collage

Qui di seguito sono elencati con una numerazione progressiva gli artisti, i titoli, i curatori e le date di apertura delle mostre ospitate allo Spazio Lavì! di Sarnano dal 2012 al 2015. Cliccando sul nome dell’artista sarete collegati all’archivio e ai relativi dettagli della mostra.

Chi è interessato alle opere può scrivere a spazio.lavi@gmail.com .

[1]
Betty Zanelli – MERRY GO ROUND
a cura di Alice Rubbini
dall’ 1 al 5 agosto 2012
[2]
Giovanni Zaffagnini – Sip e BUS
a cura di Piero Orlandi
dall’ 8 al 12 agosto 2012
[3]
Giovanni Hänninen – Milano UP
a cura di Arianna Rinaldo
dal 22 al 26 agosto 2012
[4]
Mili Romano – Crossing…
a cura di Elena Pirazzoli
dal 19 al 30 dicembre 2012
[5]
Michele Buda – Architetture
a cura di Roberto Maggiori
dal 2 al 6 gennaio 2013
[6]
Fabio Mantovani – Cento case popolari
a cura di Sara Marini
dal 27 marzo all’1 aprile 2013
[7]
Marina Mentoni – Cartografie
a cura di Paola Ballesi
dal 30 maggio al 9 giugno 2013
[8]
Gabriele Basilico – Glasgow. Processo di trasformazione della città. 1969
a cura di Giovanna Calvenzi
dal 3 al 19 agosto 2013
[9]
Marco Bucchieri – E i nostri sguardi, leggeri come foto
a cura di Carlo Branzaglia
dal 20 agosto all’8 settembre 2013
[10]
William Guerrieri – Occidentale 2005-2013
a cura di Nicoletta Leonardi
dal 19 al 29 dicembre 2013
[11]
Matilde Piazzi – Rinascimento
a cura di Paolo D’Alonzo
dal 30 dicembre 2013 al 9 gennaio 2014
[12]
Walter Cascio – LTZ
a cura di Umberto Zampini
dal 18 al 27 aprile 2014
[13]
Elena Giustozzi – familiare
a cura di Piero Orlandi
dal 23 maggio al 2 giugno 2014
[14]
Sissi Roselli – Archeologia scolastica
a cura di Sara Marini
dal 2 al 14 agosto 2014
[15]
Luciano Leonotti – Rituali
a cura di Elisa Contessotto
dal 16 al 28 agosto 2014
[16]
Paolo Gobbi – Tracciati
a cura di Paola Ballesi
dal 19 al 29 dicembre 2014
[17]
Vittorio Ferorelli e Matteo Sauli – Al bordo della strada <foto e grafie>
a cura di Elena Pirazzoli
dal 30 dicembre 2014 al 9 gennaio 2015
[18]
confotografia
a cura di Alessandra Chemollo
dal 4 al 14 aprile 2015
[19]
Dona Kalufka – Paula Metallo – Mogli e buoi…
a cura di Monica Manfrini
dal 23 maggio all’8 giugno 2015
[20]
Nino Migliori – Zooforo immaginato
a cura di Roberto Maggiori e Piero Orlandi
dal 31 luglio al 13 agosto 2015
[21]
Claudio Sabatino – La città intorno
a cura di Giovanna Calvenzi
dal 14 al 27 agosto 2015
[22]
Vespasiani+Groff – Katastrophé
a cura di Patrizia Digito
dal 12 al 22 dicembre 2015

Qui di seguito sono elencati gli artisti, i titoli, i curatori e le date di apertura delle mostre ospitate al Loggiato Comunale di Sarnano dal 2012 al 2016 e curate da Spazio Lavì!

Fabio Mantovani – Uno sguardo oltre le mura
a cura di Piero Orlandi
31 marzo – 25 aprile 2013

Sarnanoscape 1 – Laboratorio con gli studenti del Liceo Scientifico di Sarnano
a cura di Elena Giustozzi – coordinamento del progetto di Monica Manfrini
dal 19 al 28 agosto 2013

Sarnanoscape 2 – Workshop fotografico con gli studenti della Scuola di Architettura e Design di Ascoli Piceno
fotografi Giovanni Hänninen e Fabio Mantovani
a cura di Giulia Menzietti
dal 19 al 28 agosto 2013

Sarnanoscape 3 – Workshop sul frottage
a cura di Marina Mentoni e Paolo Gobbi
con la collaborazione di Matteo Catani
dal 17 al 25 maggio 2014
per effetto della convenzione sottoscritta tra Spazio Lavì!, il Comune di Sarnano e l’Accademia di Belle Arti di Macerata.

Sarnanoscape 4 – Workshop sull’acqua
a cura di Marina Mentoni e Paolo Gobbi
con la collaborazione di Matteo Catani e Paolo Nannini
dal 23 maggio al 7 giugno 2015
per effetto della convenzione sottoscritta tra Spazio Lavì!, il Comune di Sarnano e l’Accademia di Belle Arti di Macerata.

Sarnanoscape 5 – Abitare un luogo. Storie, volti e cose di Sarnano
a cura di Marina Mentoni e Paolo Gobbi
con la collaborazione di Emanuele Bajo, Matteo Catani e Paul Meccanico
dal 23 aprile all’8 maggio 2016
per effetto della convenzione sottoscritta tra Spazio Lavì!, il Comune di Sarnano e l’Accademia di Belle Arti di Macerata.
Infine di seguito riportiamo gli eventi curati da Spazio Lavì!, ospitati in altre sedi, dal 2013 al 2015.
Fabio Mantovani – 100 case popolari
a cura di Sara Marini
dal 25 ottobre al 10 novembre 2013
Duepuntilab, via Solferino, 19 – Bologna

Tutto è paesaggio
a cura di Piero Orlandi
dal 14 al 23 febbraio 2014
Duepuntilab, via Solferino, 19 – Bologna

Dona Kalufka – Paula Metallo – Mogli e buoi…
a cura di Monica Manfrini
dall’11 al 31 ottobre 2015
Museo della Civiltà Contadina, San Marino di Bentivoglio

A cura di Giovanna Calvenzi

 

Claudio Sabatino propone per questo lavoro due possibili titoli. Quale quello più idoneo? “La città intorno” svela subito le intenzioni, invita a guardare oltre una prima evidenza. “Il Bel Paese” è certo ironico, rimanda a un passato ormai lontanissimo, contiene una punta di nostalgica amarezza. Nella loro ingannevole dolcezza, nelle loro cromie prive di aggressività, le immagini di Claudio Sabatino sono invece un monito implacabile nei confronti della stupidità umana. In questi magnifici ritratti di edifici dell’antichità, lo sguardo superficiale dell’osservatore coglie le vestigia greco-romane nel loro splendore, quello splendore che la fotografia diretta e sobria di Sabatino, figlia della lezione del “linguaggio documentario” di Walker Evans, sottolinea senza enfasi. Poi scorge, inevitabile, il traffico, quindi le architetture contemporanee, l’impietosa convivenza senza rispetto di passato e presente. La fotografia di Sabatino induce e accompagna la comprensione, suggerisce con leggerezza lasciando la consapevolezza del disastro avvenuto all’interpretazione di ognuno.

