, perché entrambi nati dalle forche caudine della violenza vissuta e raccontata dall’autrice nella sua ricerca di trovare la persona che davvero si sente di essere, attraverso la ricerca del vero corpo che si sente addosso e non quello con cui casualmente è nata.

a cura di Laura Gasparini

 
 
Lo sguardo e le città
 
La città dell’ottocento e ancora di più le metropoli del novecento generano sguardi. Gruppi di edifici, larghe arterie che attraversano le città, i fiumi formano fughe prospettiche dove necessariamente l’occhio si muove soffermandosi sul dettaglio per capire, conoscere, riconoscere e orientarsi nel divenire, a volte, turbinoso delle cose, delle persone. Continue reading “The Eye Line”

a cura di Eva Frapiccini

 

La mostra propone il confronto tra due ricerche sulla materialità dello spazio circostante e l’infuenza delle nuove tecnologie nel loro essere in continua evoluzione. Come lo spostamento tra la dimensione ottica e aptica viene risolta nella materialità dell’opera d’arte, così l’uomo si trova a vivere nella trasformazione del post-human, dove algoritmi e nuove tecnologie sostituiscono il libero arbitrio.
Limitless di Giusy Musto e Fashion Erbario di Filippo Bonelli coinvolgono il visitatore in una dimensione intima e rifessiva. Limitless propone un’indagine sulla visione e il ricordo di un luogo in trasformazione. Musto usa le mappe catastali in contrasto con le fotografe di un paesaggio conosciuto, rimandando ad un continuo attraversamento fsico di limiti, confni, quelli di proprietà, ma anche quelli esistenziali, di chi ha voglia e paura di esplorare nuove geografe. Bonelli indaga il linguaggio fotografco nel suo essere fne della vita, e richiamare il signifcato di “é stato” espresso da Barthes attraverso le immagini di piante. Nel lavoro di Bonelli la forma e il contenuto si sposano nel display espositivo: le immagini luminose di piante incastonate in scanners, che lui stesso defnisce “sarcofagi”, incarnano una duplice nostalgia Barthesiana, per l’oggetto fotografato e lo strumento tecnologico ormai scarto del tempo.

 

La mostra fa parte di Opentour 2019: una festa dell’arte lunga una settimana, dal 17 al 23 giugno, con la quale l’Accademia di Belle Arti di Bologna si apre all’esterno e “invade” numerose sedi e spazi espositivi e culturali cittadini, proponendo al pubblico l’occasione di scoprire e apprezzare i risultati dell’attività che studenti e docenti svolgono nelle aule.

a cura di Piero Orlandi

 

Architetti, ingegneri, urbanisti, docenti, artisti, ognuno di loro è stato invitato a presentare un’opera e a raccontarla. Sono stati tutti dei baby boomers, sono nati negli anni del miracolo economico italiano e hanno completato il proprio percorso di formazione quando si lavorava in gruppo, si credeva fermamente nell’interdisciplinarità, si immaginava una società diversa. In mostra ci sono plastici, serigrafe, schizzi a mano libera, acquerelli, sculture, fotografie, collografie, fumetti, dipinti, bozzetti, tavole di progetto. Un vasto insieme eterogeneo di cose che cerca un’assonanza generazionale, cementata da anni di collaborazioni, da frequenti incontri, dialoghi, scambi di idee. Sono testimonianze che raccontano gli anni Settanta, che per tutti sono stati gli esordi nella professione o nell’attività, ma giungono fno agli anni recenti; presentano un momento preciso della propria carriera o una singola idea guida capace di orientare a lungo il percorso professionale, un collage di memorabilia personali o il primo abbozzo di una ricerca; ci raccontano di concorsi di architettura, mostre d’arte, oggetti di disegno industriale, allestimenti museografci, piani territoriali, viaggi fatti o immaginati, libri scritti e pubblicati, cantieri di piccole e grandi dimensioni, strumenti ed utensili di lavoro. Emergono le diverse personalità e i diversi percorsi ma si può rintracciare un background comune nella fducia non smarrita per la sperimentazione e il progetto.

 
Opere di Sandro Breschi, Marco Bucchieri, Manuela Caldi, Paolo Capponcelli, Walter Cascio, Marco Cavani, Alessandra Cazzoli, Pippo Ciorra, Piero Dall’Occa, Antonio Gentili, Monica Manfrini, Cesare Mari, Marina, Mentoni, Romano Miti, Silvia Morselli, Piero Orlandi, Daniele Paioli, Roberto Peluso, Giulio Pesci, Stefano Piazzi, Mario Piccinini, Piergiorgio Rocchi, Mili Romano, Andrea Zanelli, Michele Zanelli.

a cura di Monica Manfrini e Daria Kieżun

 

L’architetto Zbigniew Jakubek si dichiara nel testo che accompagna il suo lavoro: fotografo amatoriale. Mai come in questo caso la definizione risulta così calzante. Il rapporto che si è sviluppato in un lungo arco di tempo, direi oltre cinquanta anni, con i temi ritratti – in questo caso una selezione di architetture – è proprio di amore. Amore per gli spazi, amore per il nuovo, amore per l’antico, amore per i contrasti, amore per la ricostruzione. Lo spirito della ricostruzione animò le celebrazioni nel 2016 per Wroclaw città europea della cultura, dando impulso a numerose attività artistiche ed espositive in molte zone della città. Queste foto ci mostrano la grande spinta della città polacca a ricostruire e rinnovarsi, integrando senza timore le antiche costruzioni con le più avveniristiche invenzioni architettoniche.

Jakubek con le foto più antiche in bianco e nero, scattate a Budapest nel 1978, quasi un documento storico, ci propone di immedesimarci, con un ponte ideale di sguardi, negli spettatori di un evento che si sta svolgendo e che non ri-conosciamo, ma che ci piace pensare nel passato di una regione europea ancora soggetta a una difficile situazione politico-economica.

Con un salto di più di trent’anni la situazione è evoluta, si è aperta a nuove energie, a nuove strategie di integrazione e il nuovo paesaggio architettonico lo rivela in tutta la sua giovanile spinta. Un altro elemento compare in queste foto: si respira l’aria che avvolge gli edifici. Aria come contorno e come sfondo, aria di rinnovamento.

a cura di Gina Costa e Marina Dacci

 

La selezione di fotografie di Paolo Simonazzi presentate in mostra propone temi e soggetti che meglio rappresentano la sua ricerca. Appartenenti a diverse e talvolta parallele serie di lavori, le immagini traggono il loro potere e signifcato da una coscienza quotidiana e condivisa di esperienze dello spettatore. Simonazzi comprende il ruolo complesso e il potere dell’immagine per ridefnire e focalizzare le nozioni di memoria, di luogo e del processo stesso del guardare.

Farsi coinvolgere da queste immagini signifca viaggiare tra luoghi reali, ricordati e immaginati e anche attraversare condizioni mentali di più ampio respiro. Qui si intrecciano due tradizioni: la profonda e ricca storia visiva dell’Emilia, la provincia centro-settentrionale che è la sua casa, e la mitologia della strada americana iniziata nei primi anni ’50.

Luigi Ghirri, un’infuenza riconosciuta e visibile, ofrì all’inizio questa possibilità, che Simonazzi riconsidera e rielabora. Entra nello spirito del luogo della sua amata Emilia per poi intrecciarlo con la sua passione per la cultura americana “della strada”, la strada come musa.

La chiave della riuscita delle fotografe di Simonazzi consiste nella sua capacità di catturare la nostra immaginazione con queste icone della banalità, proprio come fece Ghirri. Il suo franco umorismo nella rappresentazione ironica dei suoi soggetti è tratto dal linguaggio visivo della road photography americana. Dalle classiche immagini di strada di Walker Evans e Robert Frank a Ed Ruscha, Stephen Shore e William Eggleston, alle voci più recenti della “ballad of the highway”, la visione della strada aperta è stata la modalità con cui i fotograf hanno abbracciato uno dei temi più avvincenti della cultura americana. Allo stesso modo, Simonazzi celebra l’”Emilian Road Trip”.

Le sue foto, immediate e capaci di illuminare ciò che è facilmente ignorato, elevano il banale a straordinario e il bizzarro a umoristico; toccano tutti, indipendentemente dalla nazionalità: il loro potere trasformativo è in parte la chiave della loro riuscita. Signifcato e dignità scaturiscono dall’ordinarietà dei suoi soggetti, rendendo iconici oggetti quasi insignifcanti, stanze e beni di persone semplici. Queste immagini formano un diario visivo che unisce nazionalità e culture, creando in defnitiva un’intima canzone d’amore che risuona con tutti coloro che vivono sulla strada, indipendentemente da dove si trovino.

Le sue foto, immediate e capaci di illuminare ciò che è facilmente ignorato, elevano il banale a
straordinario e il bizzarro a umoristico; toccano tutti, indipendentemente dalla nazionalità: il loro
potere trasformativo è in parte la chiave della loro riuscita. Signifcato e dignità scaturiscono
dall’ordinarietà dei suoi soggetti, rendendo iconici oggetti quasi insignifcanti, stanze e beni di
persone semplici.
Queste immagini formano un diario visivo che unisce nazionalità e culture, creando in defnitiva
un’intima canzone d’amore che risuona con tutti coloro che vivono sulla strada,
indipendentemente da dove si trovino.

 

Forme indeterminate

Piero Orlandi

 

Mi trovo, con tutti voi che guardate, in una città non grande, fatta di casette a uno o due piani, uni- o bi-familiari, e proprio per questo sembra una piccola città, forse di mare. Però il mare qui dalla strada dove cammino non si vede, forse lo si potrebbe vedere salendo sui balconi al primo piano. Se sui balconi ci si potesse andare. Ma non ci sono porte per entrarci, né scale per salirci, e così sono costretto a continuare a camminare restando fuori dalle case e giù dai balconi. A quanto sembra, da queste case non si può nemmeno uscire, insomma lo spazio che conformano non è pensato per me, per noi, anzi è contro di me e mi impedisce – anziché consentirmi – mi impedisce di fare le cose che si fanno attraverso lo spazio: entrare, uscire, salire, scendere. Anche i miei sensi sono limitati, non posso vedere nulla intorno a queste case, solo piccoli lacerti di giardini e nient’altro, né montagne né strade, né pali della luce né persone, insomma niente di quello che di solito si vede in una città. Non vedo le finestre, non vedo le automobili, finestre e automobili sono gli elementi primari del paesaggio urbano, insieme con le facciate delle case e i nastri grigi delle strade. E poi non sento voci, c’è silenzio, anzi in un certo senso non c’è nemmeno silenzio, c’è più che altro una mancanza di suoni, il silenzio è quando tacciono gli uccelli, la gente, i musicisti di strada e tutto il resto, ma qui, nella città che dipinge Reali, non ci sono uccelli né auto, e dunque non c’è né rumore né silenzio. C’è un’aria densa, non è trasparente se non proprio qui davanti ai miei occhi, tutto intorno c’è un’atmosfera opaca, lo sguardo non riesce a perforarla, non vedo oltre. Non vedo altro che le forme equivoche che Reali mi consente di vedere, ma non mi è dato di capire con precisione a che distanza sono queste forme, la mancanza di una distanza chiara non mi consente di sapere se sono davvero case o invece sono oggetti, ferri da stiro o strumenti di lavoro, automobili o macchinari obsoleti. Sono forme indeterminate. Non ne sono note le dimensioni perché non hanno relazioni percepibili con l’intorno, intorno non c’è niente, oppure poco, e da questo poco non posso capire se quelle aree verdi sono giardini o campi coltivati, praterie o vasi di fiori, se quei selciati sono cortili o marciapiedi, spazi pubblici o privati, e dove portano, e dopo quanto si arriva.

Ma se, una volta visto quello che vedo in questa strana città, ci voglio ragionare su, e mi chiedo se mi piace o no, se è bella o brutta, se la riconosco come antica o moderna o semplicemente vecchia, e soprattutto se è vera o falsa, o anche solo verosimile, allora il mistero diventa sempre più difficile da decifrare. Vero il paesaggio di Reali non sembra, ma se è falso è comunque costituito da elementi veri, perché i muri sono della materia dei muri, le luci disegnano ombre che sono ombre, e dunque con gli elementi veri Reali costruisce un paesaggio che pare falso, così come il sorriso critico, sardonico, glaciale con cui guarda le cose lo porta a produrre dei ritratti immaginari di cose e case per le quali viene spontaneo provare affetto, non ostilità, magari compassione, e dunque un sentimento che non giudica ma condivide.

L’artificio di Reali produce un paesaggio artificiale, decisamente artificiale, di naturale ci sono solo i gerani – saranno poi gerani? – e i giardinetti – saranno poi giardinetti o è l’idea del giardinetto, il ricordo del giardinetto, il desiderio di un giardinetto? Questo succede perché a lui interessano le forme, più che i colori, i colori possono essere quelli o altri, cambia poco, l’effetto è sempre lo stesso, una miscela di realismo e di surrealismo e di irrealismo. E le altre poche cose naturali che ci sono, nei suoi dipinti, il cielo e le ombre, la terra e il mare, anche queste sono idee, in quei dipinti c’è l’idea del cielo, non c’è il cielo davvero, c’è qualcosa sopra quella che sembra una casa, qualcosa che sembra il cielo. Quella di Reali è una poetica in stallo, non si va né indietro né avanti, e anche chi guarda non sa se andare dentro a quel paesaggio, provandone un certo disagio o scappare da quel paesaggio che però lo attrae. Uno stallo, davvero. Il pittore si accorge del mio, del nostro stupore e confessa: “Questo è il mondo che mi sono creato, e non posso farne a meno”, deve inventarlo e riprodurlo continuamente, è la sua ossessione, e la sua pittura è il modo con cui si libera di questa ossessione ponendola fuori da sé, ma al tempo stesso è il modo con cui ubbidisce a questa ossessione, dedicandole tutte le sue giornate. L’ossessione però non dobbiamo vederla come se fosse una vicina parente della sofferenza, no, è invece – anche in amore lo è – una possibile evoluzione della passione, e spesso avere un’ossessione è una cosa quasi tranquillizzante, perché senza si starebbe perfino peggio, in preda alla noia.

Anche noi, come lui, non possiamo fare a meno del nostro paesaggio quotidiano, odi et amo, odiamo questa specie di carcere dove siamo imprigionati ma al tempo stesso lo amiamo, siamo dei carcerati di noi stessi, e a forza di osservare da quella finestra sempre le stesse cose abbiamo le allucinazioni, e le vediamo diverse, un po’ mostruose, cariche del mistero che ogni cosa osservata a lungo butta fuori. Il mistero che coglieva e raffigurava anche De Chirico, naturalmente è questo che ci viene in mente osservando Reali, ma non un mistero così aristocratico, bensì più popolare e massificato, più operaio o contadino, più legato a quegli anni del boom quando operai e contadini sono diventati proprietari delle case al mare.

Per le finestre vuote di infissi, per le strade vuote di gente, per i colori delle case e per la loro tendenza a parere cose viene in mente Sironi, e per i cieli piatti. Ma quelle di Reali non sono periferie, per la semplice ragione che non sono agglomerati di case e fabbriche ma ritratti di singole modeste costruzioni, non c’è il sentore della folla, delle masse, ci si aspetta di vedere sbucare al massimo un individuo singolo e solo. Queste costruzioni-costrizioni paiono davvero un inno, per quanto dissonante, alla mitologia del secondo novecento, la casa unifamiliare sul mare o nella campagna o alla periferia della piccola città. Siamo nelle Marche, dunque, non potremmo essere altrove. Quale altra regione italiana ha il mare, le piccole città e la campagna tanto quanto le Marche? E infatti Reali ha vissuto le Marche per tutta la vita, e il resto del mondo l’ha visto soprattutto attraverso la pittura, che sia Hopper o Morandi, e di Morandi ha la sedentarietà e il silenzio.

A Sirio – lo chiamo ormai per nome, lo sento davvero amico, per quanto è capace con le sue immagini di comunicarmi tutti questi sentimenti – a Sirio piace viaggiare per le strade intorno alla sua casa – che guarda caso è una casa unifamiliare in mezzo alla campagna – guardando tutto, ma senza porsi l’obbligo di capire tutto, non gli piace chiedersi cosa c’è là dentro quelle costruzioni, dietro ai muri, dietro alle facciate, dietro ai balconi, non vuole saperlo, e non vuole sapere nemmeno cosa è successo prima e cosa succederà dopo, non ama la narrazione, o comunque non è la narrazione che i suoi dipinti sottendono, ma il momento, il puro momento, l’istante. Quelle finestre murate, dove non si riconosce quasi più la traccia del riempimento, coperta dall’intonaco, dalla tinta e dal dilavamento della tinta nel tempo, quelle finestre che un tempo erano aperte e adesso chissà perché non lo sono più e non si sa da quando non lo sono più, sembrano narrare qualcosa, ma Reali non dice cosa, e forse non gli importa nemmeno. Viene in mente l’aggettivo grottesco, nel senso di troppo accentuato, tanto da sfiorare la deformità o l’assurdità. Dice: io sono lì, sono lì davanti alle case, e se c’è qualcosa che mi importa narrare, è narrare di me stesso, dire che sono uscito, ho camminato, mi sono trovato di fronte a quella casa, l’ho osservata a lungo e a forza di osservarla l’ho deformata con il mio pensiero, con il mio ricordo di qualcosa d’altro, di simile o di diverso, l’ho trasformata in una casa mostruosa, deforme e misteriosa. Tutto questo posso farlo perché sono sempre da solo, cammino da solo, dipingo da solo, scelgo da solo dove andare, sento da solo cosa mi attrae e cosa no, e da solo mi domando cosa succederebbe a me e a quella casa se io… e poi non finisco di chiedermi cosa, mi interessa solo il punto di trapasso tra il reale e l’irreale, ma non configurare l’irrealtà, solo abbandonare la realtà e transitare per quel punto di equilibrio. Di equilibrio, sì. Sono in equilibrio, in quel momento, e i miei dipinti registrano quell’equilibrio, l’equilibrio è precisamente il punto che non si può mantenere, è un punto da cui si transita, i corsi e i ricorsi della storia, di ogni storia. A me interessa figurare l’equilibrio tra il concreto e il possibile, tra il bello e il brutto, tra il nuovo e l’antico, tra l’uguale e il diverso, e potremmo continuare. Anche la natura la raffiguro così in bilico, dice Sirio: il mare è lontano e sembra che debba sparire da un momento all’altro dalla faccia della terra, le ombre danno incertezza, le descrivo non come appartenenti agli oggetti che si vedono ma portate da oggetti che non si vedono e proiettate su quello che si vede nel quadro. Una volta, dice, ho fatto una casa con l’ombra di un albero stecchito lì vicino. Una cosa triste? No, piuttosto una cosa senza speranza, quella che proprio manca in queste pitture è la speranza, ma perché è un sentimento non necessario: speranza di cosa, speranza perché? Sforziamoci di guardare in faccia il mondo così com’è, non è una questione di pessimismo, perché anzi Sirio vuole dare un assetto alle cose, ma il suo assetto è quello lì, quello che vediamo. Descriviamolo, e basta. Prendiamone atto. Possiamo amarlo lo stesso.