L’occasione per iniziare questa indagine è stata offerta a Claudio Sabatino, dieci anni fa, grazie all’invito a partecipare a una mostra collettiva che si proponeva di riflettere sul “paesaggio tradito”, sul degrado del paesaggio italiano (*). Per l’occasione lui stesso aveva scritto: “A nord di Napoli, i Campi Flegrei sono una vivida testimonianza della ricchezza dei valori storici che l’architettura classica è capace di tramandare, ma sono anche uno degli esempi della maggiore contraddizione che l’antropizzazione del territorio propone. I Campi Flegrei sono luoghi condannati dalla lenta e inesorabile crescita della città diffusa, che si costruisce, quasi in un moto spontaneo, tutt’intorno alle presenze archeologiche: il nuovo si affianca all’antico senza soluzione di continuità”.

Cresciuto all’ombra dell’area archeologica di Pompei, Sabatino ha innata la consuetudine al rispetto per le tracce del passato. Inizia quindi la sua indagine con un feroce senso di impotenza, animato dalla voglia di raccontare, catalogare, documentando dapprima la zona a nord ovest di Napoli, i Campi Flegrei appunto, e allargando poi la sua ricerca verso Roma e altre città. Compone le sue immagini in polittici che suggeriscano un effetto di soffocamento e l’avanzare della “città diffusa”, che sembra voler inghiottire templi, sacelli, archi, si compone in una sorta di accerchiamento progettuale. Con il passare del tempo affida a ogni singola immagine una valenza propria. Nelle opere che oggi propone non c’è sdegno, non c’è volontà di denuncia, ma solo la decisione di coinvolgere nella sua sofferenza civile gli osservatori delle sue foto. Ed è grazie a questa formale sospensione di giudizio, a questa distanza equa che il fotografo pone fra sé e i manufatti dell’uomo che emergono, ancora una volta, la potenza del linguaggio documentario e la maestria con la quale Sabatino sa utilizzarlo.

 

(*) “Il paesaggio tradito. Sguardi su un territorio compromesso”, mostra collettiva alla Galleria San Fedele, Milano, dal 26 novembre 2005 al 6 febbraio 2006.

A cura di Roberto Maggiori e Piero Orlandi

 

Venerdì 31 luglio alle ore 18 si apre allo Spazio Lavì! di Sarnano la mostra di Nino Migliori, Zooforo Immaginato, a cura di Roberto Maggiori e Piero Orlandi. L’allestimento è composto da 13 fotografie tratte dalla serie di immagini dedicate dal fotografo bolognese alle sculture duecentesche di Benedetto Antelami poste sulle pareti esterne del Battistero di Parma.

Per l’occasione viene pubblicato dall’Editrice Quinlan un libro in edizione limitata e numerata, firmata dall’autore, che sarà disponibile in galleria e verrà presentato nel corso di un evento a Sarnano, durante il periodo di apertura della mostra.

Le foto di Migliori sono state scattate a lume di candela, per riprodurre l’atmosfera in cui erano visibili all’epoca della realizzazione delle sculture. Luce e medioevo: ecco perché Spazio Lavì! ha voluto esporre nei propri spazi queste immagini nell’anno europeo della luce, il 2015, che per Sarnano è anche l’anniversario (settecentocinquantesimo) della nascita del Comune; che fu fondato nel 1265, quando il lavoro di Antelami era stato terminato solo da qualche decennio. Una mostra che è anche un omaggio alle opere del romanico a Sarnano, a partire dal portale della chiesa di Santa Maria di Piazza Alta, per finire all’Abbazia di Piobbico.

Nino Migliori (Bologna, 1926) è uno dei più importanti fotografi italiani. Attivo fin dal 1948, ha contribuito in modo preminente alla evoluzione della fotografia da attività professionale a forma d’arte universalmente riconosciuta. Tra le sue mostre recenti è da ricordare l’antologica svoltasi nel 2013 a Palazzo Fava a Bologna. Le sue opere sono presenti nelle maggiori collezioni pubbliche e private a livello internazionale.

A cura di Paola Ballesi

 

La ricerca artistica di Paolo Gobbi, puntuale e coerente nel corso di un trentennio, di recente ha reso più marcata la costante che nutre la sua poetica: la dialettica presenza/assenza. […] Una presenza ora statica e ingombrante, ora discreta, talvolta addirittura impercettibile, ma comunque in grado di ingaggiare una contesa dialettica. […]

La spazialità oggi emergente dai suoi lavori è profonda e intrigante, dove l’interno si confonde con l’esterno, lo psichico con il geometrico, uno spazio astratto ma ad alto gradiente di tattilità, per lo più abitato da elementi grafici gracili e volatili che intrecciano sottili tracciati vibranti di tensione emotiva. Forte è sempre stato nell’artista settempedano il desiderio di attingere i segreti della pittura per penetrare nel cuore della figurazione creatrice di mondi che solo in essa vengono per la prima volta all’esistenza grazie alla forza espressiva del linguaggio visivo. […] Non deve sorprendere il passaggio di quest’ultimo decennio affidato a composizioni di griglie e segni ortogonali, inserti grafici che vanno a scuotere la neutra quiete della superficie pittorica spazzando via le tremule presenze filamentose dei lavori precedenti. In realtà l’artista apre alla geometria ma per decostruirne la logica destrutturandola in un errare “erratico”. […] E sugli embrioni formali l’artista concentra la ricerca più recente ad alto potenziale dialettico, come se una sorta di garbata ribellione gli imponesse di addomesticare le storiche “linee forza” in linee sinuose ad andamento libero nello spazio, in tracciati a gestazione continua e infinita. Come se dalla logica ortogonale cartesiana, dal principio di identità e dalla sillogistica, dominanti rispettivamente il linguaggio visivo e quello verbale, volesse assicurarsi una via di scampo alla ricerca di nuovi equilibri e nuove connessioni tutte da scoprire. Per questo lo spazio espositivo diventa lo spazio dell’opera, uno spazio-ambiente in cui autore e fruitore intrecciano i loro destini in un incontro del “terzo tipo” con la genesi del visibile. […]

Tracciati appena percepibili che si snodano in sequenze spaziali ritmate nel tempo, che si allungano con lievissime ombre accennando un possibile ‘altrove’, tracciati che per essere captati invocano un environment immersivo nel silenzio pervaso di stupore.

A cura di Elisa Contessotto

 

Il Peccato dell’Eternità

“Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.” Recita il libro sapienziale dell’Ecclesiaste, al primo versetto del famoso capitolo riguardante il tempo. C’è un tempo per tutto, dice il Qòelet della Sacra Bibbia, ma che cos’è il tempo se non il peccato dell’eternità?

Per raggiungere la sintonia col discorso fotografico di Leonotti la prima necessità è quella di non fermarsi di fronte all’apparente ed efficace immediatezza del messaggio, l’iconica laconicità dei volti, degli spiriti, dei momenti intrappolati di divenire che ci restituisce, quotidiani eppure assoluti. Devo rompere il confine tra una fotografia e l’altra, tornare su di esse dopo averle viste una prima volta, e così una seconda, e una terza; quasi in una sorta di ‘eterno ritorno’. E qual è il risultato di questi passaggi? Un viaggio alla ricerca di qualcosa che è soltanto suggerito, inesplicito ed inesplicato, nascosto dietro le croci e sopra le gradinate, vicino alle persone assiepate, tra le folle anonime e consuete, oltre gli sguardi infastiditi da un sole pallido del giorno di festa.

Un rituale è la struttura di un determinato rito, un complesso insieme di definizioni che scomoda la storia delle religioni, della sociologia e dell’antropologia moderna. È il passaggio di Van Gennep, quella ‘transizione’ dell’uomo che cerca di astrarsi dal mondo per poi reintegrarvisi rinnovato. È quell’imprimatur sociale di cui parlano Durkheim e Malinowski, in cui il totem, il feticcio, l’oggetto di culto viene usato come simbolo, nella sua accezione etimologica di strumento catalizzatore, di facilitatore d’unità tra gli uomini, che così trovano una possibilità d’individuazione, d’essere finalmente parte del tutto sociale, indivisi e pacificati. Il rituale è un atto che porta con sé un sempiterno risultato: agisce sul tempo.

La violenza del quotidiano che sta dietro alle forme, fra le ombre e le folle, tra le carni che si fondono ai vestiti da cerimonia, e tra le cerimonie che cambiano – passando da quelle religiose a quelle non meno sacre delle ‘rappresentazioni’ sociali, – negli ambienti che diventano contesti, nel fondo che s’intreccia al primo piano ci sono a volte citazioni di sintassi visive seicentesche.

In queste fotografie Leonotti afferra per un istante che dura tutto ‘il tempo’ lo spettro del rituale umano che – ben lungi dall’essere metafisico, – parte dalle vette dello spirito per sprofondare nella carne, in quella ricerca del pane quotidiano sulla bocca di ogni devoto e nella mente di ogni laico: sia esso credente, agnostico o ateo.

Il rituale allora diventa qui un discorso d’attimi, in cui la ricerca è doppia, nell’insieme del percorso e nel dettaglio di ogni singola foto c’è l’anelito umano di fermare il tempo, in quella corrente, in quel flusso che passa da una foto all’altra. Un unico Eterno flusso di carni e anime chiamato Umanità.

A cura di Piero Orlandi

 

1
Queste non sono foto di viaggio. Le foto di viaggio cercano di interpretare i luoghi, esplorandone la diversità, l’eccezionalità. Qui sembra piuttosto che siano i luoghi a esplorare la persona che li attraversa, riflettendone lo sguardo carico di interrogativi, perfino di apprensione.

 

2
Elena è una pittrice che spesso ha usato la fotografia di archivio, traendone degli appunti, degli spunti per la sua pittura. In questo caso invece non usa le fotografie che produce, ma si esprime direttamente con esse. Non fa ciò che fecero l’urbanista Gordon Cullen o lo storico dell’arte Federico Zeri, che relegarono la fotografia in un ruolo ancillare delle loro proprie discipline, sfruttandola come strumento, di riproduzione delle pitture in un caso, di sfondo per gli schizzi urbanistici nell’altro. Elena transita dalla pittura alla fotografia, entra nel campo della fotografia cercando di avere da lei qualcosa di diverso da ciò che le dà la pittura.

 

3
Prima di essere una pittura, quel paesaggio c’è, è là, aspetta di essere ritratto. Nel caso delle fotografie, di queste fotografie, il paesaggio non aspetta, è subito ritratto, è subito qui, dentro il nostro occhio-pancia che è la macchina fotografica. E’ già entrato in noi prima che lo vedessimo davvero, prima che ne avessimo il tempo. E adesso lo guardiamo in fotografia, è adesso che lo guardiamo veramente. O meglio, è lui che ci guarda, che sente il nostro umore, la nostra temperatura emotiva, e la modifica, la trasforma in un’altra, diversa da quando gli eravamo davanti e lo fotografavamo.

 

4
A volte è a fuoco il vetro del bus, a volte è a fuoco il paesaggio lontano, l’orizzonte, a volte quello vicino, lungo la strada. A volte è in movimento, a volte fermo. Il paesaggio che sfreccia è il contrario della veduta e del paesaggio incorniciato caro ai giardini cinesi. Là ci sono valori fissi, qui valori mobili, effimeri, transeunti, instabili.

 

5
Vediamo luoghi brumosi, un po’ inospitali, poco densamente popolati, luoghi in un lembo imprecisato della Turchia. C’è poco compiacimento estetico, gli antecedenti di ciò che Elena ci mostra non sono nella letteratura, nell’arte, ma nella geografia, nella politica, nell’antropologia, nella storia. Non posso porre le vedute di Vermeer come antenati di questi paesaggi, né i le prose d’arte dei grandi viaggiatori da Goethe a Stendhal a Piovene; posso invece trovare la stessa necessità di indicare che sta in una carta geografica, la stessa necessità di informare che sta in un manuale di storia: questo luogo è così perché non è mai stato abitato e le ragioni sono queste, gli uomini che lo popolano saltuariamente vivono in questo modo, hanno questi caratteri.

 

6
Elena ha voluto intitolare “familiare” questo lavoro. Perché? Cosa c’è di familiare in un viaggio in Turchia per chi – come lei – non c’è mai stato in precedenza? C’è la ricerca di un punto di luce, di un riflesso, di un’erba, di un sasso che vediamo lì, ma sappiamo che potrebbe anche essere a casa nostra, mille o duemila chilometri lontano, nel nostro Appennino marchigiano che ci manca, da cui veniamo, che portiamo nel cuore, che ci è così familiare. La familiarità vogliamo trovarla a tutti i costi in questi scorci, per sopravvivere in seno a loro, per non averne paura. L’assenza di familiarità spinge alla ricerca di familiarità.


A cura di Paolo D’Alonzo

 

Non c’è viso che non celi un paesaggio sconosciuto, inesplorato, non c’è paesaggio che non si popoli di un viso amato o sognato, che non sviluppi un viso a venire o già passato (Gilles Deleuze e Félix Guattari).

 
Il problema affrontato da queste immagini è quello del rapporto tra viso e paesaggio. Dunque dal punto di vista dell’analisi si tratterà di comprendere la natura di questo rapporto, considerato così come esso si presenta in queste fotografie.
Cosa abbiamo difatti sotto gli occhi, concretamente? Innanzitutto tre elementi: alcuni ritratti, alcuni paesaggi e un montaggio dei primi con i secondi. In che rapporto si trovano tali elementi? La prima impressione è che essi siano messi in rapporto solo estrinsecamente, ovvero a partire dalla loro eterogeneità. In effetti osserviamo che i ritratti sono realizzati in condizioni artificiali, mentre i paesaggi sono colti nell’assenza totale della figura umana. Inoltre il montaggio dei due si riduce a un semplice accostamento, ovvero alla forma più povera del rapporto, quella che agisce meno profondamente su entrambi i termini, rimanendo loro esterna e indifferente. E in questa indifferenza del rapporto rispetto a ciò che vi è ricompreso viene sottolineata e rafforzata a sua volta l’indifferenza reciproca dei due termini. Si osservi ad esempio come lo sguardo dei soggetti sia rivolto altrove: come innamorati in litigio, viso e paesaggio non si guardano. In un primo momento avremmo quindi due elementi eterogenei, volti senza paesaggi e paesaggi senza volti, e un rapporto debole, estrinseco, tra di essi.
Tuttavia, man mano che l’occhio percorre le immagini, inizia a profilarsi qualcosa come un rapporto intrinseco tra viso e paesaggio. Dal punto di vista tecnico ciò è ottenuto da un lato mediante l’impiego e il montaggio dei dettagli, dall’altro attraverso l’associazione e il contrasto tra i tratti espressivi del viso e quelli del paesaggio, e in particolar modo attraverso la definizione di rapporti cromatici ben determinati. Si produce così un doppio divenire incrociato: il viso diventa paesaggio, il paesaggio diventa viso.
Il viso viene steso come una mappa affinché possa mostrarci la sua orografia organica, che siamo invitati a leggere come si leggono le linee di una mano. Dal di sotto di esso emerge un paesaggio: barba e sopracciglia assumono una consistenza quasi vegetale, di arbusto, la superficie della pelle è accidentata e aggrumata come un suolo terroso, la fantasia del vestito presenta una regolarità di stampo organico.
Inversamente, il paesaggio fissa su di noi il suo sguardo inumano. Così l’hotel inclinato è un bastimento sospeso nel bel mezzo di un rollio immaginario, la luce in fondo al sotterraneo e la vegetazione nel riquadro di cemento si spandono appena poco più in là, quasi a portata di mano, in un’invocazione silenziosa che ricorda il giallo dei limoni montaliani. Il paesaggio è raccolto in una postura sempre peculiare, come fosse teso nello sforzo di realizzare un’impossibile espressività inorganica, un richiamo muto. Proprio il colore qui è il segno di un’apertura, di una fiducia che il mondo stesso ci prega di riporre in lui. Occorre notare che il paesaggio qui non è naturale ma perlopiù urbano, o meglio è una «natura urbana»: non si avverte alcuna nostalgia di un passato idealizzato ma solo il sentore di un potenziale tecnico-umano ancora in attesa di realizzazione.
Da un rapporto estrinseco tra viso e paesaggio, dall’iniziale divorzio dei due elementi, a un rapporto intrinseco in cui la materialità naturale del viso e l’espressività muta del paesaggio si richiamano a vicenda, comunicandosi il bisogno che hanno l’uno dell’altro. Perché così come ciascun viso vagheggia il suo paesaggio, ciascun paesaggio vagheggia il suo viso, c’è una fantasticheria materiale, un desiderio o un appello inorganico attraverso cui la natura reclama una presenza umana come completamento o estensione della sua natura: l’uomo come natura della natura. È questo sentimento di convergenza, questo richiamo reciproco che attesta che l’esilio è terminato, e che il Rinascimento può avere inizio.