Le amo, dice Sirio. Amo le case, questo è evidente a tutti. Le case, le case, le case. Le case per amarle davvero non devi conoscerle troppo, aggiunge. Non devi sapere come sono dentro, devi sentirne il mistero. Devi guardarle a lungo e poi dipingerle, magari… ascoltando intanto Mahler e sentendoti il tardo romantico che non sei, che non puoi più essere, ma che ti piacerebbe essere stato.

A cura di Elena Orlandi

 

La galleria degli specchi

 

Un’estate, due mesi scarsi, passati a girare quattro città, in mano un cellulare e un taccuino. Da questi pochi ingredienti è nato il progetto I am, you are di Lucia Biancalana.

Alla fine del suo percorso di studi, tornata a casa senza sentircisi fino in fondo, in attesa di capire come occupare davvero il suo tempo, una soluzione parziale è tornare a cercare gli amici e intanto soffermarsi a osservare il mondo. Nasce così una serie di fotografie, in cui persone sconosciute vengono prima immortalate istantaneamente e senza troppo riflettere e poi riportate su un piccolo taccuino che Lucia porta sempre con sé.

“La mia casa era altrove ed erano le persone” dice Lucia ricordando quel periodo.

Con i colori acrilici e poche ore di tempo a disegno, ricostruisce una specie di album fotografico e artistico di uomini, donne, bambini, con cui non parlerà mai eppure che un poco ha cominciato a conoscere, fosse anche solo perché si è interrogata su cosa facevano in quel punto del mondo e in quel punto del tempo.

Passeggiano, leggono, fanno shopping, riflettono, aspettano, si riposano. E l’artista dietro o davanti, un po’ di lato, quasi sempre senza incrociarne lo sguardo, tranne che in un unico, singolare caso che apre la strada alla continuazione della ricerca. Lucia sta ora infatti lavorando a And: qui le persone rappresentate diventano due, un primo tentativo di conoscenza o comunque di riflessione su cosa voglia dire incontrarsi e costruire una relazione, sempre restando un po’ defilati e in disparte, posando uno sguardo poetico e dolce sui corpi e sulle emozioni.

E ancora, un’ulteriore coda di progetto, From: amici e conoscenti hanno iniziato a mandarle fotografie di persone che vorrebbero che lei riportasse in carta e colori. La relazione qui si fa triangolo, e Lucia disegna senza aver mai nemmeno visto le persone da rappresentare; il filo più forte è forse quello che la lega a chi la foto l’ha inviata, e chissà che rapporto aveva questa persona con il fotografato.

Inizia a sentirsi la vertigine, anche se nel disegno è meno apparente. Ma è forse meno apparente perché siamo così sollecitati da immagini e rappresentazioni della figura umana che non riusciamo più a ritrovare al di là dell’immagine il corpo e l’esistenza reale della persona, come se fossimo intrappolati in una galleria degli specchi da Luna Park, o come se avessimo trovato a un mercatino dell’antiquariato un vecchio album delle fotografie abbandonato. Chi sono queste persone? Sono felici? E guardandole cosa possiamo scoprire di noi stessi?

Tre incarnazioni artistiche di un’unica indagine che ruota attorno al tema della relazione, al progressivo avvicinamento, all’incontro e allo specchio che l’altro sempre diventa di quel che noi siamo.

A cura di Piero Orlandi

 

La casa si trova nella campagna di Sarnano, in provincia di Macerata. Costruita all’inizio del Novecento, è stata abitata per oltre un secolo, poi è rimasta vuota di colpo, in quanto dichiarata inagibile a seguito degli eventi sismici del 2016 e 2017, la cui magnitudo massima è stata appunto pari a 6,5. Due fotografi sono entrati nella casa e hanno fotografato gli interni. Di norma, i terremoti sono raccontati dagli strumenti di informazione attraverso immagini sconvolgenti. Il lavoro fotografico sulla casa ferita ha un obiettivo diverso: la distruzione prodotta dal sisma viene descritta in un modo dimesso ed intimista, non per attenuare l’evidenza drammatica dei fenomeni, ma al contrario per testimoniare che il loro effetto devastante su quei territori deriva in larga misura proprio dalla sommatoria di migliaia di eventi che hanno distrutto o lesionato gravemente singole case private, il tessuto abitativo di una grande area in quattro regioni.
Fabio Mantovani è un fotografo di architettura di cui Spazio Lavì! ha ospitato nel 2014 la mostra Cento case popolari; ha fotografato la condizione quotidiana della casa, il suo essere perennemente al buio, priva di vita e di abitanti, un’oscurità da cui ci si chiede in che modo e quando risorgerà.
Giovanni Zaffagnini ha svolto negli anni Ottanta numerose ricerche etnografiche, documentando le tradizioni dell’ambiente rurale. In seguito si è rivolto principalmente al paesaggio contemporaneo. Le sue immagini evitano ogni clamore, non raccontano l’evento ma arrivano volutamente dopo, descrivendo il terremoto attraverso il vuoto e l’abbandono in cui la casa si trova a dover sopravvivere, nel silenzio.
Affiancando alle fotografie degli ambienti le carte, i quaderni e gli album di famiglia custoditi nei cassetti all’interno della casa, si è inteso dar voce – senza enfasi, con la forza parlante di immagini dalla temperatura corrispondente all’ambiente reale – alla speranza di una ricostruzione materiale e umana.

L’attesa come recupero dell’umanità
Davide Da Pieve

 

L’esposizione ideata da Alessandra Marolla narra la storia di un’attesa e incarna un momento di sospensione in cui le coordinate spaziotemporali vengono meno per rivolgersi direttamente ai nostri sensi.

Lettere dallo spazio/liturgia della memoria è un’esposizione introspettiva, una narrazione che si sviluppa attraverso ricordi e memorie sotto forma di frammenti, in cui è possibile scorgere, riprendendo le parole di John Berger, una tensione tra cultura della sopravvivenza e cultura del progresso: una relazione inestinguibile tra passato e presente, tra memoria e divenire.
Tale legame risulta evidente nella serie di fotografie collocate sul piccolo ripiano; l’impressione di date per mezzo di timbri nel retro delle immagini porta all’attenzione il divario che separa una dimensione passata da una volontà di attualizzazione dell’immagine.

Ciascun visitatore può prendere gli scatti esposti e portarli via con sé, solo dopo aver impresso un timbro con la data in cui lo fa. Affiancandosi all’impressione precedentemente realizzata dall’artista – con la data dello scatto – il secondo timbro evoca uno scarto, una distanza, ma, al contempo, una convergenza: un flusso inarrestabile equiparabile al processo di ossidazione a cui sono sottoposti I supporti in ferro di altre opere esposte.

Le lettere installate a parete giungono metaforicamente dallo spazio, ovvero da un mittente sconosciuto, lasciando allo spettatore assoluta libertà immaginifica, senza correre il rischio di rendere ogni singolo frammento un semplice documento. Ci troviamo di fronte a un grande archivio, a un’accumulazione di frammenti di vita che Christian Boltanski, definirebbe “tracce di identità perdute”. Con queste parole colme di energia l’artista francese indica la concretezza di un’assenza, la matericità di un frammento che acquista nuovo valore ogni volta che viene osservato.
La distribuzione ordinata e simmetrica delle lettere evoca una certa solennità dell’opera, dando vita a un archivio composto da numerosi frammenti di parole e immagini.

L’archivio infatti, nel nostro caso, non è concepito per stimolare una lettura che rispetti una logica consecutio temporum; ciascun elemento in esso contenuto costituisce l’inizio di una narrazione che si sviluppa attraverso piccoli frammenti, lasciando al visitatore la possibilità di leggere una storia da costruire e ricostruire di volta in volta.

Le parole e le immagini, per certi aspetti, sono impiegate dall’artista come mezzo intercambiabile: entrambe sono intendibili come mezzi di trasmissione capaci di veicolare contenuti e, nel medesimo tempo, come reliquie e testimonianze: l’immagine è eterna, è mezzo inossidabile del fragile e instabile passaggio dell’uomo, proprio come accade con il messaggio scritto.

Nonostante le similitudini tra i due mezzi è importante sottolineare alcune differenze: se la fotografia è realizzata per mezzo di uno scatto immediato, la scrittura di una lettera è qualcosa di più lento, un’azione manuale prolungata e fluente che contraddice le spinte tecnologiche avviate dall’immediatezza del click fotografico.

L’arte, quando è legata alla memoria e al ricordo, diventa veicolo di conoscenza e di valori che arrivano all’osservatore in modo diretto e immediato, riportando alla mente immagini forti, e favorendo lo sviluppo di pensieri estremamente personali.

 

Lettere dallo spazio/liturgia della memoria è una mostra evocativa con un forte carattere di apertura, non solo per i suoi contenuti, ma anche per il coinvolgimento empatico rivolto al pubblico. Lo spazio è dunque inteso come luogo simbolico dell’altrove, in cui tutto resta sospeso, in attesa. In questo senso dobbiamo intendere la liturgia: una sospensione tra l’opera e il pubblico, il dono dell’attesa come momento di condivisione intimo. Nel pieno degli sviluppi dell’immediatezza dell’era digitale, nel periodo in cui anche la scrittura è diventata per lo più una somma di numerosi click, potrebbe sembrare quasi paradossale, o addirittura un sentimento nostalgico e fuori moda, parlare di attesa.

La velocità dell’algoritmo corrisponde oggi a una grande frenesia nei comportamenti. I nuovi dispositivi impiegati per la comunicazione ci spingono a esercitare una lettura sempre più per sommi capi, suggestionando negativamente la comprensione del contenuto e del nostro rapporto con la realtà.

 

L’attesa diventa così elemento cardine dell’esposizione: un riscatto, un agente nella sfera percettiva e sociale, per cercare di portare verso l’esterno la densità dei territori incogniti dell’essere.

A cura di Luca Caccioni e Irene Fenara

 

Ai piani intimi è una mostra che ruota attorno all’idea di intimità rivelata su differenti strati narrativi, nei confronti della memoria, del corpo e del paesaggio. La fotografia viene sperimentata nelle sue stratificazioni e trasparenze, tramite lo sguardo di quattro artiste che si confrontano nel sovrapporre le loro esperienze. La stratificazione di immagini è elemento comune che svela un desiderio di accumulazione e raccoglimento, quasi a voler far convivere più realtà sullo stesso piano nel tentativo di non perdere o non dimenticare la maggior quantità di forme possibili. La stratificazione di memoria e di ricordi, nel tentativo di colmare un’assenza, è forte nei lavori di Alessandra Brown e Roberta Zucchini, mentre è più materica la sovrapposizione di liquidi nel lavoro di Elena Grossi, e di macerie e crepe nel lavoro di Lucrezia Roncadi che accumula le ferite e i segni di un territorio scosso.  

La stratificazione del ricordo nel lavoro di Alessandra Brown è delicata ma definita, le carte da lucido sovrapposte svelano un trascorso familiare ormai passato. I familiari dell’artista sono infatti fasciati come oggetti che si trovano nelle zone balneari d’inverno. Una protezione rigida e plastica, resistente abbastanza da non farsi corrodere dalla salsedine che stagione dopo stagione affievolisce i colori e la memoria. Una copertura che protegge e allo stesso tempo soffoca le figure umane come il ricordo intimo di un luogo. La sovrapposizione fisica delle due fotografie, quella del passato e quella del presente, è accentuata da una distanza fisica che rappresenta una lontananza emotiva.

Altrettanto emotive e legate ai ricordi sono le fotografie di Roberta Zucchini. Un abito vuoto, dismesso, è quasi sempre traccia dell’intimità di una perdita. L’artista sembra cercare e non trovare al proprio posto qualche cosa. Si tratta di un vuoto che cerca di essere colmato tramite l’appropriazione di una serie di cappotti appartenenti alla madre dell’artista e alle sue sorelle. Gli abiti lunghi come ombre si sovrappongono nelle fotografie, moltiplicandosi e specchiandosi nei loro stessi negativi. I cappotti neri si fanno bianchi fantasmi, assenze che sembrano prendere vita e movimento a partire dai vestiti appesi e fotografati come testimonianza di qualcuno che è stato.

Il corpo invece diventa visibile nel lavoro di Lucrezia Roncadi che sovrappone la sua figura alle pareti di una struttura appartenuta alla sua famiglia e colpita dal sisma del 2012 in Emilia. L’idea di casa che si pensa possa durare una vita si frantuma così come il corpo giovane dell’artista che si fa portatore dei segni e della pelle del suo territorio. Il crollo fisico rappresenta il crollo delle certezze e il dolore che ci segna nel corpo. Lucrezia mette in relazione, tramite le stratificazioni delle fotografie, la durata di una vita con la durata di un’abitazione, distruggendo l’illusione che le cose, soprattutto quelle grandi, non mutino mai nel tempo così come l’idea della giovinezza. Quando si è giovani sembra che le cose non cambieranno mai, il cambiamento e il dolore sono sempre una sorpresa, finchè tutto non crolla, per la prima volta, sotto ai nostri occhi.

La stratificazione di Elena Grossi è invece materica, di liquidi che vanno a modificare la componente chimica della fotografia. L’acqua dello stagno rappresentato collabora a modificare l’aspetto dello stagno stesso, lasciando una traccia di sé, della propria esistenza e del proprio passaggio. Le fotografie, infatti, immerse nell’acqua stagnante concorrono a raffigurare un autoritratto della natura stessa.

 

Irene Fenara

 

In occasione di Opentour 2018

 

A cura di Luca Caccioni e Irene Fenara

 

La mostra ruota attorno all’idea di intimità rivelata su differenti strati narrativi nei confronti della memoria, del corpo e del paesaggio. La fotografia viene sperimentata nelle sue stratificazioni e trasparenze, tramite lo sguardo di quattro artiste che si confrontano nel sovrapporre le loro esperienze. La stratificazione di immagini è elemento comune che svela un desiderio di accumulazione e raccoglimento, quasi a voler far convivere più realtà sullo stesso piano nel tentativo di non perdere o non dimenticare la maggior quantità di forme possibili. La stratificazione di memoria e di ricordi, nel tentativo di colmare un’assenza, è forte nei lavori di Alessandra Brown e Roberta Zucchini, mentre è più materica la sovrapposizione di liquidi nel lavoro di Elena Grossi, e di macerie e crepe nel lavoro di Lucrezia Roncadi, che accumula le ferite e i segni di un territorio scosso.

A cura di Monica Manfrini

 

“Qualunque uomo ha  forza di pensare da sé, qualunque s’interna co’ suoi propri passi nella considerazione delle cose, qualunque vero pensatore non può… non avere un sistema”
Giacomo Leopardi, Zibaldone.

 

In apertura a queste considerazioni sul lavoro di Marco Bucchieri ho inserito il pensiero del poeta perchè facilmente ci conduce nell’indagine del vasto mondo creato dalle sue fotografie, dalle parole, dai pensieri.

Anche Bucchieri è un poeta e si pone davanti alla natura analizzando il sistema delle cose. Ricerca le ragioni delle cose, degli atti, dei gesti, degli eventi all’interno del sistema della complessità della vita.

Le domande che l’artista si fa in questo lungo racconto di immagini sono le stesse che ci poniamo guardando le sue foto. Egli ci guida con la sommessa precisione del suo stile in grado di catturare, in alcuni casi l’immobilità degli eventi, in altri le svolte impreviste e improvvise, indicandoci la sua strada per conoscere.

Il sistema della natura è complesso, ma ordinato e Marco Bucchieri ci propone, da filosofo, la chiave di lettura delle attese. L’occhio fotografico è funzionale al suo pensare e la scrittura quasi sempre complementare.

Le sequenze di immagini sono scandite dal progressivo apparire e intensificarsi della parola scritta. Imperfette, disegnate, descritte, indefinibili o raccontate le attese racchiuse nelle opere di Marco Bucchieri rimandano a sentimenti di inquietudine e di dolore, di abbandoni e ritorni, di distanze e avvicinamenti.

È giusto guardare le immagini e prima di percepirne il significato, immergersi nelle parole che senza soluzione di continuità le avvolgono. In un gioco di trasparenze tra luoghi e memoria di luoghi, persone reali e immaginate, la parola scritta diventa potente forma estetica, didascalia e cornice di storie nascoste. Nella scia di artisti come Beuys e Rauschenberg che utilizzano la parola   accanto a immagini fotografiche come forma dello stesso peso iconico, ma vicino anche al concettualismo puramente italiano di Vincenzo Agnetti, Marco Bucchieri dichiara col suo lavoro anche l’influenza esercitata dai silenzi, dalle ombre e dalle lunghe attese raccontate nelle opere di Edward Hopper.

Sono gli stessi stati d’animo suscitati dall’incontro con sconosciuti attori del quotidiano che troviamo nelle immagini di Bucchieri, attorno ai quali vengono costruite storie. Bar, giardini, stazioni, stanze d’albergo, spiagge popolari sono invece gli sfondi del lungo viaggio che fa l’artista. E ci accorgiamo che questo viaggio è necessario e fondamentale per appianare e liberare le pieghe della sua anima e il traslocare in noi i suoi pensieri – immagine metaforica da lui spesso usata – la condivisione di quei momenti di “presente” ormai passati ci fa sentire più lieve il peso dell’attesa. E gliene siamo grati.

A cura di Lucia Zappacosta

 

Non è sufficiente godere della bellezza di un giardino.
C’è bisogno di credere che nasconda delle fate.

 

Elena Giustozzi dimostra, con il suo lavoro accurato ed elegante, che un pittore può osservare, ideare, organizzare e costruire la conoscenza del mondo contemporaneo attraverso l’imperturbabile scala della pittura monumentale. Così come i pittori del passato trovavano i loro soggetti nella vita quotidiana, anche Elena Giustozzi trae ispirazione dalla sua esperienza visiva personale e dalla selezione affettiva di elementi naturali.

Le passeggiate emotive nel giardino di casa le permettono di indagare l’esistente estrapolando una documentazione della natura in cui si sovrappongono analisi e intuizione, logica e bellezza, memoria e immagine. Il giardino affascina l’artista non solo per le sue virtù nutrienti, rigeneranti, curative ma anche per la sua sovversione. Oltre lo spazio chiuso e organizzato, il giardino è un porto di emozioni private frammentate, indisciplinate e senza fine. É il luogo insieme della resistenza e della dissidenza, della raffinatezza più squisita come della più selvaggia esuberanza che diventa un laboratorio biologico, etico e politico.

Le opere realizzate per questa mostra creano uno scenario organico, terrestre e solare che presuppone una dilatazione dell’immagine e del tempo come in una sequenza filmica.

Il visitatore  è invitato ad entrare in questa installazione “a nastro”, immersiva, avvolgente con la gioia di un giovane esploratore a cui si offre un percorso immaginario fatto di piccoli indizi universali, in un fermo immagine di frammenti da completare.