A cura di Carlo Branzaglia

 

La ipertrofica produzione di immagini, e, di converso, la rapidità della loro fruizione, non è di per sé fenomeno da bollarsi con apocalittico sdegno, naturale conseguenza come è di una economia culturale pluricentenaria. Piuttosto, esso ha trasformato le dinamiche di attribuzione di senso, spostandole, polverizzandole, nebulizzandole; pur sempre sotto l’egida di una tranquillizzante (quanto fallace) attribuzione perentoria di significato.

La fenomenologia ci aiuta, a ricostruire strutture di significazione nascoste. Ma è una fenomenologia per certi versi casuale: non ci sono declinazioni, ma diffrazioni di senso, sparpagliate in un universo mediale, all’interno delle quali è difficile cogliere nessi probanti.

Quello che sta facendo Marco Bucchieri è proprio questo: ripercorrere questi nessi, mettendo insieme elementi colti in maniera quasi casuale, registrati o ricostruiti con curiosità e stupore, come se si trattasse di situazioni fortuite o ricostruite con una artigianalità certosina e ostinata, che non ama però fissarsi obiettivi predestinati a priori.

Marco lo sta facendo da diverso tempo, mi sembra: magari sotto le mentite spoglie della serialità di stanze d’albergo abbandonate; nel contrasto di un grattacielo su un golfo; nella virulenza cromatica di sfondi che schiacciano i loro soggetti. Per citare qualche serie passata.

Le serie di questa mostra, nella loro differenza percettiva, ripercorrono l’impigliarsi dello sguardo di Marco: in Audience, il trovarsi all’interno di una scena, soggetto fotografico involontario e casuale, porta per contraltare a scorgere nei volti dei ‘fotografi’ , scolpiti in un bianco e nero solo apparentemente anonimo, le vibrazioni di iconografie estratte dalla tradizione delle arti plastiche occidentali.

Le grandi immagini, a colori, sono figlie di un processo apparentemente senza fondo, a partire da figure completamente decontestualizzate dal loro referente. Qui però Marco gioca con la struttura dell’immagine: su di essa il suo sguardo si impiglia, di nuovo, in una serie di riferimenti, ancora apparentemente casuali, con i protagonisti dell’arte contemporanea.

Sono leggere, le foto, prime testimoni della riproducibilità dell’immagine. Sono leggeri, gli sguardi, abituati a percorrere le affollatissime praterie mediali. Ma sotto questa leggerezza, si nascondono filamenti di senso che si colgono solo col gusto dell’ossimoro, della contraddizione in termini, del trucco (inteso anche come trick, ovvero prova di abilità performativa). Mettendo anche da parte la presunzione di potere, come autore, donare il senso a ciò che si propone; anzi, mettendosi dall’altra parte dell’immagine, o nascondendosi gli orizzonti dietro una leggera cortina di veli.

A cura di Giovanna Calvenzi

 

Like a rolling stone

Da Milano, ritratti di fabbriche in poi il lavoro di Gabriele Basilico è un patrimonio collettivo che incontriamo quotidianamente. Rappresenta senza dubbio uno dei fondamenti della nostra cultura visiva e attraversa senza fatica i mondi della fotografia documentaria e di quella “artistica”, dell’architettura, dell’urbanistica, del paesaggio, dell’arte in generale. Quando poi ci si ritrova in consessi maggiormente “addetti ai lavori”, si ricorre volentieri agli indimenticabili dittici con le impronte di sedie (Contact, 1978), che servono a smentire allo stesso tempo il disinteresse di Basilico per la figura umana e per la piccola scala del design. Oppure, più spesso nel mio caso, si recuperano le spettacolari immagini di quella specie di Quinto Stato che è il Parco Lambro (1976), che è un progetto in grado di aiutarci a trovare molte tessere chiave del mosaico basilichiano: la natura politica del suo lavoro, il legame con Milano e la sua cultura artistica, l’attrazione per la plastica dei corpi – qui addirittura in massa – quando diventano essi stessi dispositivi sui quali si riflettono l’immagine e la storia di una città. Questa serie Glasgow. Processo di trasformazione della città invece non si vede mai. Nell’aprire i file ho provato sorpresa e un po’ di vergogna per il fatto di non conoscere (o almeno non ricordare) queste fotografie, di molto precedenti, scattate da un autore appena venticinquenne, immagino ancora molto coinvolto nei suoi studi di architettura. Nelle foto ci sono davvero un sacco di cose: il senso tragico e “di rovina” che ancora permeava le città che avevano subito bombardamenti pesanti durante la seconda guerra mondiale; la disinvoltura mod con la quale gli abitanti più giovani si muovevano con indifferenza tra quelle rovine, calamitati verso un futuro che speravano diverso; la forza delle infrastrutture, discrete nella vecchia versione “rotaia del tram”, per la quale Basilico abbassa il punto di vista quasi a terra, e ben più invasive e arroganti, oscuranti, nel caso dei nuovi viadotti.
Come sarà poi nelle foto del Parco Lambro e in qualche altra occasione, l’autore sembra attribuire un valore particolare alla presenza dei bambini, come fossero attori più naturali e veloci di altri della scena urbana, interpreti perfetti di quella incerta trasformazione cominciata col dopoguerra e ancora in atto che Gabriele si è dedicato a raccontare per tutta la vita. I piccoli abitanti di Glasgow trasformano con indifferenza in spazio da gioco le rovine di un quartiere, la serranda di un negozio atavicamente chiuso, un marciapiede o un viadotto. Sanno by heart che ogni angolo di spazio urbano ha un uso alternativo che loro individuano rapidamente, e sfruttano fino in fondo a fini “sociali”. Già sulla soglia tra architettura e fotografia, Basilico individua il carattere di una città colta “alla sprovvista”, nell’atto di passare dalla prima alla seconda metà del secolo – e quindi da una cultura urbana a un’altra – e la racconta sovrapponendo alla resa sapiente degli spazi e degli edifici la presenza delle persone, che si muovono veloci in uno spazio lento, che abitano già la Glasgow successiva. Siamo in Inghilterra alla fine degli anni ’60, non c’è resistenza al futuro, non c’è nostalgia, e le crepe nella fiducia nella modernità sono ancora visibili a pochi. Tutt’altra cosa rispetto a quello che accade in un lavoro praticamente coevo e legato da mille fili all’opera di Basilico, quello di Paolo Monti su Bologna. Che viene svuotata, allestita, messa in scena, proprio per spettacolarizzare una sfiducia già consolidata nei confronti della cultura spaziale moderna, giudicata inadeguata e incapace di dialogare con il patrimonio storico. Rispetto al quale non si può che adottare un atteggiamento di protezione (“salvaguardia”). Basilico raccoglie l’eredità di Monti e la capovolge completamente, ibridandola con quella dei Becher, dei fotografi americani e francesi, della tradizione pittorica italiana, e trasformandola infine in una macchina per monumentalizzare tutto ciò che monumento non è: le fabbriche milanesi, i paesaggi marginali e incompiuti, I palazzi crivellati di Beirut, le brutte torri di Shangai. Mettendo insieme la sapienza nello scegliere le visioni ravvicinate (i blow up) della trasformazione delle città (in questo caso di Glasgow) e la naturalezza nel ridefinire I criteri estetici dello spazio urbano Basilico ci ha insegnato non solo a comprendere ma a vivere le città del nostro tempo.