Immaginata come un territorio senza confini, l’opera, composta da più tele collegate insieme a formare un unico lavoro, riproduce fedelmente i particolari che compongono la realtà e si espande oltre i propri confini fisici per descrivere i contorni di un giardino sperimentale oscuro, caotico e imprevedibile osservato attraverso un’inquadratura imperfetta.

La sottrazione dell’identità specifica da ritrarre rappresenta la natura nella prospettiva di una molla metaforica. L’artista si cela dietro una visione quasi casuale inseguendo l’obiettivo di creare “un’enciclopedia della vita”, un palcoscenico pittorico neutrale su cui si stagliano nature morte iperrealiste, rappresentate minuziosamente e che si fissano sulla tela come esemplari botanici.

I dipinti di Elena Giustozzi partecipano nell’animo di chi li osserva alla creazione di luoghi affascinanti, ambienti da immaginare, comporre, ricostruire e in cui rifugiarsi, evadere dalla realtà e viaggiare con il pensiero. Rappresentano una membrana osmotica tra dentro e fuori, città e campagna, luce e vita. Contribuiscono a recuperare il contatto con l’autenticità e con la sfera intima e personale del quotidiano. Elegantemente laconici, fondono il moto perpetuo dell’esistenza con la stasi della riflessione metafisica, esplorando in ultima analisi temi più complessi e universali, quali l’apparenza, la percezione, lo scopo del mondo e della nostra evanescente e transitoria presenza in esso.

A cura di Monica Manfrini

 

“Gli incontri avvengono sempre nei momenti in cui la mente è molto libera o molto affollata: nel primo caso donano alla nostra anima qualcosa di nuovo, nel secondo liberano la nostra vita da qualcosa di sbagliato” (Osho).

 

Le parole del filosofo indiano trascritte nell’esergo riproducono con immediatezza e concisione le sensazioni che ci vengono dalle opere di Manuela Caldi. Attenta osservatrice della natura, ma anche del paesaggio costruito dall’uomo, da anni l’artista trae linfa vitale da queste esplorazioni del visibile. L’acqua e la terra, le luci e i colori sono elementi da usare sulle tele. Tele che a loro volta diventano testimonianza e tracce della riflessione/esplorazione del mondo reale effettuata dall’artista. L’esperienza alchemica del lavoro è il valore profondo dell’opera di Manuela Caldi. Mescolare, plasmare, graffiare, incidere sono i passaggi necessari per spostarsi dal visivo al tattile. Le superfici sono la dimensione preferita, ma non solo come manifestazione tangibile della materialità delle cose. Lo spostamento dal visivo al tattile ci consente di fare un’esperienza in un mondo culturale diverso. L’artista ci fa entrare in contatto, contatto reale e profondo, con i muri dell’architettura. La formazione artistica di Manuela Caldi, architetto da molti decenni, ha impregnato il suo linguaggio poetico. La sua è un’architettura dove i muri non creano strutture stabili, ma luoghi di metamorfosi dove lo spazio ha finalità espressive. Ci vengono in mente le esperienze sulla superficie di Piero Manzoni e le ricerche spaziali di Lucio Fontana o le indagini sulla terra di Leoncillo, poi sfociate nell’Informale.
Nel lavoro di Manuela Caldi si respira la presenza di queste due anime, quella della spazialità architettonica e quella della sperimentazione visiva. L’incontro di questi due mondi, solo apparentemente distanti, ha qualcosa di magico che spinge a toccare fisicamente le sue opere, trasferendo in chi guarda una parte della vis creativa che le ha generate.

Alcune delle sollecitazioni più importanti per la sua pittura, ricercate di anno in anno, quasi come una necessità fisica, sono venute dall’isola d’Elba, un luogo eletto dall’artista sede ideale delle sue creazioni. Cuprite, azzurrite, crisocolla, ematite e berillo, aragonite, eritrite, fluorite, granato, petalite, quarzo prasio, pollucite e ilvaite sono solo una piccola parte dei minerali che si trovano nel ricco territorio elbano. Ognuno con una sua spiccata qualità cromatica, ognuno ripreso, imitato, adattato sulle tele a creare campiture, spazi e contrasti. Minerali recuperati in ogni viaggio e in ogni escursione con cura e attenzione, a volte maniacale, tanta è la forza attrattiva di quei luoghi per Manuela. La necessità di avere proprio quel colore, quella terra, quella polvere sminuzzata per ricreare i luoghi amati e soprattutto lo spirito di quei luoghi, ha portato l’artista a rubare sassi preziosi per le realizzazioni in studio delle tele. E sono questi sassi riconvertiti ad altra vita che hanno convinto l’artista a ripercorrere anche altri luoghi e proporre temi legati al mondo dell’inconscio e dell’indagine profonda del sè. Ci riferiamo al percorso iniziato nel 2009 con Terra e giunto con passaggi di sintesi estrema alle tele di vorrei essere isola del 2017.

A cura di Elena Orlandi

 

Un disegno al giorno per raccontare quello che ogni giorno accade. Chiara Dal Maso ha iniziato il progetto Everyday Distraction all’inizio del 2017 ed è alla fine del suo percorso: disegnare ogni giorno, per 365 giorni, per poi diffondere e pubblicare sui social.

I suoi disegni nascono per fortuna ancora legati a un supporto materiale, carta cartoncino taccuini, e si portano molto spesso dietro tutte le imperfezioni di un disegno istintivo e improvvisato e legato a una forma di esplorazione personale e liberatoria.

Una distrazione al giorno, come l’ha chiamata lei, che è poi in realtà diventata a volte un modo per scaricare i propri pensieri, a volte una documentazione vera e propria di quello che le succedeva; a tratti un modo per riempire il tempo e allontanare la noia, altrimenti un peso da incastrare tra tante altre cose da fare e senza nemmeno un’idea per la testa; la possibilità di conoscersi un po’ meglio in una forma di meditazione terapeutica su carta, e un diario dei propri sogni notturni o a occhi aperti. Colori vivaci e tratto sapientemente infantile, pennarelli su carta, di quelli acrilici che così si possono sovrapporre gli uni agli altri mantenendo la vivacità dei toni.

Vengono registrati il momento della spesa, il lavoro quotidiano, l’amore, il sesso, le vacanze. C’è poco cibo nei disegni di Chiara, diversamente da dove tutto viene riportato in prima istanza (Instagram) e c’è poco paesaggio puro. La figura umana è sempre al centro, la casa è molto presente, e a riempire il resto ci sono tanti animali, spesso feroci o fantastici, comunque lontani in questo caso dalla quotidianità di una ragazza cittadina.

A volte una sottile ironia pervade i disegni, altri sono percorsi da un’evidente carica erotica seppure naive, poche sono quelle in cui si mostra un’ansia sottile ed elettrica o un più evidente stress e nervosismo da vita metropolitana, ma quasi mai queste emozioni diventano palese tristezza, malinconia, disperazione: le immagini di Chiara sono vive e vitali, accese come i colori che utilizza. E la surrealtà fa spesso capolino trasformando il mondo davanti ai nostri occhi o meglio ribaltando quello interiore e immaginario di Chiara sulla carta.

Tigri e piante rigogliose fanno pensare a Henri Rousseau il Doganiere e il suo rapporto con il mondo del sogno e dell’inconscio; così come i colori contrastati e vividissimi richiamano alla memoria l’a noi vicino David Hockney e i più lontani pittori Fauve. Suggestioni artistiche ma anche provenienti dalla musica e dal mondo più generalmente pop – pompe di benzina, ufo, aerobica, piscine, pop corn, sigarette, facebook e la pubblicità: tutto si mescola e si fonde con cieli viola e prati arancioni. Dando come risultante un mondo vitalissimo e caotico, con scorci di serenità poco statica e malessere che non si coagula, nella speranza e realtà di un cambiamento sempre in movimento in una spirale o vortice che ogni giorno ci porta un passetto più in là e più vicini a quello che desideriamo e siamo.

Il Teatro Bonci, inaugurato nel 1846, è il principale teatro di Cesena, destinato alla lirica e alla prosa, ed è dedicato ad Alessandro Bonci (1870-1940), famoso tenore cesenate. La mostra presenta un progetto fotografico nato dalla collaborazione tra il Gruppo Fotografico 93 e il fotografo Guido Guidi, a cura di Veronica Daltri ed Emanuele Benini. Le fotografie di Guidi sono opere inedite in bianco e nero risalenti al 1984, realizzate in occasione del libro Due Fotografi per il Teatro Bonci che vedeva la collaborazione di Guidi e Luigi Ghirri. Queste immagini dialogano con quelle realizzate nel 2016 da alcuni autori del Gruppo Fotografico 93, in occasione del 170° anniversario della inaugurazione del Teatro.

Saluti dal Teatro Bonci è anche un’edizione di cartoline d’autore. Nonostante oggi sia spesso sostituita dagli effimeri ricordi digitali, la cartolina continua a rappresentare un importante mezzo di diffusione dell’immagine di paesaggi e città e resta uno dei souvenir più ricercati non solo dai collezionisti ma anche da molti artisti e fotografi. Uno degli intenti di Saluti dal Teatro Bonci è anche quello di restituire all’edizione di cartoline il suo ruolo di un tempo, quando non si limitava ad essere solo la riproduzione di poche immagini-simbolo ma dimostrava un’attenzione per la complessità della storia e della vita dei luoghi, veicolandone un ricordo insieme visivo e simbolico. Il pubblico della mostra può scegliere alcune immagini e far viaggiare così la propria personale visione del Teatro Bonci.

All’inaugurazione sarà presente Guido Guidi. Nato a Cesena nel 1941, negli anni ’60 frequenta lo IUAV e il Corso Superiore di Industrial Design a Venezia. Dal 1989 insegna Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Ravenna e dal 2001 è visiting professor alla facoltà di Design e Arti presso lo IUAV di Venezia. Ha esposto al Guggenheim Museum e al Whitney Museum di New York, al Centre Pompidou di Parigi, alla Biennale di Venezia e al Canadian Centre for Architecture di Montréal.

Il Gruppo Fotografico 93 è una associazione culturale fondata nel 1993, composta da appassionati e professionisti della fotografia e attiva da oltre vent’anni nel Comune di Cesena.

Saluti dal Teatro Bonci è una produzione del Gruppo Fotografico 93, realizzata con il contributo e il patrocinio del Comune di Cesena, Assessorato alla Cultura e Promozione, in occasione del 170° anniversario del Teatro Bonci. Fotografi: Guido Guidi, Renzo Altini, Emanuele Benini, Elisa Bernardini, Emanuele Biguzzi, Michele Fuschini, Maicol Marchetti, Luca Piccinelli, Mauro Poltronieri, Silvia Sansovini, Vincenzo Stivala, Elena Zanuccoli, Antonello Zoffoli.

In galleria è disponibile il volume che raccoglie l’intera collezione (progetto grafico di Giovanni Ricchi, minimalsonic). www.gf93.it/saluti-dal-teatro-bonci/

Evento organizzato in occasione della Giornata del Contemporaneo promossa da AMACI


 
ViVi il Verde. Alla scoperta dei giardini dell’Emilia-Romagna è una rassegna ideata e promossa dall’Istituto Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna e giunta quest’anno alla quarta edizione. Sono decine le aree verdi coinvolte, da Rimini a Piacenza, tra giardini pubblici, giardini privati aperti al pubblico, giardini storici, parchi, giardini e orti botanici, aree urbane verdi e giardini di ville o di castelli. La fruizione del verde avviene secondo diverse modalità: visite guidate, laboratori, conferenze “sul campo”, percorsi sensoriali, lezioni pratiche, “treewatching”, atelier didattici per i più piccoli. In occasione dell’edizione dello scorso anno di questa manifestazione, nel settembre 2016, l’Associazione culturale “Spazio Lavì!” ha organizzato un laboratorio fotografico su alcuni giardini del centro storico di Bologna (via San Leonardo-Belmeloro, del Guasto, Parco della Montagnola), appartenenti al territorio del Quartiere Santo Stefano, assai diversi quanto a tipologia, storia, uso attuale. Il laboratorio è stato inserito dall’Ordine Architetti di Bologna tra i corsi formativi professionali, è stato condotto da Fabio Mantovani (www.fabiomantovani.com), fotografo esperto in architettura. La specificità dello sguardo propria degli architetti li ha portati a orientare il loro lavoro fotografico non tanto verso una descrizione dei luoghi come essi sono, ma facendone uno strumento di indagine e ricerca – attraverso l’obiettivo – degli aspetti e degli elementi che possano essere oggetto di una precisa attenzione progettuale. Fotografare per imparare a vedere, piuttosto che fotografare per mostrare ciò che già è noto, questo è il principio che ha condotto il laboratorio.
Il giardino di via San Leonardo è il più piccolo dei tre, origina da uno spazio verde domestico e privato, è attualmente frequentato soprattutto da studenti. Quello del Guasto è stato realizzato alla metà degli anni Settanta del Novecento sull’area occupata dalle macerie del distrutto palazzo Bentivoglio. Il progetto, opera dell’architetto Gennaro Filippini, è particolarmente rivolto al gioco dei bambini e comprende invasi per l’acqua, fontane, strutture in cemento. Il giardino della Montagnola, che ha le dimensioni di un vero e proprio parco urbano ed è sorto nell’Ottocento sul modello degli spazi verdi delle maggiori metropoli europee, ha una complessità d’uso ancora maggiore, essendo frequentato sia da famiglie che da studenti che da giovani immigrati in attesa di occupazione che vi passano buona parte della loro giornata.
Oltre che per i valori naturalistici, gli spazi verdi nel centro della città sono apprezzati in quanto spazi pubblici. La gente li frequenta e vi convive, sono luoghi vissuti come complementari ai momenti del lavoro e dello studio, ambienti ideali dove incontrarsi, giocare, leggere, fare sport. La fotografia può cogliere tutti questi aspetti, farsi indagine sociale, studiare i problemi che ostacolano una piena fruizione, sottolineare le potenzialità di miglioramento. In questo senso essa costituisce una analisi critica propedeutica al progetto di restauro e riqualificazione.
Le immagini selezionate per questa mostra, pur nel diverso approccio di ogni autore, mettono in luce aspetti problematici o meno noti dei luoghi, sui quali orientare l’attenzione sia dei fruitori che degli amministratori: le qualità nascoste e minori, come ad esempio le relazioni visive tra l’interno dei giardini e la città intorno; i dettagli architettonici, artistici, così come gli usi spontanei che la gente quotidianamente fa degli spazi.
 
Le fotografie sono di Manuela Caldi, Alessandra Cazzoli, Piero Dall’Occa, Nicla Di Ciommo, Stefania Giametta, Silvia Landi, Luca Malavasi, Paolo Merlo Pich, Camilla Sanguinetti, Fausto Zanetti.
 
Spazio Lavì! (www.spaziolavi.it) è un’associazione culturale fondata a Bologna nel giugno del 2012 con l’obiettivo di favorire la produzione di ricerche visive sul paesaggio contemporaneo e sulle forme della persistenza e della trasformazione dei luoghi, assegnando alla rappresentazione visiva – fotografica, pittorica, grafica, e in generale con ogni espressione artistica – lo status di ricerca e di progetto. Il concetto di paesaggio viene inteso in un senso allargato, che comprende, oltre allo spazio urbano ed extraurbano, anche le persone e le loro relazioni, la società, il lavoro, il quotidiano, i riflessi materiali dei cambiamenti ambientali, economici, culturali.
Negli anni scorsi alcune delle produzioni di Spazio Lavì! sono state portate in spazi o musei bolognesi, come Duepuntilab in via Solferino e l’Istituzione Villa Smeraldi di San Marino di Bentivoglio. Dalla primavera 2016, in forza di un patto di collaborazione con il Quartiere Santo Stefano, Spazio Lavì! ha aperto la galleria Lavì! City in via Sant’Apollonia 19/A. E’ inoltre stata attivata una convenzione con l’Accademia di Belle Arti di Bologna, che ha prodotto due eventi nell’ambito della manifestazione Open Tour (edizioni 2016 e 2017), con mostre di giovani artisti dell’Accademia.
L’associazione ha uno spazio espositivo a Sarnano (MC), ha sottoscritto una convenzione con l’Accademia di Belle Arti di Macerata e collabora con istituti scolastici e universitari, tra questi con la Scuola di Architettura di Ascoli Piceno, realizzando workshop fotografici.
 
Sala Cavazza del Quartiere Santo Stefano, via Santo Stefano,119, Bologna
dal 22 settembre al 5 ottobre 2017
inaugurazione venerdì 22 settembre 2017, ore 17,30
orari: tutti i giorni dalle 15,00 alle 18,00
 
Alla inaugurazione hanno assicurato la loro presenza la presidente del Quartiere Santo Stefano Rosa Maria Amorevole, il direttore dell’IBC Claudio Leombroni e il presidente dell’Ordine Architetti di Bologna Pier Giorgio Giannelli.

 

 

Sarnanoscape 6

 

Sharon Bianco, Gaia Rosita Cecere, Luca Cingolani, Maria Carmen Di Lucia, Natalia Diez De Antonio, Roberta Filieri, Alessia Galassi, Laura Galetti, Stefano Garbuglia, He Ping, Jia Ang Zhuo,
Alicia Johnson De Frias, Li Sai Tong, Ludovica Pesiri, Giulia Piunti, Fausto Nicola Sacripanti,
Alice Schmidt, Inès Vecilla, Diana Vignati, Mandy Virivè, Wei Yifeng, Wu Xiao, Yang Chan, Zhou Di, Anthony Bufali, Madalina Rossi.

 

A cura di Marina Mentoni e Paolo Gobbi, con la collaborazione di Elena Giustozzi

 

La consolidata collaborazione tra l’Accademia di Belle Arti di Macerata, l’Associazione Culturale Spazio Lavì! e il Comune di Sarnano, anziché articolarsi in un susseguirsi di uscite e visite, sulla base del tema di volta in volta proposto, come avvenuto nelle precedenti edizioni di SARNANOSCAPE, quest’anno, a causa delle difficoltà e dei gravi disagi provocati dagli eventi sismici del 2016, si esprime unicamente nella mostra collettiva degli studenti SARNANOSCAPE 6. Per una nuova fioritura. Workshop sulla ferita e sul frammento progettata ed elaborata presso i laboratori delle discipline coinvolte, per le sole stanze di Spazio Lavì! essendo il Loggiato Comunale inagibile per motivi di sicurezza. L’installazione che si presenta sul pavimento neutro della galleria è strutturata con frammenti di affreschi variopinti di varie dimensioni e dalle forme irregolari che, con i loro particolari ingranditi dei fiori spontanei dei Monti Sibillini, compongono un insieme armonico e vivace in una sorta di mosaico pavimentale dalle tessere scomposte. E’ un’opera in cui l’individualità dei partecipanti non è messa in evidenza, non è il dato prioritario, se non nella riconoscibilità del ductus pittorico. Un gesto semplice, corale, che alludendo alle profonde ferite interiori del dramma vissuto, ai danni materiali subiti, vuole comunicare un messaggio semplice e sincero di vicinanza e di speranza agli abitanti di Sarnano, un incitamento al coraggio e alla capacità di continuare a reagire per mantenere vivi e attivi questi luoghi così belli e familiari. L’epoca attuale, nella sua frenesia dell’apparire, è spesso poco sensibile e forse non più in grado di capire quanto sapere, pazienza, fatica, esperienza e sensibilità sono stati necessari agli artigiani, agli artisti del passato per consegnarci le loro opere, da quelle cosiddette “minori” a quelle più note che pullulano e rendono prezioso il territorio marchigiano. Un’indifferenza e un distacco che inizialmente hanno provato anche gli studenti che partecipano alla mostra nei confronti dell’apprendimento di una tecnica artistica antica come quella dell’affresco. Una tecnica difficile, esigente che vuole si dipinga con velocità e sicurezza sulla superficie umida dell’intonaco che facilmente si graffia e muove sotto l’azione inesperta del pennello sporcando e rendendo sorda la stesura del colore. Ma grazie alle finalità didattiche del workshop e anche al fascino esercitato dai materiali utilizzati, è scattato l’entusiasmo, il coinvolgimento e, in qualche modo, l’orgoglio di aver sperimentato, sebbene con tutte le difficoltà della prima volta, e in piccola parte, una tecnica che ci permette, a distanza di tempo, secoli e millenni, di apprezzare cicli affrescati, così come tutti quei frammenti dei dipinti parietali sopravvissuti alle sciagure del tempo e all’incuria dell’uomo. Gli spolveri appesi alle pareti della stanza rossa, sganciati dalla funzione processuale relativa al trasferimento del disegno sull’intonaco, presentati nel candore della carta, delineano i contorni forellati dei singoli fiori dei Monti Azzurri che, scomposti e disseminati a terra, compongono un’infiorata simbolica per la città di Sarnano. All’urgenza di una vera tutela, vigile e attenta, costante e paziente dei fragili luoghi in cui viviamo e del loro vissuto, alla forza protettiva e rigeneratrice della cura sono altresì dedicati gli interventi site-specific dislocati nello spazio espositivo.

 

Marina Mentoni

A cura di Pippo Ciorra

 

“Amo il bello ed il buono ovunque si trovino e mi ripugna di vedere straziata, come suol dirsi, la grazia di Dio”. Così Pellegrino Artusi conclude l’introduzione al suo intramontabile manuale, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. Con le stesse parole Ilaria Ferretti dà inizio al suo Bestiario, una spettacolare sequenza di immagini, citazioni, testi, con la quale l’artista cerca di trovare l’impossibile conciliazione tra due amori paralleli e contrapposti. Da un lato il “suo” paesaggio, la tradizione, la buona cucina, e tutto l’idillio apparente e la violenza implicita che li rendono possibili (e che già spaccavano il cuore a Giacomelli). Dall’altro l’insostenibile empatia con le vittime di quella invisibile brutalità, in questo caso gli animali destinati al macello, così come in altri suoi lavori erano i luoghi di estrazione martoriati dall’uomo o addirittura gli edifici assaliti dal tempo e dall’incuria.

Per tenere insieme due sentimenti così diversi, eppure così presenti in ognuno di noi, Ferretti ha bisogno di un linguaggio fotografico estremo, dove il contesto naturale si nascondein un’oscurità quasi impenetrabile e il colore dei soggetti diventa bianco e  astratto, come fosse quello delle loro “anime”.

Al primo sguardo queste foto fanno venire in mente le luci bruciate dei gruppi di Giacomelli, ma poi lentamente ci si rende conto che il lavoro di Ferretti ha un carattere terribilmente originale e site specific, frutto di un’introspezione feroce che attraversa in un unico percorso l’anima e il genius loci. Per comprenderlo bisogna concentrarsi soprattutto su quello che l’autrice cancella.

La bellezza del paesaggio offuscata dalla voglia prevalente di “mettere in luce” i soggetti del suo bestiario. Il colore e la fisicità degli animali ritratti, bianchi e immacolati come l’anima che l’artista riconosce in loro. Gli animali poi sono spesso di spalle, non hanno faccia, marciano verso una destinazione persa nel buio eppure resa fin troppo ovvia dalle citazioni dell’Artusi. E infine il [buon] cibo, che aleggia come una promessa e una minaccia nelle parole sottratte all’esperto e nel futuro dei capi di bestiame ma non si vede mai. Ferretti non intende denunciare.

Ha empatia ma è allo stesso tempo crudele, toglie i colori al pavone, non consente ai buoi di consolarci brucando il pascolo, racconta l’oca solo come un ammasso ben distribuito attorno al suo gustoso fegato. Isola la “bellezza” dei gruppi, la sospende in un magma scuro e la rende astratta, strappata al terreno.

Oltre che sui suoi animali Ferretti lavora sull’idea stessa di fotografia, ne stressa i procedimenti tradizionali spingendola con consapevolezza in un territorio artistico nuovo, dove immagine fotografica, reportage, pittura, disegno, arte (apparentemente) digitale si confondono e si consolidano a vicenda. Tra gli aspetti più impressionanti di questo progetto c’è la capacità della fotografa di “mettere in posa” (inconscia) gli animali: “attraversano” l’inquadratura come se volessero in qualche modo sfuggire al buio che li opprime, si guardano intorno in cerca di uno spiraglio, ma soprattutto quando si tratta di soggetti singoli sembrano dialogare in modo terribilmente intenso con lo sguardo fotografico. Da questo dialogo nascono inquadrature strazianti e memorabili, ai limiti del barocco, che potrebbero inquietarci un poco alla nostra prossima visita al ristorante, o mentre sfogliamo il più classico dei manuali di cucina.

A cura di Sara Marini

 

Un mondo sta scomparendo. Oggetti, attrezzi, modelli di prova in carta e metallo, riproduzioni del corpo umano e di animali, mappamondi da far ruotare cercando la meta… E’ il mondo dell’archeologia scolastica. Si tratta di un deposito materiale su cui si sono formate schiere di studenti e che progressivamente viene sostituito dall’immateriale, da simulazioni virtuali. Sono cataloghi di una riproposizione del reale spesso custoditi in edifici-arca, in istituti siglati da acronimi e votati alla definizione di mestieri in estinzione.
Tutto ebbe inizio in una struttura scolastica nascosta nel centro di Milano, vuota, solo qualche oggetto metallico e macchinari di un evidente passato recente accoglievano il sole del pomeriggio: gli studenti sarebbero arrivati solo la sera. Lo sguardo di Sissi Cesira Roselli su questi reperti è senza alcuna nostalgia, anzi, forse un accento ironico guida il rilevamento di un atlante che voleva essere fonte di conoscenza e che ora appare sulla scena solo perché pionieristicamente è cercato e imbalsamato dallo sguardo fotografico. Autore ed oggetti si fronteggiano con reciproco stupore, sorpresi di una reciproca necessità: presenti al contempo nella stessa scena, nello stesso spazio senza essersi mai prima incrociati approfittano per ordire trame, dubbi e teorie sul senso dell’archeologia.

Il progetto, svolto tra il 2013 e il 2016, racconta i seguenti istituti superiori:

  • Scuola tecnica diurna e serale IIS G. Giorgi, Milano (indirizzi di Informatica e Telecomunicazioni; Meccanica, Meccatronica ed Energia; Elettronica ed Elettrotecnica; Liceo delle Scienze Applicate; Informatica e Telecomunicazioni; Amministrazione Finanza e Marketing), 2013;
  • Istituto di Istruzione Superiore Ipsia M. Fortuny, Brescia, sede dell’indirizzo moda, 2012;
  • Istituto di Istruzione Superiore Ipsia M. Fortuny, Brescia, sede dell’indirizzo ottico, 2013;
  • Istituto di Istruzione Superiore Ipsia M. Fortuny, Brescia, sede dell’indirizzo arredamento, 2013;
  • Istituto Tecnico Agrario Statale G. Pastori, Brescia, 2013;
  • Istituto di Istruzione Superiore A. Gentili, San Ginesio (MC): Liceo Linguistico, Liceo Socio-psico-pedagogico, Liceo delle Scienze Umane, Liceo delle Scienze Umane ad indirizzo Socio Sanitario, 2014.
  • Liceo Ginnasio Statale L. Galvani, Bologna, 2016.

Per la mostra presso la galleria bolognese Lavì!City il progetto sarà riversato in un grande libro formato A1 che raccoglierà in 50 pagine le immagini principali scattate tra il 2013 e il 2016. L’allestimento è pensato su due livelli di lettura: le immagini saranno veicolate attraverso il libro, la parte testuale del progetto (dati riferiti al sistema scolastico, alle singole scuole fotografate, citazioni, commenti a cura di Sara Marini) scorreranno in proiezione sulla parete retrostante il libro fotografico.

A cura di Roberta Valtorta

 

Quando uno spazio viene rappresentato fotograficamente, esso non è più solo una rappresentazione ma diventa una realtà in sé: una nuova realtà autonoma, con limiti ben determinati, luci e rapporti interni stabiliti, che si dispone su una superficie bidimensionale dotata di una propria grandezza, e lì rimane, statica. La scena è ripresa da un punto di vista preciso, quello e non un altro, ed è stretta dentro una inquadratura molto ben determinata, quella e non un’altra. Quando questa fotografia, questo oggetto bidimensionale che rappresenta uno spazio, viene installata in un altro spazio, i due spazi – quello rappresentato e quello “reale” – entrano in una relazione immediata e visivamente potente che li rende improvvisamente necessari l’uno all’altro, ma al tempo stesso diventano incerti, oscillanti, spaesati. Si legano tra loro, eppure uno di essi è uno spazio “virtuale”, è “solo” una fotografia, l’altro è uno spazio “reale”, “vero”. Il noto, classico avvertimento di Magritte “ceci n’est pas une pipe” è lì, evidente, davanti ai nostri occhi: “attenzione, questo non è uno spazio vero, è una fotografia”, eppure la nostra percezione instaura tra i due spazi di diversa natura un rapporto alla pari, come naturale.
A partire dal 2010 Annalisa Sonzogni lavora ad approfondire questo complesso rapporto tra spazio e rappresentazione dello spazio usando sia la fotografia sia l’installazione. In particolare, va precisato, l’artista sceglie lo spazio architettonico. E lo fa immedesimandosi sinceramente nella questione, buttandosi anima e corpo in medias res. Nel 2010, con Passeggeri, installa in ambienti della Casa del Fascio di Como fotografie che ha realizzato nello stesso luogo, e nel 2014, con Synopticon, installa nei saloni della Pinacoteca di Brera immagini da lei realizzate nello stesso luogo. Nella serie in progress Identikit, iniziata nel 2014 ma già annunciata nel metodo in Lilian Baylis School un anno prima, installa invece fotografie di certi spazi in spazi altri aventi con gli spazi fotografati assonanze di forme, colori, strutture. In questo modo il livello di complessità del discorso aumenta e la relazione tra i vari elementi visivi si fa più ambigua, nel senso etimologico del termine: può essere vista da più parti. Infatti l’installazione si offre all’osservatore in due differenti modi: la fruizione diretta nel vero e proprio spazio tridimensionale che accoglie dentro di sé anche le immagini bidimensionali; e la visione dell’installazione fotografata, e in questo caso avremo fotografie che rappresentano lo spazio “vero” all’interno del quale si trovano anche le fotografie installate. Il pensiero corre in questo caso alla nota sequenza fotografica di Duane Michals Things are Queer, che conduce l’osservatore da uno spazio fotografico a uno spazio “reale” e poi ancora a uno spazio fotografico che però sembra uno spazio “reale” e avanti ancora in un percorso straniante potenzialmente senza fine.
Annalisa Sonzogni predilige spazi complessi, con più pareti, finestre, angoli, colori diversi spesso netti e ben differenziati tra loro, utilizza talvolta anche specchi per creare raddoppiamenti, rimandi ed effetti di moltiplicazione delle strutture, come in un caleidoscopio. Non si pensi però a installazioni e immagini che producono un senso di caos o di confuso accavallamento di visioni e geometrie. Al contrario, l’artista punta lucidamente a ricreare spazi credibili, assai articolati ma ben controllati e ordinati quasi come dipinti della stagione astratta o, più esattamente, costruttivista: progettati, proprio come accade nell’architettura. Il suo lavoro è infatti segnato in modo determinante dal rapporto tra fotografia e architettura, mette in discussione l’impianto prospettico della scena ma in fondo lo rispetta e lo riprogetta con decisione e chiarezza, ponendo in dialogo realtà diverse, fisiche e virtuali come si diceva, sulla base delle quali possono nascere narrazioni diverse, sia di tipo visivo, sia di tipo architettonico. Va poi sottolineato che Sonzogni sceglie sempre spazi vissuti, nei quali è possibile leggere tracce di storia e di vite umane che di lì sono passate: qua e là dagli ambienti affiorano dunque frammenti di memorie individuali e collettive, a dimostrazione che l’architettura è qualcosa di vivo, è un organismo nel quale il visitatore-osservatore sente il peso del tempo, e sente il proprio vissuto misteriosamente mescolarsi a quello del luogo.

A cura di Elena Orlandi

 

Dopo lo sfratto, un padre e un figlio cercano casa. Molte ne vedranno: muri, finestre, tetti, persiane, staccionate, pali; vetri, legno, pietre, mattoni.
Si vive non solo nei bei palazzi dei quartieri gentrificati alla moda, ma anche in piccole stanze in affitto, cascine semiabbandonate, appartamenti classe energetica G, sottotetti e cantine, ruderi in estrema periferia, roulotte, baracche, tende.
Il racconto di Davide Catania parla di questo, e i disegni che lo integrano e sovraccaricano diventano indispensabili alla comprensione della ricerca ossessiva e della discesa spiraliforme verso alloggi sempre meno riconoscibili, in quanto tali, agli occhi di noi portatori di uno sguardo privilegiato e perciò profondamente miope.
Il segno spezzato, dinamicissimo, della matita morbida, che tradisce il gesto veloce e ripetitivo, restituisce movimento alle strutture delle case, delle automobili, dei parcheggi, delle impalcature. Tutto è mobile, anche gli immobili per eccellenza; tutto è instabile, precario.
Forse solo l’accumulare segno nero su segno nero restituisce un po’ di struttura alla materia, proprio mentre la mette in discussione, ma questo è subito contraddetto dall’uso dei piccoli fogli di carta povera che quel segno accolgono.
Niente rimane fermo, tutto si inclina e infrange, come preso in un vortice veloce, eppure un paesaggio viene ricomposto.
Un paesaggio fatto di pietre, impalcature, staccionate, ferri vecchi e arrugginiti. Un paesaggio in cui ricostruire il bello in maniera più privata e meno appariscente, perché questo è necessario.
Dove il bello non c’è, va immaginato.

Oltre il paesaggio

 

Il 15 ottobre 2016, XII giornata del contemporaneo dell’ AMACI, abbiamo allestito una mostra collettiva dal titolo “Oltre il paesaggio” nella sede di Lavì! City a Bologna.

Sono esposte opere di alcuni degli artisti che abbiamo ospitato negli anni scorsi. Il titolo sottolinea che oltre a tutelare e valorizzare i nostri beni culturali è importante sviluppare azioni di miglioramento dei paesaggi ordinari, spesso preda dell’indifferenza e dell’individualismo. Gli artisti che espongono sono impegnati a testimoniare attraverso il proprio lavoro, con punti di vista differenti, un’attenzione viva al rapporto tra l’ambiente di vita collettiva e le singole identità degli abitanti. Le opere, visibili nell’archivio mostre, sono a disposizione di chi intende acquistarle, per sostenere l’attività della associazione. Contattateci.

A cura di Sara Cipolletti

 

L’esposizione in corso, ed il libro che la accompagna, presentano una selezione di fotografie alle quali Mariano Andreani consegna la narrazione di una esplorazione compiuta attraverso la pianura centrale veneta.

Con l’occasione l’autore cerca di chiarire un’ipotesi complessiva di approccio e orientamento nella descrizione dei territori contemporanei: le sequenze fotografiche sono infatti le figure narrative conclusive e successive nelle quali far convergere sia i diversi processi di conoscenza di un territorio, quello elementarista per parti che compongono il tutto e quello per relazioni analogico-differenziali, sia i due punti di vista contrapposti ma peculiari della rappresentazione, quello cartografico e quello fotografico.

L’immagine satellitare presente in mostra individua una porzione di territorio inscrivibile in un quadrato di 50×50 Km e rappresenta l’estensione del campo di indagine, mentre una linea trasversale seleziona gli elementi, le figure e le strutture, mettendo in relazione ambiti, percorsi, punti nodali, tematismi geografico-ambientali e infrastrutturali.

Organizzata in una unica sequenza fotografica, la mostra ricostruisce idealmente quella linea di sezione cui si faceva riferimento, in un nuovo percorso astratto ed esperienziale, che non permette più di segnare categoricamente su carta il tracciato reale del percorso, ma diviene appunto una nuova topografia possibile dei luoghi.

A cura di Maria Luisa Vezzali

 

Colloquio con Mirta Carroli a cura di Maria Luisa Vezzali

 

Il termine “evoluzione”, scelto da Mirta Carroli come titolo di una delle sue ultime fatiche e per sineddoche anche della sua più recente personale, sembrerebbe – a una prima reazione – alieno rispetto al campo d’azione della scultrice. Sia perché le sue opere arcane e taglienti si collocano in una zona lontanissima dalla proteiformità delle linee curve zoomorfe e dall’ambito biologico che la parola evoca, sia perché chi ha familiarità con questa artista ben conosce la sua frequentazione esperta e affettuosa della tradizione, il suo rispetto per il passato, la sua rara sensibilità poetica e mitopoietica. Ma “evoluzione” significa più in generale ogni processo di trasformazione graduale per cui una data realtà passa da uno stadio all’altro attraverso perfezionamenti successivi ed è qui che si innesta il senso pieno e profondo della parola per Mirta Carroli: un progress vita/arte di lavorio incessante, senza alcun riposo sulla soddisfazione dei risultati, di umile ripensamento e messa in discussione, di indefesso apprendimento. Dopo ventidue anni di amicizia, collaborazione, felice sinergia tra poesia e scultura, e con alle spalle l’esperienza di due libri realizzati insieme, posso affermare con sicurezza che Mirta è movimento, fucina, ribollire di creatività, intelligenza e passione e le sue opere sono come graffi sulla volta del tempo, armi per incidere nel mondo quel che resta della presenza positiva dell’umano, per affermare la ricchezza di una dimensione “virtuale” altra, non in opposizione alla quotidianità, ma in sua difesa e potenziamento.

Che cosa rappresenta per te la mostra che stai preparando per la galleria Spazio Lavì! a Sarnano, nel cuore delle Marche?