 

(Pippo Ciorra, luglio 2013)

 

Glasgow. Processo di trasformazione della città. 1969.

Il 15 giugno 2013, a Parigi, Amos Gitai mi ha mostrato per la prima volta il video che documenta una lunga conversazione, meglio un dialogo, da lui realizzato con Gabriele a Venezia alla fine dell’agosto 2012. A un certo punto Amos gli domanda quando si sia reso conto che la fotografia sarebbe potuta diventare una vera professione e Gabriele risponde raccontando il viaggio a Glasgow. Era il 1969 e Gabriele, ancora studente di architettura, era molto interessato al fenomeno delle “new town”, città di fondazione che stavano nascendo in quegli anni in Gran Bretagna. Avevamo attraversato la Francia dormendo sovente in auto (la 124 di suo padre). Ad Amiens avevo dimenticato tutti i miei soldi in un bagno pubblico così invece di andare in Irlanda, nostra meta iniziale, avevamo optato per le new town e la Scozia. Sulla strada verso Cumbernauld ci siamo fermati alla periferia di Glasgow. Nel film di Amos Gabriele ricorda la sensazione di sofferenza, le case semi abbandonate in attesa di essere demolite, lo strano silenzio, l’assenza di auto e la presenza invece di bambini incuriositi dal nostro arrivo. Gabriele ha fatto una trentina di foto, un rullo 24×36 che porta oggi il numero 61. Abbiamo sviluppato e stampato al nostro ritorno nel piccolo studio che avevamo insieme in via Castelfidardo, a Milano. Nel film (cito a memoria) Gabriele dice: “Le foto dei bambini in particolare hanno attirato la mia attenzione. C’era una relazione forte fra quello che avevo visto e la carta sulla quale le avevo stampate. Era l’esperienza di uno studente che scopriva che la fotografia poteva davvero essere qualcosa di personale”. Non c’è ancora nelle immagini di Glasgow la lucida nitidezza dei suoi lavori futuri ma queste sue prime foto rivelano il suo interesse per il lavoro di Bill Brandt (che in quegli anni gli piaceva molto), un’attenzione partecipe ai fenomeni sociali e la nascente fascinazione per le periferie urbane. L’anno dopo Lanfranco Colombo, che allora dirigeva la Galleria Il Diaframma, in via Brera 10 a Milano, gli ha offerto la possibilità di esporle nello spazio riservato ai giovani fotografi. È stata la sua prima mostra.

 

(Giovanna Calvenzi, 16 giugno 2013)

A cura di Paola Ballesi

 

L’indagine pittorica di Marina Mentoni è una ricerca sulla spazialità, dove però sono saltati tutti i canoni tradizionali, compresa la questione della lateralità e le sue implicazioni sia per il momento creativo che ricettivo. Quello indagato dall’artista è infatti lo spazio dell’astrazione più radicale che annulla ogni forma di rappresentazione e converte la superficie pittorica in una stesura monocromatica. Si tratta dunque di una spazialità neutra, omogenea, infinita e isotropa cioè indifferente alla direzione, ma che si comporta come un vero e proprio campo di energia diffusa, attraversato da vettori dinamici e forze di resistenza che ne compongono, nella loro tensione più o meno armonica, la struttura. Di qui la fitta rete di segni formicolanti che intessono superfici ad elevatissima entropia, ma in realtà il disordine è solo apparente perché ad uno sguardo ravvicinato la texture risulta armonica ed ordinata, avvincente come la cartografia di una galassia che riproduce in tracce infinitesimali l’equilibrio perfetto di miriadi di corpi celesti immersi negli spazi siderali. Quello stesso ordine che governa la stesura del pigmento e la disseminazione delle tracce emerge con forza anche dalla logica compositiva dei dipinti, risolta in installazioni rigorose e fredde che non concedono nulla alla sfera emotiva e richiamano l’attenzione sul serrato colloquio con le coordinate spaziali dei luoghi che le ospitano e la provocazione dell’environment.

E’ raro trovare un esito più coerente della lezione kandinskyana sul rapporto tra forme, colore e suoni come in queste scale cromatiche dove il colore risuona nelle minimali variazioni tonali, pesca nella profondità viscose del pigmento e riemerge in superficie all’incanto della luce. Ma al pari di ogni ricerca ardita e fuori dagli schemi, l’artista vuole evitare l’incuria del pubblico negligente, già denunciata da Mark Rothko nel 1947 sulla rivista “The Tiger’s Eye”: “ Un quadro vive in compagnia , dilatandosi e ravvivandosi nello sguardo di un visitatore sensibile. Muore per la stessa ragione. E’ quindi un gesto arrischiato e spietato mandarlo in giro per il mondo”. Di qui la sua scelta di centellinare le occasioni di esposizione al pubblico dei suoi lavori che se a uno sguardo superficiale appaiono ostinatamente chiusi in un circuito autoreferenziale in realtà si concedono con arrendevole piacere ad interrogazioni penetranti e appassionate.

Le opere di Marina Mentoni, siano esse dipinti su tavola, su tela o su carta, possono dunque diventare molto loquaci e pregne di significato per chi si dispone con umile pazienza a decrittarle. Le sue incomparabili textures, frutto di un sapiente e consolidato mestiere, sono la cifra unica di un percorso di ricerca che si dipana e si perde nell’intrico dei segni distillati secondo l’alfabeto originario e più elementare della linguaggio visivo modulato sul registro della musica puntuale di Stockhausen. Così spazia dal macro al microcosmo, dalle cartografie di immensi e smisurati spazi cosmici alle minimali ed intime geografie dell’anima sempre all’inseguimento di tracce perdute che proietta con la precisione di Mercatore in semplici superfici dove delinea il perimetro e l’area dello ‘sfondo’ sul quale spiccano tutte le volontà di scrittura, quelle stesse rintracciate con la paziente virtù dell’amanuense dal suo maestro e mentore, Magdalo Mussio. Ciò che svela lo sfondo non lascia indifferenti perché porta alla luce un campo mentale e non un fenomeno ottico, un insieme segnato profondamente e in modo indissociabile dalla natura e dallo spirito, dove il vuoto è annullato da tracciati vitali che trasformano lo spazio nel tempo della vita e viceversa.

Dunque l’investigazione di Marina Mentoni affonda nello spazio ma per raggiungere la dimensione del tempo, per analizzare da vicino quelle coordinate che predispongono il terreno fertile ai germogli della vita, alle sue infiorescenze e alla sua morte. Le ultime opere, più calde e delicate, frutto di un lavoro composito di calcografia e intervento pittorico affidato ad impalpabili carte incollate su tela, documentano la dimensione del tempo restituita attimo dopo attimo nello spazio del dipinto in tutta la sua forza e in tutta la sua fragilità. Sono carte, ma anche cartografie di urgenze esistenziali che esplodono in un pulviscolo di luce cosmica per raccontare di possibili vite e anche di ogni anonima esistenza che resta pur sempre nella memoria dell’universo come un punto luminoso, un raggio di luce. Nate come horti conclusi questi lavori finiscono per diventare giardini dell’anima, luoghi di resistenza alle regole del mercato e del consumo dove vengono conservati semi di speranza e coltivate con amorevole cura tutte quelle spinte vitali, spesso neglette e trascurate, che riconciliano l’uomo con se stesso e con il suo mondo.

A cura di Sara Marini

 

Con cento case popolari Fabio Mantovani racconta sette progetti – Rozzol Melara a Trieste, Gallaratese a Milano, Forte Quezzi a Genova, Pilastro+Virgolone e Barca a Bologna, Corviale a Roma, Villaggio Matteotti a Terni – o forse, più precisamente, registra attraverso cento scene come le persone attraversano e vivono oggi architetture costruite per essere pezzi di città.

Cento scatti compongono un affresco atopico e relazionale: la posizione delle fotografie non è tesa a raccontare i singoli luoghi, ma una stagione precisa dell’architettura – in buona parte dettata dal Piano Fanfani del 1949 – apparentemente indifferente alle posizioni geografiche. All’osservatore è chiesto prima di perdersi nella grande scena e di ricomporre solo in un secondo momento, attraverso i singoli frammenti, l’immagine dei quartieri.

Lo sguardo di Mantovani insiste lucidamente, senza indecisioni, sul rapporto tra corpo e spazio: non ci sono protagonisti, ci sono relazioni a distanza. Si tratta di architetture legate da un’idea di città, da una politica, soprattutto da un pensiero moderno comune; e poi ci sono gli ospiti di queste strutture, chi si è trovato per scelta o suo malgrado a viverle ed abitarle. Anche l’affresco dei cento scatti invita alla costituzione di una presenza attiva da parte del visitatore, che non assiste passivamente all’esposizione ma può ritrovare attinenze, ricostruire appartenenze, oppure decidere consapevolmente di accogliere lo spaesamento, la moltiplicazione degli sguardi.

 

 

Ambiguamente un pezzo di città e un’architettura

 

La ricerca cento case popolari di Fabio Mantovani è un viaggio che muterà “contenuto” nel suo farsi: le cento case trovate ora nei sette progetti diventeranno nel tempo ancora cento sguardi ma su un numero sempre maggiore di situazioni, fino a far coincidere un unico scatto con un unico luogo. La possibilità di trovare cento case dentro un numero anche variabile di edifici, tutti appartenenti però al momento in cui le città italiane hanno costruito i propri monumenti all’abitare ensemble, sostiene il valore dello spazio, delle situazioni dell’oggi, oltre la testimonianza storica delle opere raccontate. Fabio Mantovani esplora quella che a distanza di quarant’anni possiamo definire una stagione eroica dell’edilizia pubblica o dell’edilizia per tanti. È possibile affermarlo guardando a quello che in seguito è stato il destino progettuale e costruttivo delle case: se si supera la distinzione tra investimento pubblico e privato, il tema dell’abitare, dopo questa vicenda, ha accolto o la via del buonsenso o quella della speculazione edilizia, perdendo tensione verso la ricerca di un senso, di un sogno, di una visione. Non c’è moralismo però negli scatti: l’architettura è lì a raccontarsi per quello che è oggi, colta nel suo essere nostalgicamente e ambiguamente eroica, nel suo voler essere brano di città. I progetti sono carichi di pensiero, un pensiero introverso, attestato sulle questioni dell’architettura e per questo poco interessato ai luoghi. Un pensiero volto a sancire posizioni che, se lette a posteriori e oltre alcuni distiguo evidenti, fanno di queste esperienze un’unica esperienza protagonista di una storia. Questi progetti testimoniano un’interpretazione del mestiere dell’architetto generosamente teso ad interpretare la città, volonterosamente atto a dettarne le direzioni, a volte dimentico di accogliere complessità e contraddizioni.

 

 

Una pacifica convivenza

 

Se l’architettura è sorpresa nel suo attestare un’assoluta fiducia in se stessa, nelle regole della razionalità, ma anche nella forza dell’invenzione, le persone che commentano la scena normalizzano ogni tensione, argomentano una pacifica convivenza. Oltre le polemiche che hanno reso note queste architetture al grande pubblico come condensatori di problemi sociali – attacchi spesso inconsapevoli del peso che ha la collocazione urbana periferica, la maggior parte di questi manufatti nascevano quali porte della città, o dell’incompletezza dell’opera – Fabio Mantovani ritrova una vita normale costruendo un elogio dell’ordinario capace di addomesticare i cosiddetti edifici-mostri nostrani. La vita scorre tra le pieghe dell’architettura in un copione in cui si intrecciano la storia del progetto e la sua quotidiana occupazione. Gli spazi più metafisici sono accolti quali rifugi per la solitudine, l’intreccio dei percorsi disegna modi d’incedere diversi, gli spazi verdi sembrano riflettere la personalità di chi li cura. Siamo di fronte ad una scoperta: quell’architettura – non tutta sicuramente: fa eccezione ad esempio il Villaggio Matteotti, frutto di un processo di partecipazione efficace – che, nel suo ripetersi su grandi estensioni, voleva tutti uguali, anche perché fondata su un’idea di corpo ideale, astratto, solo da misurare, guardata così si trasforma nella misura della diversità umana. Emergono le diverse sfumature degli abiti, le imprecisioni del corpo, il suo movimento, contrapposti ad architetture fondate sulla ripetizione, sul colore come codice per definire l’uso degli spazi e non come modalità di personalizzazione, sulla regola geometrica figlia degli strumenti della rappresentazione, sulla staticità del segno. Non è possibile parlare di sfondo e figura, non si tratta nemmeno di un set per mettere in mostra i diversi mode d’emploi de la vie come decretava Perec. I cento scatti hanno tutti due protagonisti: l’architettura colta nel suo persistere sia come manufatto sia come pensiero e le persone fissate nell’immagine mentre sono in viaggio, cariche di storia che ne disegna i volti, desiderose di attraversare la scena con le proprie cangianti diversità.

A cura di Roberto Maggiori

 

Le Architetture fotografate da Michele Buda riproducono indifferentemente parti di edifici popolari, rintracciabili nelle periferie urbane o nelle zone industriali, così come costruzioni progettate da grandi architetti, quali ad esempio Mies Van Der Rohe e Alvaro Siza. Lo sguardo di Buda è attratto da tipologie costruttive moderne e essenziali in cui l’angolo retto è il perno, anche metaforico, attorno a cui ruota una concezione spaziale ideale promulgata fin dalle Avanguardie storiche della prima metà del Novecento. In quegli anni, influenzati dal contributo di autori come Mondrian e Malevic e dello stesso Mies van der Rohe, gli artisti “moderni” inaugurarono una lunga stagione fatta di composizioni geometriche tendenti all’astrazione, in cui primeggiavano quadrati, triangoli e cerchi perfetti, metafora della progettazione umana “suprema” in grado di sottomettere definitivamente il caos della natura.