E’ una personale di riflessione, su tutto il mio lavoro. Verranno presentati infatti sculture, disegni e gioielli: questi sono i campi di interesse che mi vedono maggiormente impegnata. Vorrei costruire uno spazio compresso, forte e omogeneo nelle due sale comunicanti della galleria. Ogni opera deve catturare l’attenzione e rimandare come contenuto e affinità a quella successiva, per ottenere una unitarietà di intenti.

Le tue ultime sculture, tra cui quella recentemente inaugurata in una rotonda davanti alla Stazione di Lugo, sono in ferro, il materiale che prediligi e che – come spesso dici – costituisce il tuo materiale di affezione. Hai usato anche in questo caso il tuo amato ferro?

La scultura principale “Evoluzione” è nella mia ricerca una novità assoluta perché eseguita in acciao COR-TEN. Non avevo mai usato questo materiale per le sculture di piccole e medie dimensioni. Le altre sculture invece sono in ferro non patinate. “Evoluzione” è costituita da tre elementi avvicinati con forme circolari frazionate. Suggerisce un movimento quasi inarrestabile dei volumi. La stessa tensione viene avvertita anche nelle altre sculture, soprattutto sul bassorilievo a parete, dove ho utilizzato ferri antichi forgiati a mano provenienti da Sarnano.

Disegnare, quasi ogni giorno, è una tua grande passione. Il disegno è per te una grande sfida; cerchi di ottenere dalle matite e dalle chine la massima espressione. A che punto siamo con il disegno?

Presenterò una serie di nuovi disegni creati appositamente per questa mostra. Verranno esposti nella “sala rossa” della galleria dove le pareti sono decorate con un vivace fondo rosso pompeiano. I disegni richiamano le sculture e costituiscono una nuova ricerca iconografica di forme e volumi. I segni sono estremamente sintetici e i colori delle chine rimandano a una tavolozza ridotta fondamentalmente ai rossi e ai neri, senza per altro dimenticare i toni bruni che si legano alle sculture in ferro. Cerco di migliorarmi e di riflettere molto sui disegni. Mi accompagna sempre una massima di Paul Valéry che condivido pienamente: «il disegno è la più ossessionante tentazione dell’intelletto».

Saranno presenti in mostra anche alcuni gioielli in argento. Noi abbiamo lavorato molto sui gioielli, riflettendo insieme sul senso e sulle rifrazioni delle linee, sui rimandi delle pietre e dei frammenti, sulle possibili continuità tra parola/segno/corpo/spazio, arrivando nel 2011 alla pubblicazione di un libro d’artista, Forme implicite. Gioielli di faiences / Unearthed Shapes. Faiences jewels, edito dalla casa Editrice Allemandi di Torino. Tu affronti diverse linee nella tua ricerca del gioiello contemporaneo. In questa occasione cosa presenti?

Insieme ai galleristi ho pensato di posizionare i gioielli in parete come piccoli quadri. I gioielli appositamente progettati ed eseguiti per questa mostra sono piccole sculture a tutti gli effetti in un metallo prezioso come l’argento. Sono accompagnati da corallo, lapis e frammenti di maiolica faentina del cinquecento “famiglia alla porcellana”. Frammenti di maioliche antiche che da tempo utilizzo come pietre preziose e che incastono nel metallo. Ho chiamato questa mia ricerca “Delle forme pure”. In questi gioielli posso sperimentare molte tecniche dell’oreficeria e ricercare linee nuove nella scultura di piccole dimensioni su gioielli da vivere e da indossare nella contemporaneità.

gianmaria-orlandi

 

A cura di Luciano Leonotti

 

La Torre di Babele (Genesi, 11, 1-9). Tutti parlavano la stessa lingua e vollero costruire una torre che arrivasse fino al cielo. Dio vide in questa opera un atto di superbia, così li confuse facendo in modo che parlassero lingue diverse e li disperse su tutta la terra.

La Torre Unipol di via Larga, fotografata da Angela Todaro, si ferma molto prima di toccare il cielo per paura di qualche anatema, ma nello spazio lineare sul limitare della pianura è lì piantata come una lama a provocare. Le fotografie guardano da tutte le angolazioni come per sincerarsi di quello che è avvenuto in un paesaggio semplice fatto di condomini, supermercato e giardini pubblici, la torre è sola, l’unico riferimento similare è un condominio anni settanta, ma è una brutta compagnia. La torre non sembra eretta dalla terra ma piovuta dal cielo, UFO verticale che da un momento all’altro pare possa ripartire, di notte, silenziosamente. Le immagini testimoniano la sua presenza ma anche la sua assenza, skyline alterato come un elettrocardiogramma che ha un sobbalzo improvviso, un colpo, visivo. La luce quasi sempre chiara nell’aria tersa autunnale prova a scaldare le lucide superfici taglienti del totem metallico insieme alle fronde dei pioppi, che si agitano, indifferenti. Le macchine sfrecciano sulla Provinciale, rallentano all’incrocio e ripartono con stridore.

Nessuno più vede queste devozioni al cielo fatte di piccole stele, edicole votive popolari nate per viaggiatori lenti, alle quali essi misuravano e affidavano il proprio destino in cammino. Qualcuno ancora protegge dalle sterpaglie queste presenze verticali e porta qualche fiore, e ci conforta lo sguardo di Gianmaria Orlandi che le ha scovate, mostrate e sottratte all’indifferenza delle mutazioni del paesaggio, dai detriti, dai cartelli, dall’asfalto, dalle villette. Se il sacro è stato allontanato dal nostro mondo contemporaneo, queste stele contadine testimoniano di un mondo semplice che si è fatto complicato e astratto. Sono a ricordare che il nostro cammino ha bisogno di punti di riferimento, di soste per meditare dove stiamo andando, che molte cose che stiamo facendo forse sono vane, che siamo trascinati da un vortice di cose da fare che ci fanno percorrere i nostri spazi senza appartenere a questi spazi, come fuggitivi in cerca di qualcos’altro, e quindi osservare queste tracce erette prima di noi è come riappropriarsi del tempo e fermarlo per il nostro bene.

Luciano Leonotti

 

Mostra tenutasi in occasione di Opentour 2016

Dalla pittura alla scultura e all’incisione. Dalla fotografia al design, dalla moda al fumetto, dalla grafica alle produzioni cine-video. Una quarantina di eventi in cinque giorni, negli spazi di via Belle Arti 54 e in giro per la città, in gallerie d’arte, chiese, luoghi istituzionali e altre sedi espositive. È il ricchissimo programma di Opentour, una festa dell’arte lunga una settimana: da martedì 9 a sabato 13 giugno, in occasione della fine dell’Anno Accademico, l’Accademia di Belle Arti di Bologna apre le porte alla città e mette in mostra i lavori realizzati dai suoi studenti.

 

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A cura di Marina Mentoni e Paolo Gobbi, con la collaborazione di Emanuele Bajo, Matteo Catani, Paul Meccanico

 

Facendo seguito alla convenzione, stipulata nell’anno accademico 2012-13, tra l’Accademia di Belle Arti di Macerata, l’Associazione Culturale Spazio Lavì! e il Comune di Sarnano, il  workshop SARNANOSCAPE 5 – Abitare un luogo. Storie, volti e cose di Sarnano si è posto l’obiettivo di continuare il proficuo rapporto di collaborazione e di scambio – che nel 2013-14 si è concretizzato nel workshop sul frottage SARNANOSCAPE 3 e nel 2014-15 nel workshop sull’acqua SARNANOSCAPE 4, oltre che negli eventi espositivi finali presso il Loggiato Comunale di Sarnano – con una realtà locale attenta alla valorizzazione di tutto ciò che caratterizza il suo patrimonio socio-culturale.

Inserito nelle celebrazioni del 750° anniversario del riconoscimento a libero comune, il progetto si configura come strumento d’incontro e dialogo con le persone (abitanti e lavoratori di ogni genere) che connotano con il loro esistere e agire quotidiano la vita cittadina di Sarnano. Particolare attenzione è stata rivolta non solo agli antichi mestieri e saperi, ma anche alle nuove realtà produttive e alla loro capacità di mantenere, attraverso il lavoro, attivo e vivo il territorio. La raccolta di testimonianze dirette provenienti da settori diversi (agricoltura, industria, artigianato, cultura, turismo, ecc.) ha contribuito alla costruzione del docufilm Abitare un luogo. Storie, volti e cose di Sarnano, parte costitutiva del workshop, in cui l’esperienza passata o presente del fare e l’importanza della sua trasmissione culturale, così come il racconto di vite vissute, hanno stimolato gli studenti non solo nella produzione di immagini fotografiche, nelle registrazioni video e nel montaggio, ma anche nell’esecuzione di opere che, declinate con varie modalità espressive, promuovono ulteriori riflessioni sul senso dell’abitare e sul valore costruttivo del fare.

La mostra allestita nel Loggiato Comunale si presenta come un grande raccoglitore di memoria, di appunti e ricordi, un “deposito” di immagini e oggetti, in contenitori di diversa grandezza, prevalentemente aperti, i quali, composti singolarmente con la tecnica dell’assemblage e dislocati nell’installazione a terra, costituiscono un insieme eterogeneo, ma armonico, che alludendo simbolicamente a una planimetria tridimensionale di Sarnano, rivisita e reinterpreta le tipologie professionali così come la loro produzione di beni materiali e immateriali.

La carrellata di fotografie distribuite lungo le pareti, ritratti e luoghi visitati, guida il percorso espositivo soffermandosi sullo scorrere della quotidianità scandita dal lavoro e dalle relazioni umane, dal loro valore.

Il rapporto tra arte e impresa, sollecitato e ospitato da Spazio Lavì!, è documentato nella mostra  Progetto Airstone dove sono esposti i risultati di un felice incontro tra l’ABAMC e la ditta Paul Meccanico. Si tratta di undici progetti di una borsa della collezione, il modello Airstone, ideati dagli studenti e presentati insieme alle quattro borse premiate. Realizzate con sapiente cura artigianale, le borse comunicano, nella loro originale unicità, quanto nel processo formativo siano fondamentali le occasioni di crescita, le esperienze di confronto e di scambio con chi opera, a vario titolo, nel territorio.

SARNANOSCAPE 5 ha visto la partecipazione degli studenti iscritti ai corsi di Tecniche Pittoriche, Tecniche e Tecnologie delle Arti Visive Contemporanee, Laboratorio delle Tecniche per la Pittura, Pittura, Applicazioni Digitali per l’Arte, Fotografia dei Beni Culturali, Paesaggistici e di Architettura, Metodologia Progettuale Comunicazione Visiva.

Marina Mentoni

 

A cura di Paola Ballesi

 

Ciò che è nascosto non ci interessa
Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche  

 

L’esergo sembra illuminante per comprendere il percorso di ricerca del giovane artista rumeno Mӑdӑlin Ciucӑ, dalla formazione all’Accademia di Belle Arti di Cluj Napoca, perfezionata in Italia presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata che ha accompagnato i suoi esordi nel mondo della pittura e l’ingresso nel sistema dell’arte, fino alla più recente produzione.

Le ragioni della sua pittura, infatti possono essere fatte risalire alle concause della rivoluzione scientifica del XVII secolo, basata sul presupposto che bisognasse raschiare la superficie delle cose per cercare il fondamento della realtà oggettiva profonda, immodificabile, indipendente dal soggetto e così raggiungere descrizioni condivise e giudizi universali su cui impiantare le discipline scientifiche. Ne è seguito di rimando che lo studio della superficie, di ciò che appare, è divenuto nel tempo sempre più interessante  proprio perché le scienze sono state costrette ad impoverire la descrizione dell’apparenza dei fenomeni pur di poter andare allo scandaglio di principi fondamentali. Di fatto, il prezzo pagato per costruire modelli matematici che giustificano il mondo, dalle scienze naturali all’economia finanche alle scienze dell’uomo, è l’eliminazione della nostra esperienza diretta, l’unica che invece rende ragione di questo mondo variegato, ricco, affascinante.

Dunque, al di là degli indubbi irrinunciabili vantaggi derivati dallo sviluppo delle scienze e dei modelli matematici che  rendendo affidabile la realtà hanno contrassegnato le tappe del progresso scientifico, c’è una qualità dell’esperienza soggettiva che in qualche modo deve essere salvaguardata. Di questo delicato compito, a partire dall’ultimo scorcio dell’800, quando diventa virale la crisi di fiducia nelle facoltà dell’intelletto e  nelle possibilità del linguaggio razionale di comunicare il reale,  si fa carico in particolar modo la ricerca artistica. Dalle arti visive alla musica, la potente carica “fenomenologica” insita nelle arti che vantano una precipua, stretta relazione tra io e mondo, diventa il dispositivo più idoneo per indagare l’universo cangiante delle apparenze che schiudono  nuovi possibili scenari e con essi nuovi significati.

Su questa lunghezza d’onda trova la sua spontanea fonte di ispirazione la pittura di Mӑdӑlin Ciuca, da sempre concentrato sul tema del ritratto che gli consente, confrontandosi con i grandi artisti del passato,  di cavalcare le superfici, moltiplicare le luci e le ombre attraverso lo spettro delle tonalità percettive con cui  inquadra e contemporaneamente disgrega tanto il profilo di un volto quanto quello di una montagna.  Ritratti costruiti imbastendo pazientemente le molteplici caleidoscopiche versioni dell’apparire allo sguardo, vibratili di emozioni e di incroci sapientemente catturati dal pennello con tocchi densi e pesanti, o leggeri e impalpabili come quelli suggeriti dalle trasparenze delle sottili velature. In questo modo, pennellata dopo pennellata, gesto dopo gesto, l’artista compone l’immagine che comincia ad acquistare fisionomia man mano che si libera dalla forma statica dell’oggetto ‘ritratto’ per diventare fenomeno intenzionato da una coscienza e dunque qualcosa di essenziale perché, sostiene Sartre, “l’apparenza non nasconde l’essenza, la rivela: è l’essenza”.

Le pennellate  accompagnano e assecondano impercettibili  ritmi di sistole e diastole precisi ed armonici  che certificano come l’artista abbia gradualmente liberato e guadagnato alla vita esseri altrimenti ancora prigionieri dell’hic et nunc dello scatto fotografico, grazie al suo sguardo penetrante restituito dalla potenza del gesto creativo tanto più forte e seduttivo quanto più guidato dal sapere della tecnica e dalla nonchalance della sprezzatura. Tecnica, talento, creatività sono qualità indispensabili per declinare un’arte che si offre nel suo artificio come natura, una naturalezza che può essere conseguita e raggiunta solo attraverso la fatica e lo studio, che perciò si trova alla fine e non all’inizio di un percorso di ricerca attento sia alla contemporaneità che alla storia.

In questa mostra  il canovaccio per la messa in scena dell’apparire è il bianco e nero con tutta la gamma dei grigi, i toni e i contrasti sapientemente dosati dall’artista per presentare il motivo del ritratto rivisitato con la sensibilità del Lebenswelt, il mondo della vita o delle validità pre-logiche che contrariamente all’oggettività scientifica mostrano le cose come sono nella loro essenza. A questo mondo appartengono i soggetti rappresentati che Mӑdӑlin ci fa vedere. Volti umani ora trattati come rocce scistose, volumi scabri e petrosi resi con pennellate forti e drammatiche che portano ad una intensa accentuazione espressiva, ora vibratili di emozioni ma più composti e classicheggianti. E allo stesso modo vedute aeree di paesaggi, catene di montagne dell’Appennino marchigiano  dipinte  come corpi  vivi  ed ansanti adagiati in  vaste pianure con le sommità immerse in cieli grigi screziati, profondi e gonfi di nubi.

Così lo spazio della tela travalica verso gli spazi immensi dell’arte dove la gradualità dei toni e i forti contrasti giocano una partita senza esclusione di colpi mentre la luce dei bianchi a volte spiazza e a volte intenerisce le ombre in un equilibrio armonico che non può e non deve essere sconvolto. Infatti, proprio l’incommensurabilità degli “infiniti spazi” diventa la misura per l’accettazione e la consapevolezza del limite che scardina la hybris del possesso e del potere mettendo uomo e natura sullo stesso piano. Accomunati e sublimati con identica scioltezza tecnica nella poesia dei portrait, uomo e natura vanno incontro al loro incalcolabile destino scandito da millenarie increspature di onde gravitazionali che si propagano all’infinito intrecciate ad impercettibili refoli di sintesi spirituali fatte di storie, miti e leggende di Sibille, Amalassunte, Angeli RibelliAntiche lontanissime eco che rimandano all’immensità degli spazi siderali e dell’immaginazione.

Paola Ballesi

collage

Qui di seguito sono elencati con una numerazione progressiva gli artisti, i titoli, i curatori e le date di apertura delle mostre ospitate allo Spazio Lavì! di Sarnano dal 2012 al 2015. Cliccando sul nome dell’artista sarete collegati all’archivio e ai relativi dettagli della mostra.

Chi è interessato alle opere può scrivere a spazio.lavi@gmail.com .

[1]
Betty Zanelli – MERRY GO ROUND
a cura di Alice Rubbini
dall’ 1 al 5 agosto 2012
[2]
Giovanni Zaffagnini – Sip e BUS
a cura di Piero Orlandi
dall’ 8 al 12 agosto 2012
[3]
Giovanni Hänninen – Milano UP
a cura di Arianna Rinaldo
dal 22 al 26 agosto 2012
[4]
Mili Romano – Crossing…
a cura di Elena Pirazzoli
dal 19 al 30 dicembre 2012
[5]
Michele Buda – Architetture
a cura di Roberto Maggiori
dal 2 al 6 gennaio 2013
[6]
Fabio Mantovani – Cento case popolari
a cura di Sara Marini
dal 27 marzo all’1 aprile 2013
[7]
Marina Mentoni – Cartografie
a cura di Paola Ballesi
dal 30 maggio al 9 giugno 2013
[8]
Gabriele Basilico – Glasgow. Processo di trasformazione della città. 1969
a cura di Giovanna Calvenzi
dal 3 al 19 agosto 2013
[9]
Marco Bucchieri – E i nostri sguardi, leggeri come foto
a cura di Carlo Branzaglia
dal 20 agosto all’8 settembre 2013
[10]
William Guerrieri – Occidentale 2005-2013
a cura di Nicoletta Leonardi
dal 19 al 29 dicembre 2013
[11]
Matilde Piazzi – Rinascimento
a cura di Paolo D’Alonzo
dal 30 dicembre 2013 al 9 gennaio 2014
[12]
Walter Cascio – LTZ
a cura di Umberto Zampini
dal 18 al 27 aprile 2014
[13]
Elena Giustozzi – familiare
a cura di Piero Orlandi
dal 23 maggio al 2 giugno 2014
[14]
Sissi Roselli – Archeologia scolastica
a cura di Sara Marini
dal 2 al 14 agosto 2014
[15]
Luciano Leonotti – Rituali
a cura di Elisa Contessotto
dal 16 al 28 agosto 2014
[16]
Paolo Gobbi – Tracciati
a cura di Paola Ballesi
dal 19 al 29 dicembre 2014
[17]
Vittorio Ferorelli e Matteo Sauli – Al bordo della strada <foto e grafie>
a cura di Elena Pirazzoli
dal 30 dicembre 2014 al 9 gennaio 2015
[18]
confotografia
a cura di Alessandra Chemollo
dal 4 al 14 aprile 2015
[19]
Dona Kalufka – Paula Metallo – Mogli e buoi…
a cura di Monica Manfrini
dal 23 maggio all’8 giugno 2015
[20]
Nino Migliori – Zooforo immaginato
a cura di Roberto Maggiori e Piero Orlandi
dal 31 luglio al 13 agosto 2015
[21]
Claudio Sabatino – La città intorno
a cura di Giovanna Calvenzi
dal 14 al 27 agosto 2015
[22]
Vespasiani+Groff – Katastrophé
a cura di Patrizia Digito
dal 12 al 22 dicembre 2015

Qui di seguito sono elencati gli artisti, i titoli, i curatori e le date di apertura delle mostre ospitate al Loggiato Comunale di Sarnano dal 2012 al 2016 e curate da Spazio Lavì!