Questa fiducia nel progresso tecnologico e nella struttura essenziale è poi ritornata in voga dopo la parentesi Informale con la Minimal art statunitense degli anni ’60 influenzata non a caso proprio da autori come Mies e altri esponenti del Bauhaus trasferitesi negli USA durante il Nazismo. Ed è proprio da una sintesi tra il Minimalismo e la fotografia di paesaggio che prende corpo il lavoro di Buda.

Dall’esperienza del celeberrimo Viaggio in Italia, l’autore cesenate riprende lo sguardo sul territorio declinato in chiave anti reportagistica: questo tipo di fotografia non intende raccontare storie o far denuncie, quanto proporre un paesaggio che parli anche del punto di vista del fotografo, cosciente del condizionamento che la tradizione visiva che lo ha preceduto esercita su di lui. Uno sguardo apparentemente elementare, ma sostanzialmente colto, fatto di citazioni e attenzione per pochi dettagli, capaci di suggerire una lettura del paesaggio contemporaneo, ma anche dello stesso linguaggio fotografico.

E’ qui che si avverte lo scarto con le avanguardie storiche, più propense a urlare i propri proclami, laddove la nouvelle vague fotografica italiana degli anni ‘80, riprese una tradizione “sussurrata”, iniziata in America da fotografi come Atget, Timothy O’Sullivan, Walker Evans e poi Frank, Friedlander, Egglestone, Shore, Baltz e Robert Adams: autori sottili e sagaci che, come scrive lo stesso Adams, si preoccupavano di non “lasciar trasparire alcuna difficoltà” nell’esecuzione dell’opera.

La declinazione italiana di quest’approccio al paesaggio si è accordata con gli spazi più ristretti del nostro territorio e in particolare con le periferie, dove ritroviamo, secondo Paolo Costantini, “un paesaggio in cui si articolano citazioni, rimandi e riflessi delle cose e delle nostre immagini mentali delle cose, sia un approccio distaccato e minimale che uno sguardo romantico o una fascinazione metafisica.” (L’insistenza dello sguardo, Alinari, 1989). La Metafisica, ecco un altro aspetto tutto italiano che ritroviamo in molta della fotografia paesaggistica di questi autori e negli scenari, quasi sempre disabitati, fotografati da Buda.

La propensione minimalista Buda la deriva anche dal lavoro di Guido Guidi, di cui fu allievo: un’attenzione per gli elementi davvero minimi, quasi evanescenti, caricanta di una struttura formale e geometrica che lo avvicina agli esponenti storici della Minimal Art, ad artisti come Donald Judd e Robert Morris o a un precursore del calibro di Rothko, la cui essenzialità può essere ravvisata nelle fotografie a colori di Buda, tendenti al monocromo.

Questo minimalismo rigoroso, ordinato, teso all’astrazione, nelle fotografie di Buda prende l’aspetto di un impianto grafico essenziale, sobrio ed elegante, che trasforma le brutture del paesaggio urbano contemporaneo in un territorio ideale, derivato ovviamente dallo sguardo dell’autore più che da quello “oggettivo” della macchina fotografica. Luoghi anonimi e banali vengono così monumentalizzati dal linguaggio fotografico che inquadra, isola, astrae e decontestualizza il dettaglio cui dare forma.

Queste composizioni sono caratterizzate inoltre da un elemento pressoché centrale presente in quasi tutte le immagini: che sia una canaletta di scolo o un’ombra, lo spigolo vivo di un palazzo o un elemento colorato stagliato su uno sfondo omogeneo, dalle architetture emerge un centro di gravitazione permanente – direbbe Battiato – attorno cui si costituisce lo spazio organizzato dall’autore, non esente da un certo grado di lirismo.

Se negli anni Venti del Novecento l’angolo retto evocava la fiducia nella razionalità e nel progresso dell’umanità, nelle fotografie di Buda appare spesso associato a strutture logore, arrugginite, spigolose, con simmetrie irreali e di conseguenza inquietanti. Come se al pensiero positivista si fosse sostituita la decadenza attuale, deriva cinica di un razionalismo malsano, asservito esclusivamente alle logiche di profitto delle multinazionali.

Contrariamente alle levigate superfici delle pitture suprematiste, che riverberavano gli echi ideali del mito della civiltà industriale, le fotografie di Buda stigmatizzano la condizione della contemporaneità, sintetizzandola in un presente fatto di edifici fatiscenti e in un passato recente da cui provengono invece le architetture dei grandi maestri.

Esposte nello Spazio Lavì, le une di fronte alle altre, queste fotografie di architetture rappresentano il brutto riscattato dallo sguardo dell’autore e l’essenziale come modello di bellezza. Una dialettica espressa in una forma antiretorica, disillusa nei confronti degli ideali presuntuosi delle avanguardie storiche, ma non completamente sfiduciata nei confronti di un equilibrio possibile.

A cura di Arianna Rinaldo

 

Giovanni Hänninen presenta uno sguardo “sospeso” su Milano. Da sopra le teste delle persone, ma non troppo in alto, guarda una città che cerca di cambiare, ancora una volta. È, infatti, da trenta anni a questa parte che, a Milano, si susseguono cantieri di grandi opere. Giovanni Hänninen ha ritratto alcune di queste costruzioni del passato, rimaste lì incompiute, o abbandonate, a testimoniare una sete di trasformazione mai soddisfatta. Accanto a queste, documenta i cantieri delle nuove grandi opere che dovrebbero trasformare Milano nella sede immaginata a ospitare l’Expo del 2015. Un raffronto e un campanello d’allarme sui cambiamenti della città.

A cura di Piero Orlandi

 

“Che inquietudine se sento, che disagio se penso, che inutilità se voglio!”. Le parole sono di Pessoa, o forse di Tabucchi che le ha scelte tra le migliori del suo amato, ma sono anche del fotografo che guarda, e dunque sente, e pensa su ciò che sente, provando un disagio da cui vuole liberarsi, di lì a poco ricadendovi, più spossato di prima. Questa, secondo Giovanni Zaffagnini, è la condanna del guardare. Qualunque sia la cosa che si guarda, anche – e forse di più – se filtrata attraverso i vetri sporchi delle fermate degli autobus e delle cabine telefoniche (quando ci si andava per telefonare). Stiamo lì, assorti, e tra noi e il mondo c’è un fragile schermo, sul quale però facciamo un grande affidamento: lo schermo ci illude di poter difenderci da ciò che vediamo, dagli effetti del sentire, del sentimento. Un sentimento di sconforto per la bruttezza, l’insignificanza di ciò che ci circonda, che sono poi – la bruttezza, l’insignificanza – una specie di condanna che ci colpisce: di non poter trovare salvezza, speranza, appigli per ripartire. Di essere costretti a navigare a vista in un mare di ovvietà, di sciatteria, come quello che sembra coprire e sommergere sempre di più i nostri paesaggi, soprattutto quelli urbani. Che inquietudine vederli! Anche così annebbiati come appaiono attraverso questi schermi dietro i quali ci troviamo, telefonando, rincasando, attraversando la città, anche così sono brutti, non riescono ad avvicinarsi neanche un po’ alla dimensione del sogno, della leggerezza. Restano incombenti, e per sfuggirli l’occhio mette a fuoco – e la lente fotografica fa la stessa cosa – ciò che sui vetri qualcun altro ha provato a sfogare con frasi, parole, post-it per il fratello che leggerà: appunti, richieste d’aiuto, maledizioni, imprecazioni, sospiri d’amore…