Fabio Mantovani – Uno sguardo oltre le mura
a cura di Piero Orlandi
31 marzo – 25 aprile 2013

Sarnanoscape 1 – Laboratorio con gli studenti del Liceo Scientifico di Sarnano
a cura di Elena Giustozzi – coordinamento del progetto di Monica Manfrini
dal 19 al 28 agosto 2013

Sarnanoscape 2 – Workshop fotografico con gli studenti della Scuola di Architettura e Design di Ascoli Piceno
fotografi Giovanni Hänninen e Fabio Mantovani
a cura di Giulia Menzietti
dal 19 al 28 agosto 2013

Sarnanoscape 3 – Workshop sul frottage
a cura di Marina Mentoni e Paolo Gobbi
con la collaborazione di Matteo Catani
dal 17 al 25 maggio 2014
per effetto della convenzione sottoscritta tra Spazio Lavì!, il Comune di Sarnano e l’Accademia di Belle Arti di Macerata.

Sarnanoscape 4 – Workshop sull’acqua
a cura di Marina Mentoni e Paolo Gobbi
con la collaborazione di Matteo Catani e Paolo Nannini
dal 23 maggio al 7 giugno 2015
per effetto della convenzione sottoscritta tra Spazio Lavì!, il Comune di Sarnano e l’Accademia di Belle Arti di Macerata.

Sarnanoscape 5 – Abitare un luogo. Storie, volti e cose di Sarnano
a cura di Marina Mentoni e Paolo Gobbi
con la collaborazione di Emanuele Bajo, Matteo Catani e Paul Meccanico
dal 23 aprile all’8 maggio 2016
per effetto della convenzione sottoscritta tra Spazio Lavì!, il Comune di Sarnano e l’Accademia di Belle Arti di Macerata.
Infine di seguito riportiamo gli eventi curati da Spazio Lavì!, ospitati in altre sedi, dal 2013 al 2015.
Fabio Mantovani – 100 case popolari
a cura di Sara Marini
dal 25 ottobre al 10 novembre 2013
Duepuntilab, via Solferino, 19 – Bologna

Tutto è paesaggio
a cura di Piero Orlandi
dal 14 al 23 febbraio 2014
Duepuntilab, via Solferino, 19 – Bologna

Dona Kalufka – Paula Metallo – Mogli e buoi…
a cura di Monica Manfrini
dall’11 al 31 ottobre 2015
Museo della Civiltà Contadina, San Marino di Bentivoglio

A cura di Giovanna Calvenzi

 

Claudio Sabatino propone per questo lavoro due possibili titoli. Quale quello più idoneo? “La città intorno” svela subito le intenzioni, invita a guardare oltre una prima evidenza. “Il Bel Paese” è certo ironico, rimanda a un passato ormai lontanissimo, contiene una punta di nostalgica amarezza. Nella loro ingannevole dolcezza, nelle loro cromie prive di aggressività, le immagini di Claudio Sabatino sono invece un monito implacabile nei confronti della stupidità umana. In questi magnifici ritratti di edifici dell’antichità, lo sguardo superficiale dell’osservatore coglie le vestigia greco-romane nel loro splendore, quello splendore che la fotografia diretta e sobria di Sabatino, figlia della lezione del “linguaggio documentario” di Walker Evans, sottolinea senza enfasi. Poi scorge, inevitabile, il traffico, quindi le architetture contemporanee, l’impietosa convivenza senza rispetto di passato e presente. La fotografia di Sabatino induce e accompagna la comprensione, suggerisce con leggerezza lasciando la consapevolezza del disastro avvenuto all’interpretazione di ognuno.

L’occasione per iniziare questa indagine è stata offerta a Claudio Sabatino, dieci anni fa, grazie all’invito a partecipare a una mostra collettiva che si proponeva di riflettere sul “paesaggio tradito”, sul degrado del paesaggio italiano (*). Per l’occasione lui stesso aveva scritto: “A nord di Napoli, i Campi Flegrei sono una vivida testimonianza della ricchezza dei valori storici che l’architettura classica è capace di tramandare, ma sono anche uno degli esempi della maggiore contraddizione che l’antropizzazione del territorio propone. I Campi Flegrei sono luoghi condannati dalla lenta e inesorabile crescita della città diffusa, che si costruisce, quasi in un moto spontaneo, tutt’intorno alle presenze archeologiche: il nuovo si affianca all’antico senza soluzione di continuità”.

Cresciuto all’ombra dell’area archeologica di Pompei, Sabatino ha innata la consuetudine al rispetto per le tracce del passato. Inizia quindi la sua indagine con un feroce senso di impotenza, animato dalla voglia di raccontare, catalogare, documentando dapprima la zona a nord ovest di Napoli, i Campi Flegrei appunto, e allargando poi la sua ricerca verso Roma e altre città. Compone le sue immagini in polittici che suggeriscano un effetto di soffocamento e l’avanzare della “città diffusa”, che sembra voler inghiottire templi, sacelli, archi, si compone in una sorta di accerchiamento progettuale. Con il passare del tempo affida a ogni singola immagine una valenza propria. Nelle opere che oggi propone non c’è sdegno, non c’è volontà di denuncia, ma solo la decisione di coinvolgere nella sua sofferenza civile gli osservatori delle sue foto. Ed è grazie a questa formale sospensione di giudizio, a questa distanza equa che il fotografo pone fra sé e i manufatti dell’uomo che emergono, ancora una volta, la potenza del linguaggio documentario e la maestria con la quale Sabatino sa utilizzarlo.

 

(*) “Il paesaggio tradito. Sguardi su un territorio compromesso”, mostra collettiva alla Galleria San Fedele, Milano, dal 26 novembre 2005 al 6 febbraio 2006.

A cura di Roberto Maggiori e Piero Orlandi

 

Venerdì 31 luglio alle ore 18 si apre allo Spazio Lavì! di Sarnano la mostra di Nino Migliori, Zooforo Immaginato, a cura di Roberto Maggiori e Piero Orlandi. L’allestimento è composto da 13 fotografie tratte dalla serie di immagini dedicate dal fotografo bolognese alle sculture duecentesche di Benedetto Antelami poste sulle pareti esterne del Battistero di Parma.

Per l’occasione viene pubblicato dall’Editrice Quinlan un libro in edizione limitata e numerata, firmata dall’autore, che sarà disponibile in galleria e verrà presentato nel corso di un evento a Sarnano, durante il periodo di apertura della mostra.

Le foto di Migliori sono state scattate a lume di candela, per riprodurre l’atmosfera in cui erano visibili all’epoca della realizzazione delle sculture. Luce e medioevo: ecco perché Spazio Lavì! ha voluto esporre nei propri spazi queste immagini nell’anno europeo della luce, il 2015, che per Sarnano è anche l’anniversario (settecentocinquantesimo) della nascita del Comune; che fu fondato nel 1265, quando il lavoro di Antelami era stato terminato solo da qualche decennio. Una mostra che è anche un omaggio alle opere del romanico a Sarnano, a partire dal portale della chiesa di Santa Maria di Piazza Alta, per finire all’Abbazia di Piobbico.

Nino Migliori (Bologna, 1926) è uno dei più importanti fotografi italiani. Attivo fin dal 1948, ha contribuito in modo preminente alla evoluzione della fotografia da attività professionale a forma d’arte universalmente riconosciuta. Tra le sue mostre recenti è da ricordare l’antologica svoltasi nel 2013 a Palazzo Fava a Bologna. Le sue opere sono presenti nelle maggiori collezioni pubbliche e private a livello internazionale.

A cura di Paola Ballesi

 

La ricerca artistica di Paolo Gobbi, puntuale e coerente nel corso di un trentennio, di recente ha reso più marcata la costante che nutre la sua poetica: la dialettica presenza/assenza. […] Una presenza ora statica e ingombrante, ora discreta, talvolta addirittura impercettibile, ma comunque in grado di ingaggiare una contesa dialettica. […]

La spazialità oggi emergente dai suoi lavori è profonda e intrigante, dove l’interno si confonde con l’esterno, lo psichico con il geometrico, uno spazio astratto ma ad alto gradiente di tattilità, per lo più abitato da elementi grafici gracili e volatili che intrecciano sottili tracciati vibranti di tensione emotiva. Forte è sempre stato nell’artista settempedano il desiderio di attingere i segreti della pittura per penetrare nel cuore della figurazione creatrice di mondi che solo in essa vengono per la prima volta all’esistenza grazie alla forza espressiva del linguaggio visivo. […] Non deve sorprendere il passaggio di quest’ultimo decennio affidato a composizioni di griglie e segni ortogonali, inserti grafici che vanno a scuotere la neutra quiete della superficie pittorica spazzando via le tremule presenze filamentose dei lavori precedenti. In realtà l’artista apre alla geometria ma per decostruirne la logica destrutturandola in un errare “erratico”. […] E sugli embrioni formali l’artista concentra la ricerca più recente ad alto potenziale dialettico, come se una sorta di garbata ribellione gli imponesse di addomesticare le storiche “linee forza” in linee sinuose ad andamento libero nello spazio, in tracciati a gestazione continua e infinita. Come se dalla logica ortogonale cartesiana, dal principio di identità e dalla sillogistica, dominanti rispettivamente il linguaggio visivo e quello verbale, volesse assicurarsi una via di scampo alla ricerca di nuovi equilibri e nuove connessioni tutte da scoprire. Per questo lo spazio espositivo diventa lo spazio dell’opera, uno spazio-ambiente in cui autore e fruitore intrecciano i loro destini in un incontro del “terzo tipo” con la genesi del visibile. […]

Tracciati appena percepibili che si snodano in sequenze spaziali ritmate nel tempo, che si allungano con lievissime ombre accennando un possibile ‘altrove’, tracciati che per essere captati invocano un environment immersivo nel silenzio pervaso di stupore.

A cura di Elisa Contessotto

 

Il Peccato dell’Eternità

“Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.” Recita il libro sapienziale dell’Ecclesiaste, al primo versetto del famoso capitolo riguardante il tempo. C’è un tempo per tutto, dice il Qòelet della Sacra Bibbia, ma che cos’è il tempo se non il peccato dell’eternità?

Per raggiungere la sintonia col discorso fotografico di Leonotti la prima necessità è quella di non fermarsi di fronte all’apparente ed efficace immediatezza del messaggio, l’iconica laconicità dei volti, degli spiriti, dei momenti intrappolati di divenire che ci restituisce, quotidiani eppure assoluti. Devo rompere il confine tra una fotografia e l’altra, tornare su di esse dopo averle viste una prima volta, e così una seconda, e una terza; quasi in una sorta di ‘eterno ritorno’. E qual è il risultato di questi passaggi? Un viaggio alla ricerca di qualcosa che è soltanto suggerito, inesplicito ed inesplicato, nascosto dietro le croci e sopra le gradinate, vicino alle persone assiepate, tra le folle anonime e consuete, oltre gli sguardi infastiditi da un sole pallido del giorno di festa.

Un rituale è la struttura di un determinato rito, un complesso insieme di definizioni che scomoda la storia delle religioni, della sociologia e dell’antropologia moderna. È il passaggio di Van Gennep, quella ‘transizione’ dell’uomo che cerca di astrarsi dal mondo per poi reintegrarvisi rinnovato. È quell’imprimatur sociale di cui parlano Durkheim e Malinowski, in cui il totem, il feticcio, l’oggetto di culto viene usato come simbolo, nella sua accezione etimologica di strumento catalizzatore, di facilitatore d’unità tra gli uomini, che così trovano una possibilità d’individuazione, d’essere finalmente parte del tutto sociale, indivisi e pacificati. Il rituale è un atto che porta con sé un sempiterno risultato: agisce sul tempo.

La violenza del quotidiano che sta dietro alle forme, fra le ombre e le folle, tra le carni che si fondono ai vestiti da cerimonia, e tra le cerimonie che cambiano – passando da quelle religiose a quelle non meno sacre delle ‘rappresentazioni’ sociali, – negli ambienti che diventano contesti, nel fondo che s’intreccia al primo piano ci sono a volte citazioni di sintassi visive seicentesche.

In queste fotografie Leonotti afferra per un istante che dura tutto ‘il tempo’ lo spettro del rituale umano che – ben lungi dall’essere metafisico, – parte dalle vette dello spirito per sprofondare nella carne, in quella ricerca del pane quotidiano sulla bocca di ogni devoto e nella mente di ogni laico: sia esso credente, agnostico o ateo.

Il rituale allora diventa qui un discorso d’attimi, in cui la ricerca è doppia, nell’insieme del percorso e nel dettaglio di ogni singola foto c’è l’anelito umano di fermare il tempo, in quella corrente, in quel flusso che passa da una foto all’altra. Un unico Eterno flusso di carni e anime chiamato Umanità.

A cura di Piero Orlandi

 

1
Queste non sono foto di viaggio. Le foto di viaggio cercano di interpretare i luoghi, esplorandone la diversità, l’eccezionalità. Qui sembra piuttosto che siano i luoghi a esplorare la persona che li attraversa, riflettendone lo sguardo carico di interrogativi, perfino di apprensione.

 

2
Elena è una pittrice che spesso ha usato la fotografia di archivio, traendone degli appunti, degli spunti per la sua pittura. In questo caso invece non usa le fotografie che produce, ma si esprime direttamente con esse. Non fa ciò che fecero l’urbanista Gordon Cullen o lo storico dell’arte Federico Zeri, che relegarono la fotografia in un ruolo ancillare delle loro proprie discipline, sfruttandola come strumento, di riproduzione delle pitture in un caso, di sfondo per gli schizzi urbanistici nell’altro. Elena transita dalla pittura alla fotografia, entra nel campo della fotografia cercando di avere da lei qualcosa di diverso da ciò che le dà la pittura.

 

3
Prima di essere una pittura, quel paesaggio c’è, è là, aspetta di essere ritratto. Nel caso delle fotografie, di queste fotografie, il paesaggio non aspetta, è subito ritratto, è subito qui, dentro il nostro occhio-pancia che è la macchina fotografica. E’ già entrato in noi prima che lo vedessimo davvero, prima che ne avessimo il tempo. E adesso lo guardiamo in fotografia, è adesso che lo guardiamo veramente. O meglio, è lui che ci guarda, che sente il nostro umore, la nostra temperatura emotiva, e la modifica, la trasforma in un’altra, diversa da quando gli eravamo davanti e lo fotografavamo.

 

4
A volte è a fuoco il vetro del bus, a volte è a fuoco il paesaggio lontano, l’orizzonte, a volte quello vicino, lungo la strada. A volte è in movimento, a volte fermo. Il paesaggio che sfreccia è il contrario della veduta e del paesaggio incorniciato caro ai giardini cinesi. Là ci sono valori fissi, qui valori mobili, effimeri, transeunti, instabili.

 

5
Vediamo luoghi brumosi, un po’ inospitali, poco densamente popolati, luoghi in un lembo imprecisato della Turchia. C’è poco compiacimento estetico, gli antecedenti di ciò che Elena ci mostra non sono nella letteratura, nell’arte, ma nella geografia, nella politica, nell’antropologia, nella storia. Non posso porre le vedute di Vermeer come antenati di questi paesaggi, né i le prose d’arte dei grandi viaggiatori da Goethe a Stendhal a Piovene; posso invece trovare la stessa necessità di indicare che sta in una carta geografica, la stessa necessità di informare che sta in un manuale di storia: questo luogo è così perché non è mai stato abitato e le ragioni sono queste, gli uomini che lo popolano saltuariamente vivono in questo modo, hanno questi caratteri.

 

6
Elena ha voluto intitolare “familiare” questo lavoro. Perché? Cosa c’è di familiare in un viaggio in Turchia per chi – come lei – non c’è mai stato in precedenza? C’è la ricerca di un punto di luce, di un riflesso, di un’erba, di un sasso che vediamo lì, ma sappiamo che potrebbe anche essere a casa nostra, mille o duemila chilometri lontano, nel nostro Appennino marchigiano che ci manca, da cui veniamo, che portiamo nel cuore, che ci è così familiare. La familiarità vogliamo trovarla a tutti i costi in questi scorci, per sopravvivere in seno a loro, per non averne paura. L’assenza di familiarità spinge alla ricerca di familiarità.


A cura di Paolo D’Alonzo

 

Non c’è viso che non celi un paesaggio sconosciuto, inesplorato, non c’è paesaggio che non si popoli di un viso amato o sognato, che non sviluppi un viso a venire o già passato (Gilles Deleuze e Félix Guattari).

 
Il problema affrontato da queste immagini è quello del rapporto tra viso e paesaggio. Dunque dal punto di vista dell’analisi si tratterà di comprendere la natura di questo rapporto, considerato così come esso si presenta in queste fotografie.
Cosa abbiamo difatti sotto gli occhi, concretamente? Innanzitutto tre elementi: alcuni ritratti, alcuni paesaggi e un montaggio dei primi con i secondi. In che rapporto si trovano tali elementi? La prima impressione è che essi siano messi in rapporto solo estrinsecamente, ovvero a partire dalla loro eterogeneità. In effetti osserviamo che i ritratti sono realizzati in condizioni artificiali, mentre i paesaggi sono colti nell’assenza totale della figura umana. Inoltre il montaggio dei due si riduce a un semplice accostamento, ovvero alla forma più povera del rapporto, quella che agisce meno profondamente su entrambi i termini, rimanendo loro esterna e indifferente. E in questa indifferenza del rapporto rispetto a ciò che vi è ricompreso viene sottolineata e rafforzata a sua volta l’indifferenza reciproca dei due termini. Si osservi ad esempio come lo sguardo dei soggetti sia rivolto altrove: come innamorati in litigio, viso e paesaggio non si guardano. In un primo momento avremmo quindi due elementi eterogenei, volti senza paesaggi e paesaggi senza volti, e un rapporto debole, estrinseco, tra di essi.
Tuttavia, man mano che l’occhio percorre le immagini, inizia a profilarsi qualcosa come un rapporto intrinseco tra viso e paesaggio. Dal punto di vista tecnico ciò è ottenuto da un lato mediante l’impiego e il montaggio dei dettagli, dall’altro attraverso l’associazione e il contrasto tra i tratti espressivi del viso e quelli del paesaggio, e in particolar modo attraverso la definizione di rapporti cromatici ben determinati. Si produce così un doppio divenire incrociato: il viso diventa paesaggio, il paesaggio diventa viso.
Il viso viene steso come una mappa affinché possa mostrarci la sua orografia organica, che siamo invitati a leggere come si leggono le linee di una mano. Dal di sotto di esso emerge un paesaggio: barba e sopracciglia assumono una consistenza quasi vegetale, di arbusto, la superficie della pelle è accidentata e aggrumata come un suolo terroso, la fantasia del vestito presenta una regolarità di stampo organico.
Inversamente, il paesaggio fissa su di noi il suo sguardo inumano. Così l’hotel inclinato è un bastimento sospeso nel bel mezzo di un rollio immaginario, la luce in fondo al sotterraneo e la vegetazione nel riquadro di cemento si spandono appena poco più in là, quasi a portata di mano, in un’invocazione silenziosa che ricorda il giallo dei limoni montaliani. Il paesaggio è raccolto in una postura sempre peculiare, come fosse teso nello sforzo di realizzare un’impossibile espressività inorganica, un richiamo muto. Proprio il colore qui è il segno di un’apertura, di una fiducia che il mondo stesso ci prega di riporre in lui. Occorre notare che il paesaggio qui non è naturale ma perlopiù urbano, o meglio è una «natura urbana»: non si avverte alcuna nostalgia di un passato idealizzato ma solo il sentore di un potenziale tecnico-umano ancora in attesa di realizzazione.
Da un rapporto estrinseco tra viso e paesaggio, dall’iniziale divorzio dei due elementi, a un rapporto intrinseco in cui la materialità naturale del viso e l’espressività muta del paesaggio si richiamano a vicenda, comunicandosi il bisogno che hanno l’uno dell’altro. Perché così come ciascun viso vagheggia il suo paesaggio, ciascun paesaggio vagheggia il suo viso, c’è una fantasticheria materiale, un desiderio o un appello inorganico attraverso cui la natura reclama una presenza umana come completamento o estensione della sua natura: l’uomo come natura della natura. È questo sentimento di convergenza, questo richiamo reciproco che attesta che l’esilio è terminato, e che il Rinascimento può avere inizio.

A cura di Carlo Branzaglia

 

La ipertrofica produzione di immagini, e, di converso, la rapidità della loro fruizione, non è di per sé fenomeno da bollarsi con apocalittico sdegno, naturale conseguenza come è di una economia culturale pluricentenaria. Piuttosto, esso ha trasformato le dinamiche di attribuzione di senso, spostandole, polverizzandole, nebulizzandole; pur sempre sotto l’egida di una tranquillizzante (quanto fallace) attribuzione perentoria di significato.

La fenomenologia ci aiuta, a ricostruire strutture di significazione nascoste. Ma è una fenomenologia per certi versi casuale: non ci sono declinazioni, ma diffrazioni di senso, sparpagliate in un universo mediale, all’interno delle quali è difficile cogliere nessi probanti.

Quello che sta facendo Marco Bucchieri è proprio questo: ripercorrere questi nessi, mettendo insieme elementi colti in maniera quasi casuale, registrati o ricostruiti con curiosità e stupore, come se si trattasse di situazioni fortuite o ricostruite con una artigianalità certosina e ostinata, che non ama però fissarsi obiettivi predestinati a priori.

Marco lo sta facendo da diverso tempo, mi sembra: magari sotto le mentite spoglie della serialità di stanze d’albergo abbandonate; nel contrasto di un grattacielo su un golfo; nella virulenza cromatica di sfondi che schiacciano i loro soggetti. Per citare qualche serie passata.

Le serie di questa mostra, nella loro differenza percettiva, ripercorrono l’impigliarsi dello sguardo di Marco: in Audience, il trovarsi all’interno di una scena, soggetto fotografico involontario e casuale, porta per contraltare a scorgere nei volti dei ‘fotografi’ , scolpiti in un bianco e nero solo apparentemente anonimo, le vibrazioni di iconografie estratte dalla tradizione delle arti plastiche occidentali.

Le grandi immagini, a colori, sono figlie di un processo apparentemente senza fondo, a partire da figure completamente decontestualizzate dal loro referente. Qui però Marco gioca con la struttura dell’immagine: su di essa il suo sguardo si impiglia, di nuovo, in una serie di riferimenti, ancora apparentemente casuali, con i protagonisti dell’arte contemporanea.

Sono leggere, le foto, prime testimoni della riproducibilità dell’immagine. Sono leggeri, gli sguardi, abituati a percorrere le affollatissime praterie mediali. Ma sotto questa leggerezza, si nascondono filamenti di senso che si colgono solo col gusto dell’ossimoro, della contraddizione in termini, del trucco (inteso anche come trick, ovvero prova di abilità performativa). Mettendo anche da parte la presunzione di potere, come autore, donare il senso a ciò che si propone; anzi, mettendosi dall’altra parte dell’immagine, o nascondendosi gli orizzonti dietro una leggera cortina di veli.

A cura di Giovanna Calvenzi

 

Like a rolling stone

Da Milano, ritratti di fabbriche in poi il lavoro di Gabriele Basilico è un patrimonio collettivo che incontriamo quotidianamente. Rappresenta senza dubbio uno dei fondamenti della nostra cultura visiva e attraversa senza fatica i mondi della fotografia documentaria e di quella “artistica”, dell’architettura, dell’urbanistica, del paesaggio, dell’arte in generale. Quando poi ci si ritrova in consessi maggiormente “addetti ai lavori”, si ricorre volentieri agli indimenticabili dittici con le impronte di sedie (Contact, 1978), che servono a smentire allo stesso tempo il disinteresse di Basilico per la figura umana e per la piccola scala del design. Oppure, più spesso nel mio caso, si recuperano le spettacolari immagini di quella specie di Quinto Stato che è il Parco Lambro (1976), che è un progetto in grado di aiutarci a trovare molte tessere chiave del mosaico basilichiano: la natura politica del suo lavoro, il legame con Milano e la sua cultura artistica, l’attrazione per la plastica dei corpi – qui addirittura in massa – quando diventano essi stessi dispositivi sui quali si riflettono l’immagine e la storia di una città. Questa serie Glasgow. Processo di trasformazione della città invece non si vede mai. Nell’aprire i file ho provato sorpresa e un po’ di vergogna per il fatto di non conoscere (o almeno non ricordare) queste fotografie, di molto precedenti, scattate da un autore appena venticinquenne, immagino ancora molto coinvolto nei suoi studi di architettura. Nelle foto ci sono davvero un sacco di cose: il senso tragico e “di rovina” che ancora permeava le città che avevano subito bombardamenti pesanti durante la seconda guerra mondiale; la disinvoltura mod con la quale gli abitanti più giovani si muovevano con indifferenza tra quelle rovine, calamitati verso un futuro che speravano diverso; la forza delle infrastrutture, discrete nella vecchia versione “rotaia del tram”, per la quale Basilico abbassa il punto di vista quasi a terra, e ben più invasive e arroganti, oscuranti, nel caso dei nuovi viadotti.
Come sarà poi nelle foto del Parco Lambro e in qualche altra occasione, l’autore sembra attribuire un valore particolare alla presenza dei bambini, come fossero attori più naturali e veloci di altri della scena urbana, interpreti perfetti di quella incerta trasformazione cominciata col dopoguerra e ancora in atto che Gabriele si è dedicato a raccontare per tutta la vita. I piccoli abitanti di Glasgow trasformano con indifferenza in spazio da gioco le rovine di un quartiere, la serranda di un negozio atavicamente chiuso, un marciapiede o un viadotto. Sanno by heart che ogni angolo di spazio urbano ha un uso alternativo che loro individuano rapidamente, e sfruttano fino in fondo a fini “sociali”. Già sulla soglia tra architettura e fotografia, Basilico individua il carattere di una città colta “alla sprovvista”, nell’atto di passare dalla prima alla seconda metà del secolo – e quindi da una cultura urbana a un’altra – e la racconta sovrapponendo alla resa sapiente degli spazi e degli edifici la presenza delle persone, che si muovono veloci in uno spazio lento, che abitano già la Glasgow successiva. Siamo in Inghilterra alla fine degli anni ’60, non c’è resistenza al futuro, non c’è nostalgia, e le crepe nella fiducia nella modernità sono ancora visibili a pochi. Tutt’altra cosa rispetto a quello che accade in un lavoro praticamente coevo e legato da mille fili all’opera di Basilico, quello di Paolo Monti su Bologna. Che viene svuotata, allestita, messa in scena, proprio per spettacolarizzare una sfiducia già consolidata nei confronti della cultura spaziale moderna, giudicata inadeguata e incapace di dialogare con il patrimonio storico. Rispetto al quale non si può che adottare un atteggiamento di protezione (“salvaguardia”). Basilico raccoglie l’eredità di Monti e la capovolge completamente, ibridandola con quella dei Becher, dei fotografi americani e francesi, della tradizione pittorica italiana, e trasformandola infine in una macchina per monumentalizzare tutto ciò che monumento non è: le fabbriche milanesi, i paesaggi marginali e incompiuti, I palazzi crivellati di Beirut, le brutte torri di Shangai. Mettendo insieme la sapienza nello scegliere le visioni ravvicinate (i blow up) della trasformazione delle città (in questo caso di Glasgow) e la naturalezza nel ridefinire I criteri estetici dello spazio urbano Basilico ci ha insegnato non solo a comprendere ma a vivere le città del nostro tempo.

 

(Pippo Ciorra, luglio 2013)

 

Glasgow. Processo di trasformazione della città. 1969.

Il 15 giugno 2013, a Parigi, Amos Gitai mi ha mostrato per la prima volta il video che documenta una lunga conversazione, meglio un dialogo, da lui realizzato con Gabriele a Venezia alla fine dell’agosto 2012. A un certo punto Amos gli domanda quando si sia reso conto che la fotografia sarebbe potuta diventare una vera professione e Gabriele risponde raccontando il viaggio a Glasgow. Era il 1969 e Gabriele, ancora studente di architettura, era molto interessato al fenomeno delle “new town”, città di fondazione che stavano nascendo in quegli anni in Gran Bretagna. Avevamo attraversato la Francia dormendo sovente in auto (la 124 di suo padre). Ad Amiens avevo dimenticato tutti i miei soldi in un bagno pubblico così invece di andare in Irlanda, nostra meta iniziale, avevamo optato per le new town e la Scozia. Sulla strada verso Cumbernauld ci siamo fermati alla periferia di Glasgow. Nel film di Amos Gabriele ricorda la sensazione di sofferenza, le case semi abbandonate in attesa di essere demolite, lo strano silenzio, l’assenza di auto e la presenza invece di bambini incuriositi dal nostro arrivo. Gabriele ha fatto una trentina di foto, un rullo 24×36 che porta oggi il numero 61. Abbiamo sviluppato e stampato al nostro ritorno nel piccolo studio che avevamo insieme in via Castelfidardo, a Milano. Nel film (cito a memoria) Gabriele dice: “Le foto dei bambini in particolare hanno attirato la mia attenzione. C’era una relazione forte fra quello che avevo visto e la carta sulla quale le avevo stampate. Era l’esperienza di uno studente che scopriva che la fotografia poteva davvero essere qualcosa di personale”. Non c’è ancora nelle immagini di Glasgow la lucida nitidezza dei suoi lavori futuri ma queste sue prime foto rivelano il suo interesse per il lavoro di Bill Brandt (che in quegli anni gli piaceva molto), un’attenzione partecipe ai fenomeni sociali e la nascente fascinazione per le periferie urbane. L’anno dopo Lanfranco Colombo, che allora dirigeva la Galleria Il Diaframma, in via Brera 10 a Milano, gli ha offerto la possibilità di esporle nello spazio riservato ai giovani fotografi. È stata la sua prima mostra.

 

(Giovanna Calvenzi, 16 giugno 2013)

A cura di Paola Ballesi

 

L’indagine pittorica di Marina Mentoni è una ricerca sulla spazialità, dove però sono saltati tutti i canoni tradizionali, compresa la questione della lateralità e le sue implicazioni sia per il momento creativo che ricettivo. Quello indagato dall’artista è infatti lo spazio dell’astrazione più radicale che annulla ogni forma di rappresentazione e converte la superficie pittorica in una stesura monocromatica. Si tratta dunque di una spazialità neutra, omogenea, infinita e isotropa cioè indifferente alla direzione, ma che si comporta come un vero e proprio campo di energia diffusa, attraversato da vettori dinamici e forze di resistenza che ne compongono, nella loro tensione più o meno armonica, la struttura. Di qui la fitta rete di segni formicolanti che intessono superfici ad elevatissima entropia, ma in realtà il disordine è solo apparente perché ad uno sguardo ravvicinato la texture risulta armonica ed ordinata, avvincente come la cartografia di una galassia che riproduce in tracce infinitesimali l’equilibrio perfetto di miriadi di corpi celesti immersi negli spazi siderali. Quello stesso ordine che governa la stesura del pigmento e la disseminazione delle tracce emerge con forza anche dalla logica compositiva dei dipinti, risolta in installazioni rigorose e fredde che non concedono nulla alla sfera emotiva e richiamano l’attenzione sul serrato colloquio con le coordinate spaziali dei luoghi che le ospitano e la provocazione dell’environment.

E’ raro trovare un esito più coerente della lezione kandinskyana sul rapporto tra forme, colore e suoni come in queste scale cromatiche dove il colore risuona nelle minimali variazioni tonali, pesca nella profondità viscose del pigmento e riemerge in superficie all’incanto della luce. Ma al pari di ogni ricerca ardita e fuori dagli schemi, l’artista vuole evitare l’incuria del pubblico negligente, già denunciata da Mark Rothko nel 1947 sulla rivista “The Tiger’s Eye”: “ Un quadro vive in compagnia , dilatandosi e ravvivandosi nello sguardo di un visitatore sensibile. Muore per la stessa ragione. E’ quindi un gesto arrischiato e spietato mandarlo in giro per il mondo”. Di qui la sua scelta di centellinare le occasioni di esposizione al pubblico dei suoi lavori che se a uno sguardo superficiale appaiono ostinatamente chiusi in un circuito autoreferenziale in realtà si concedono con arrendevole piacere ad interrogazioni penetranti e appassionate.

Le opere di Marina Mentoni, siano esse dipinti su tavola, su tela o su carta, possono dunque diventare molto loquaci e pregne di significato per chi si dispone con umile pazienza a decrittarle. Le sue incomparabili textures, frutto di un sapiente e consolidato mestiere, sono la cifra unica di un percorso di ricerca che si dipana e si perde nell’intrico dei segni distillati secondo l’alfabeto originario e più elementare della linguaggio visivo modulato sul registro della musica puntuale di Stockhausen. Così spazia dal macro al microcosmo, dalle cartografie di immensi e smisurati spazi cosmici alle minimali ed intime geografie dell’anima sempre all’inseguimento di tracce perdute che proietta con la precisione di Mercatore in semplici superfici dove delinea il perimetro e l’area dello ‘sfondo’ sul quale spiccano tutte le volontà di scrittura, quelle stesse rintracciate con la paziente virtù dell’amanuense dal suo maestro e mentore, Magdalo Mussio. Ciò che svela lo sfondo non lascia indifferenti perché porta alla luce un campo mentale e non un fenomeno ottico, un insieme segnato profondamente e in modo indissociabile dalla natura e dallo spirito, dove il vuoto è annullato da tracciati vitali che trasformano lo spazio nel tempo della vita e viceversa.

Dunque l’investigazione di Marina Mentoni affonda nello spazio ma per raggiungere la dimensione del tempo, per analizzare da vicino quelle coordinate che predispongono il terreno fertile ai germogli della vita, alle sue infiorescenze e alla sua morte. Le ultime opere, più calde e delicate, frutto di un lavoro composito di calcografia e intervento pittorico affidato ad impalpabili carte incollate su tela, documentano la dimensione del tempo restituita attimo dopo attimo nello spazio del dipinto in tutta la sua forza e in tutta la sua fragilità. Sono carte, ma anche cartografie di urgenze esistenziali che esplodono in un pulviscolo di luce cosmica per raccontare di possibili vite e anche di ogni anonima esistenza che resta pur sempre nella memoria dell’universo come un punto luminoso, un raggio di luce. Nate come horti conclusi questi lavori finiscono per diventare giardini dell’anima, luoghi di resistenza alle regole del mercato e del consumo dove vengono conservati semi di speranza e coltivate con amorevole cura tutte quelle spinte vitali, spesso neglette e trascurate, che riconciliano l’uomo con se stesso e con il suo mondo.

A cura di Sara Marini

 

Con cento case popolari Fabio Mantovani racconta sette progetti – Rozzol Melara a Trieste, Gallaratese a Milano, Forte Quezzi a Genova, Pilastro+Virgolone e Barca a Bologna, Corviale a Roma, Villaggio Matteotti a Terni – o forse, più precisamente, registra attraverso cento scene come le persone attraversano e vivono oggi architetture costruite per essere pezzi di città.

Cento scatti compongono un affresco atopico e relazionale: la posizione delle fotografie non è tesa a raccontare i singoli luoghi, ma una stagione precisa dell’architettura – in buona parte dettata dal Piano Fanfani del 1949 – apparentemente indifferente alle posizioni geografiche. All’osservatore è chiesto prima di perdersi nella grande scena e di ricomporre solo in un secondo momento, attraverso i singoli frammenti, l’immagine dei quartieri.

Lo sguardo di Mantovani insiste lucidamente, senza indecisioni, sul rapporto tra corpo e spazio: non ci sono protagonisti, ci sono relazioni a distanza. Si tratta di architetture legate da un’idea di città, da una politica, soprattutto da un pensiero moderno comune; e poi ci sono gli ospiti di queste strutture, chi si è trovato per scelta o suo malgrado a viverle ed abitarle. Anche l’affresco dei cento scatti invita alla costituzione di una presenza attiva da parte del visitatore, che non assiste passivamente all’esposizione ma può ritrovare attinenze, ricostruire appartenenze, oppure decidere consapevolmente di accogliere lo spaesamento, la moltiplicazione degli sguardi.