E poi, dice Zaffagnini – ce lo dice con queste foto sempre in bilico tra la disperazione e quell’ironia che funge da estrema possibilità di riscatto – questi schermi polverosi, ingrommati, scaracciati, somigliano così tanto all’effetto reale della combinazione tra retina e cervello che agisce nella nostra fisiologia: la retina, che pensiamo registri tutto, e il cervello, che crediamo decodifichi, alla ricerca di una verità oggettiva, una verità dove bianco è bianco, sopra è sopra, davanti è il contrario di dietro, e così via. Fortunatamente ci capita di crederci, attimo dopo attimo. E’ una fortuna, perché solo così ci è concesso di sopravvivere. Anche se non è vero. Anche se i punti di vista, i sentimenti, i condizionamenti agiscono attimo dopo attimo per deformare quella idea, quella speranza di verità che sempre si distrugge e che sempre proviamo a ricomporre, pezzo dopo pezzo, e di nuovo sempre ci sfuggirà di nuovo, e non è crto colpa della nebbiolina di quei vetri sporchi. Che semmai sono una metafora di ciò che ci accade nel quotidiano.

A cura di Alice Rubini

 

Spesso è solo un dettaglio, o la luce di un luogo con le sue gradazioni, che riescono a magnetizzare la forza di un’emozione e di uno sguardo, a rendercelo in una dimensione che appartiene soltanto a noi stessi, che ci riporta a un tempo diverso, più nostro e indefinibile, un po’ lontano, popolato di ricordi nutriti da una tenera nostalgia. Non sempre legato a un evento ma piuttosto a un momento, a un sentimento, a una percezione che riemerge dal mare quotidiano che mescola e confonde ogni cosa.
E così il tempo reale, quello fissato dallo scatto fotografico di Betty Zanelli, conquista il delicato abbandono ad un gesto di seduzione, in proiezione di qualcosa di incredibile, di emozionale, di profondo, con quella concretezza che appartiene alla percezione delle cose attraverso le più semplici sensazioni umane.
Trovo silenzio e musica, che si alternano in modo quasi conflittuale, ad avvolgere queste immagini, così vivide e intense, che saturano la superficie delle opere. Trovo lo splendore dei colori e la solitudine degli spazi che contraddicono la memoria semplice a cui, di slancio, mi riconducono. Trovo il presente, il passato e un tempo astratto, e mi riconosco in questa eclettica dimensione.
In fondo, è come se quelle sagome ferme ritrovassero il loro movimento nel nostro sguardo, e lì intuisco la gioia del gioco e la dolcezza di averlo dovuto lasciare, ancora con il sorriso sulle labbra, ancora con la voglia di rimanere. Frementi a partire, s’iniziava a muoversi e il desiderio di scendere non arrivava mai, e seppur appagati, questa delusa aspirazione ci accompagnava fino a casa.
C’è qualcosa di assoluto e sorprendente nelle giostre, anche quando rimaniamo lì fermi a guardarle girare, anche quando la musica finisce e qualche piccola voce implora di rimanere ancora. C’è qualcosa di assoluto nel lavoro di Betty Zanelli, nella sua necessità di chiarezza, senza sovrastrutture e senza artifici, nella sua necessità di candore e di purezza di stile, attuato attraverso un lungo percorso di ricerca di luoghi, di sfumature, di circostanze e di atmosfere, e mediato da un’intensità sentimentale, voluta, sentita, vissuta.
Riconosco in lei la capacità di trovare ed esaltare luminose atmosfere e perfette inquadrature, di fissare l’estasi e l’incanto di quei toni e quei riflessi che la sera accendono il cielo, e di sintetizzare quella moltitudine di tante cose che ci inebriava di un divertimento semplice. Una visione d’insieme che rievoca rumori sovrapposti che riempiono la testa e profumi di cose dolci, accattivanti che saturano l’aria e riportano a quel luogo e a quegli oggetti così strani e particolari che hanno dato un passaggio alla nostra infanzia.
Un salto indietro nel tempo che ci affascina ancora, per quell’emozione forte e quella spensieratezza che ci ha attirato e a volte fatto battere il cuore all’impazzata. Sì, lì, davanti a quel castello fantastico, pieno di cavalli e di carrozze e di tanti animali, ci ricordiamo di aver anche scoperto l’angoscia dell’abbandono che inseguiva la felicità di ritrovarsi. Quel girare in tondo aveva in sé un tempo eterno, sconfinato, interminabile, in cui cercare la nostra certezza, il nostro sicuro riferimento, lo sguardo e il saluto di chi ci ha accompagnato che sembrava andasse via per sempre, però poi tornava e il piacere era ancor più intenso perché, dopo un altro giro, l’avremmo ritrovato ancora.
Colgo tutto questo nelle opere di Betty, mi piace questa sovrapposizione di sentimenti che riaffiorano, questa tenerezza e quest’inquietudine latente che procedono nella stessa direzione, anzi, che fanno insieme lo stesso “giro”, trasformando le inquadrature in sottile evocazione. Così come mi piace scoprire, tra i chiaroscuri delle immagini, una serie infinita di rimandi narrativi, letterari e filmici, che si susseguono come frammenti che appartengono ad un universo diverso, come anche leggere tra i titoli delle opere una particolare attenzione alla musicalità, a filastrocche e canzoni dedicate all’infanzia.
La sua irrinunciabile precisione, questa particolare attenzione, questo colmarci d’informazioni, rimangono comunque elementi discreti che fanno parte di un equilibrio estetico e linguistico che aspira a un sentimento positivo. Sono figurazioni che richiedono la nostra resa, la nostra capacità di ritrovare in noi uno sguardo innocente e di condurlo a una lettura poetica e divertita, rincorsa sulla scia delle emozioni.
Ed un particolare esiste con la sua assenza: in queste scene, in questi scatti, in questo rincorrersi di suggestioni, non troviamo anima viva. Non abbiamo indizi, dimensioni, sguardi ed espressioni che vengano rivolti dalla nostra parte, questo vuoto umano è lì e toglie ancor più tempo al tempo, sottrae dimensione e profondità allo spazio, ruba voce ai mormorii in sottofondo. E ci disorienta l’indefinibile spontaneità con cui, comunque, tutto questo noi lo percepiamo.
Ogni scatto è come la pagina di un libro o il fotogramma di una pellicola, con un’interpretazione dominante ed essenziale dettata dalle tematiche soggettive, ed una universale, densa delle sfumature che ognuno vuole trovare. E comunque rimane sempre realtà autentica, elemento fondamentale, oggettiva e soggettiva insieme, assolutamente senza artifici, a dare forma all’incantesimo che dimora oltre il vero, oltre la sua stessa essenza.
Una realtà volutamente stemperata sulla superficie della tela scelta come supporto fotografico per non disperdere la formazione e le origini creative di Betty Zanelli, e, particolarmente, per esaltare la pittoricità dell’immagine, definendo una percezione di dissolvenza dei margini della figurazione, mescolando le ombre e i chiaroscuri ed accentuando ancor più l’atemporalità dell’evento. Questa sua determinazione e soluzione formale rendono quindi l’opera e il concetto ancor più sensibili. Il suo procedere è ineluttabilmente rivolto alla conquista della coscienza e dell’emotività di noi osservatori, con garbata energia e con reverente provocazione.