 

 

Ambiguamente un pezzo di città e un’architettura

 

La ricerca cento case popolari di Fabio Mantovani è un viaggio che muterà “contenuto” nel suo farsi: le cento case trovate ora nei sette progetti diventeranno nel tempo ancora cento sguardi ma su un numero sempre maggiore di situazioni, fino a far coincidere un unico scatto con un unico luogo. La possibilità di trovare cento case dentro un numero anche variabile di edifici, tutti appartenenti però al momento in cui le città italiane hanno costruito i propri monumenti all’abitare ensemble, sostiene il valore dello spazio, delle situazioni dell’oggi, oltre la testimonianza storica delle opere raccontate. Fabio Mantovani esplora quella che a distanza di quarant’anni possiamo definire una stagione eroica dell’edilizia pubblica o dell’edilizia per tanti. È possibile affermarlo guardando a quello che in seguito è stato il destino progettuale e costruttivo delle case: se si supera la distinzione tra investimento pubblico e privato, il tema dell’abitare, dopo questa vicenda, ha accolto o la via del buonsenso o quella della speculazione edilizia, perdendo tensione verso la ricerca di un senso, di un sogno, di una visione. Non c’è moralismo però negli scatti: l’architettura è lì a raccontarsi per quello che è oggi, colta nel suo essere nostalgicamente e ambiguamente eroica, nel suo voler essere brano di città. I progetti sono carichi di pensiero, un pensiero introverso, attestato sulle questioni dell’architettura e per questo poco interessato ai luoghi. Un pensiero volto a sancire posizioni che, se lette a posteriori e oltre alcuni distiguo evidenti, fanno di queste esperienze un’unica esperienza protagonista di una storia. Questi progetti testimoniano un’interpretazione del mestiere dell’architetto generosamente teso ad interpretare la città, volonterosamente atto a dettarne le direzioni, a volte dimentico di accogliere complessità e contraddizioni.

 

 

Una pacifica convivenza

 

Se l’architettura è sorpresa nel suo attestare un’assoluta fiducia in se stessa, nelle regole della razionalità, ma anche nella forza dell’invenzione, le persone che commentano la scena normalizzano ogni tensione, argomentano una pacifica convivenza. Oltre le polemiche che hanno reso note queste architetture al grande pubblico come condensatori di problemi sociali – attacchi spesso inconsapevoli del peso che ha la collocazione urbana periferica, la maggior parte di questi manufatti nascevano quali porte della città, o dell’incompletezza dell’opera – Fabio Mantovani ritrova una vita normale costruendo un elogio dell’ordinario capace di addomesticare i cosiddetti edifici-mostri nostrani. La vita scorre tra le pieghe dell’architettura in un copione in cui si intrecciano la storia del progetto e la sua quotidiana occupazione. Gli spazi più metafisici sono accolti quali rifugi per la solitudine, l’intreccio dei percorsi disegna modi d’incedere diversi, gli spazi verdi sembrano riflettere la personalità di chi li cura. Siamo di fronte ad una scoperta: quell’architettura – non tutta sicuramente: fa eccezione ad esempio il Villaggio Matteotti, frutto di un processo di partecipazione efficace – che, nel suo ripetersi su grandi estensioni, voleva tutti uguali, anche perché fondata su un’idea di corpo ideale, astratto, solo da misurare, guardata così si trasforma nella misura della diversità umana. Emergono le diverse sfumature degli abiti, le imprecisioni del corpo, il suo movimento, contrapposti ad architetture fondate sulla ripetizione, sul colore come codice per definire l’uso degli spazi e non come modalità di personalizzazione, sulla regola geometrica figlia degli strumenti della rappresentazione, sulla staticità del segno. Non è possibile parlare di sfondo e figura, non si tratta nemmeno di un set per mettere in mostra i diversi mode d’emploi de la vie come decretava Perec. I cento scatti hanno tutti due protagonisti: l’architettura colta nel suo persistere sia come manufatto sia come pensiero e le persone fissate nell’immagine mentre sono in viaggio, cariche di storia che ne disegna i volti, desiderose di attraversare la scena con le proprie cangianti diversità.

A cura di Roberto Maggiori

 

Le Architetture fotografate da Michele Buda riproducono indifferentemente parti di edifici popolari, rintracciabili nelle periferie urbane o nelle zone industriali, così come costruzioni progettate da grandi architetti, quali ad esempio Mies Van Der Rohe e Alvaro Siza. Lo sguardo di Buda è attratto da tipologie costruttive moderne e essenziali in cui l’angolo retto è il perno, anche metaforico, attorno a cui ruota una concezione spaziale ideale promulgata fin dalle Avanguardie storiche della prima metà del Novecento. In quegli anni, influenzati dal contributo di autori come Mondrian e Malevic e dello stesso Mies van der Rohe, gli artisti “moderni” inaugurarono una lunga stagione fatta di composizioni geometriche tendenti all’astrazione, in cui primeggiavano quadrati, triangoli e cerchi perfetti, metafora della progettazione umana “suprema” in grado di sottomettere definitivamente il caos della natura.

Questa fiducia nel progresso tecnologico e nella struttura essenziale è poi ritornata in voga dopo la parentesi Informale con la Minimal art statunitense degli anni ’60 influenzata non a caso proprio da autori come Mies e altri esponenti del Bauhaus trasferitesi negli USA durante il Nazismo. Ed è proprio da una sintesi tra il Minimalismo e la fotografia di paesaggio che prende corpo il lavoro di Buda.

Dall’esperienza del celeberrimo Viaggio in Italia, l’autore cesenate riprende lo sguardo sul territorio declinato in chiave anti reportagistica: questo tipo di fotografia non intende raccontare storie o far denuncie, quanto proporre un paesaggio che parli anche del punto di vista del fotografo, cosciente del condizionamento che la tradizione visiva che lo ha preceduto esercita su di lui. Uno sguardo apparentemente elementare, ma sostanzialmente colto, fatto di citazioni e attenzione per pochi dettagli, capaci di suggerire una lettura del paesaggio contemporaneo, ma anche dello stesso linguaggio fotografico.

E’ qui che si avverte lo scarto con le avanguardie storiche, più propense a urlare i propri proclami, laddove la nouvelle vague fotografica italiana degli anni ‘80, riprese una tradizione “sussurrata”, iniziata in America da fotografi come Atget, Timothy O’Sullivan, Walker Evans e poi Frank, Friedlander, Egglestone, Shore, Baltz e Robert Adams: autori sottili e sagaci che, come scrive lo stesso Adams, si preoccupavano di non “lasciar trasparire alcuna difficoltà” nell’esecuzione dell’opera.

La declinazione italiana di quest’approccio al paesaggio si è accordata con gli spazi più ristretti del nostro territorio e in particolare con le periferie, dove ritroviamo, secondo Paolo Costantini, “un paesaggio in cui si articolano citazioni, rimandi e riflessi delle cose e delle nostre immagini mentali delle cose, sia un approccio distaccato e minimale che uno sguardo romantico o una fascinazione metafisica.” (L’insistenza dello sguardo, Alinari, 1989). La Metafisica, ecco un altro aspetto tutto italiano che ritroviamo in molta della fotografia paesaggistica di questi autori e negli scenari, quasi sempre disabitati, fotografati da Buda.

La propensione minimalista Buda la deriva anche dal lavoro di Guido Guidi, di cui fu allievo: un’attenzione per gli elementi davvero minimi, quasi evanescenti, caricanta di una struttura formale e geometrica che lo avvicina agli esponenti storici della Minimal Art, ad artisti come Donald Judd e Robert Morris o a un precursore del calibro di Rothko, la cui essenzialità può essere ravvisata nelle fotografie a colori di Buda, tendenti al monocromo.

Questo minimalismo rigoroso, ordinato, teso all’astrazione, nelle fotografie di Buda prende l’aspetto di un impianto grafico essenziale, sobrio ed elegante, che trasforma le brutture del paesaggio urbano contemporaneo in un territorio ideale, derivato ovviamente dallo sguardo dell’autore più che da quello “oggettivo” della macchina fotografica. Luoghi anonimi e banali vengono così monumentalizzati dal linguaggio fotografico che inquadra, isola, astrae e decontestualizza il dettaglio cui dare forma.

Queste composizioni sono caratterizzate inoltre da un elemento pressoché centrale presente in quasi tutte le immagini: che sia una canaletta di scolo o un’ombra, lo spigolo vivo di un palazzo o un elemento colorato stagliato su uno sfondo omogeneo, dalle architetture emerge un centro di gravitazione permanente – direbbe Battiato – attorno cui si costituisce lo spazio organizzato dall’autore, non esente da un certo grado di lirismo.

Se negli anni Venti del Novecento l’angolo retto evocava la fiducia nella razionalità e nel progresso dell’umanità, nelle fotografie di Buda appare spesso associato a strutture logore, arrugginite, spigolose, con simmetrie irreali e di conseguenza inquietanti. Come se al pensiero positivista si fosse sostituita la decadenza attuale, deriva cinica di un razionalismo malsano, asservito esclusivamente alle logiche di profitto delle multinazionali.

Contrariamente alle levigate superfici delle pitture suprematiste, che riverberavano gli echi ideali del mito della civiltà industriale, le fotografie di Buda stigmatizzano la condizione della contemporaneità, sintetizzandola in un presente fatto di edifici fatiscenti e in un passato recente da cui provengono invece le architetture dei grandi maestri.

Esposte nello Spazio Lavì, le une di fronte alle altre, queste fotografie di architetture rappresentano il brutto riscattato dallo sguardo dell’autore e l’essenziale come modello di bellezza. Una dialettica espressa in una forma antiretorica, disillusa nei confronti degli ideali presuntuosi delle avanguardie storiche, ma non completamente sfiduciata nei confronti di un equilibrio possibile.

A cura di Arianna Rinaldo

 

Giovanni Hänninen presenta uno sguardo “sospeso” su Milano. Da sopra le teste delle persone, ma non troppo in alto, guarda una città che cerca di cambiare, ancora una volta. È, infatti, da trenta anni a questa parte che, a Milano, si susseguono cantieri di grandi opere. Giovanni Hänninen ha ritratto alcune di queste costruzioni del passato, rimaste lì incompiute, o abbandonate, a testimoniare una sete di trasformazione mai soddisfatta. Accanto a queste, documenta i cantieri delle nuove grandi opere che dovrebbero trasformare Milano nella sede immaginata a ospitare l’Expo del 2015. Un raffronto e un campanello d’allarme sui cambiamenti della città.

A cura di Piero Orlandi

 

“Che inquietudine se sento, che disagio se penso, che inutilità se voglio!”. Le parole sono di Pessoa, o forse di Tabucchi che le ha scelte tra le migliori del suo amato, ma sono anche del fotografo che guarda, e dunque sente, e pensa su ciò che sente, provando un disagio da cui vuole liberarsi, di lì a poco ricadendovi, più spossato di prima. Questa, secondo Giovanni Zaffagnini, è la condanna del guardare. Qualunque sia la cosa che si guarda, anche – e forse di più – se filtrata attraverso i vetri sporchi delle fermate degli autobus e delle cabine telefoniche (quando ci si andava per telefonare). Stiamo lì, assorti, e tra noi e il mondo c’è un fragile schermo, sul quale però facciamo un grande affidamento: lo schermo ci illude di poter difenderci da ciò che vediamo, dagli effetti del sentire, del sentimento. Un sentimento di sconforto per la bruttezza, l’insignificanza di ciò che ci circonda, che sono poi – la bruttezza, l’insignificanza – una specie di condanna che ci colpisce: di non poter trovare salvezza, speranza, appigli per ripartire. Di essere costretti a navigare a vista in un mare di ovvietà, di sciatteria, come quello che sembra coprire e sommergere sempre di più i nostri paesaggi, soprattutto quelli urbani. Che inquietudine vederli! Anche così annebbiati come appaiono attraverso questi schermi dietro i quali ci troviamo, telefonando, rincasando, attraversando la città, anche così sono brutti, non riescono ad avvicinarsi neanche un po’ alla dimensione del sogno, della leggerezza. Restano incombenti, e per sfuggirli l’occhio mette a fuoco – e la lente fotografica fa la stessa cosa – ciò che sui vetri qualcun altro ha provato a sfogare con frasi, parole, post-it per il fratello che leggerà: appunti, richieste d’aiuto, maledizioni, imprecazioni, sospiri d’amore…

E poi, dice Zaffagnini – ce lo dice con queste foto sempre in bilico tra la disperazione e quell’ironia che funge da estrema possibilità di riscatto – questi schermi polverosi, ingrommati, scaracciati, somigliano così tanto all’effetto reale della combinazione tra retina e cervello che agisce nella nostra fisiologia: la retina, che pensiamo registri tutto, e il cervello, che crediamo decodifichi, alla ricerca di una verità oggettiva, una verità dove bianco è bianco, sopra è sopra, davanti è il contrario di dietro, e così via. Fortunatamente ci capita di crederci, attimo dopo attimo. E’ una fortuna, perché solo così ci è concesso di sopravvivere. Anche se non è vero. Anche se i punti di vista, i sentimenti, i condizionamenti agiscono attimo dopo attimo per deformare quella idea, quella speranza di verità che sempre si distrugge e che sempre proviamo a ricomporre, pezzo dopo pezzo, e di nuovo sempre ci sfuggirà di nuovo, e non è crto colpa della nebbiolina di quei vetri sporchi. Che semmai sono una metafora di ciò che ci accade nel quotidiano.

A cura di Alice Rubini

 

Spesso è solo un dettaglio, o la luce di un luogo con le sue gradazioni, che riescono a magnetizzare la forza di un’emozione e di uno sguardo, a rendercelo in una dimensione che appartiene soltanto a noi stessi, che ci riporta a un tempo diverso, più nostro e indefinibile, un po’ lontano, popolato di ricordi nutriti da una tenera nostalgia. Non sempre legato a un evento ma piuttosto a un momento, a un sentimento, a una percezione che riemerge dal mare quotidiano che mescola e confonde ogni cosa.
E così il tempo reale, quello fissato dallo scatto fotografico di Betty Zanelli, conquista il delicato abbandono ad un gesto di seduzione, in proiezione di qualcosa di incredibile, di emozionale, di profondo, con quella concretezza che appartiene alla percezione delle cose attraverso le più semplici sensazioni umane.
Trovo silenzio e musica, che si alternano in modo quasi conflittuale, ad avvolgere queste immagini, così vivide e intense, che saturano la superficie delle opere. Trovo lo splendore dei colori e la solitudine degli spazi che contraddicono la memoria semplice a cui, di slancio, mi riconducono. Trovo il presente, il passato e un tempo astratto, e mi riconosco in questa eclettica dimensione.
In fondo, è come se quelle sagome ferme ritrovassero il loro movimento nel nostro sguardo, e lì intuisco la gioia del gioco e la dolcezza di averlo dovuto lasciare, ancora con il sorriso sulle labbra, ancora con la voglia di rimanere. Frementi a partire, s’iniziava a muoversi e il desiderio di scendere non arrivava mai, e seppur appagati, questa delusa aspirazione ci accompagnava fino a casa.
C’è qualcosa di assoluto e sorprendente nelle giostre, anche quando rimaniamo lì fermi a guardarle girare, anche quando la musica finisce e qualche piccola voce implora di rimanere ancora. C’è qualcosa di assoluto nel lavoro di Betty Zanelli, nella sua necessità di chiarezza, senza sovrastrutture e senza artifici, nella sua necessità di candore e di purezza di stile, attuato attraverso un lungo percorso di ricerca di luoghi, di sfumature, di circostanze e di atmosfere, e mediato da un’intensità sentimentale, voluta, sentita, vissuta.
Riconosco in lei la capacità di trovare ed esaltare luminose atmosfere e perfette inquadrature, di fissare l’estasi e l’incanto di quei toni e quei riflessi che la sera accendono il cielo, e di sintetizzare quella moltitudine di tante cose che ci inebriava di un divertimento semplice. Una visione d’insieme che rievoca rumori sovrapposti che riempiono la testa e profumi di cose dolci, accattivanti che saturano l’aria e riportano a quel luogo e a quegli oggetti così strani e particolari che hanno dato un passaggio alla nostra infanzia.
Un salto indietro nel tempo che ci affascina ancora, per quell’emozione forte e quella spensieratezza che ci ha attirato e a volte fatto battere il cuore all’impazzata. Sì, lì, davanti a quel castello fantastico, pieno di cavalli e di carrozze e di tanti animali, ci ricordiamo di aver anche scoperto l’angoscia dell’abbandono che inseguiva la felicità di ritrovarsi. Quel girare in tondo aveva in sé un tempo eterno, sconfinato, interminabile, in cui cercare la nostra certezza, il nostro sicuro riferimento, lo sguardo e il saluto di chi ci ha accompagnato che sembrava andasse via per sempre, però poi tornava e il piacere era ancor più intenso perché, dopo un altro giro, l’avremmo ritrovato ancora.
Colgo tutto questo nelle opere di Betty, mi piace questa sovrapposizione di sentimenti che riaffiorano, questa tenerezza e quest’inquietudine latente che procedono nella stessa direzione, anzi, che fanno insieme lo stesso “giro”, trasformando le inquadrature in sottile evocazione. Così come mi piace scoprire, tra i chiaroscuri delle immagini, una serie infinita di rimandi narrativi, letterari e filmici, che si susseguono come frammenti che appartengono ad un universo diverso, come anche leggere tra i titoli delle opere una particolare attenzione alla musicalità, a filastrocche e canzoni dedicate all’infanzia.
La sua irrinunciabile precisione, questa particolare attenzione, questo colmarci d’informazioni, rimangono comunque elementi discreti che fanno parte di un equilibrio estetico e linguistico che aspira a un sentimento positivo. Sono figurazioni che richiedono la nostra resa, la nostra capacità di ritrovare in noi uno sguardo innocente e di condurlo a una lettura poetica e divertita, rincorsa sulla scia delle emozioni.
Ed un particolare esiste con la sua assenza: in queste scene, in questi scatti, in questo rincorrersi di suggestioni, non troviamo anima viva. Non abbiamo indizi, dimensioni, sguardi ed espressioni che vengano rivolti dalla nostra parte, questo vuoto umano è lì e toglie ancor più tempo al tempo, sottrae dimensione e profondità allo spazio, ruba voce ai mormorii in sottofondo. E ci disorienta l’indefinibile spontaneità con cui, comunque, tutto questo noi lo percepiamo.
Ogni scatto è come la pagina di un libro o il fotogramma di una pellicola, con un’interpretazione dominante ed essenziale dettata dalle tematiche soggettive, ed una universale, densa delle sfumature che ognuno vuole trovare. E comunque rimane sempre realtà autentica, elemento fondamentale, oggettiva e soggettiva insieme, assolutamente senza artifici, a dare forma all’incantesimo che dimora oltre il vero, oltre la sua stessa essenza.
Una realtà volutamente stemperata sulla superficie della tela scelta come supporto fotografico per non disperdere la formazione e le origini creative di Betty Zanelli, e, particolarmente, per esaltare la pittoricità dell’immagine, definendo una percezione di dissolvenza dei margini della figurazione, mescolando le ombre e i chiaroscuri ed accentuando ancor più l’atemporalità dell’evento. Questa sua determinazione e soluzione formale rendono quindi l’opera e il concetto ancor più sensibili. Il suo procedere è ineluttabilmente rivolto alla conquista della coscienza e dell’emotività di noi osservatori, con garbata energia e con reverente provocazione.