Cento case popolari

Fabio Mantovani

dal 27 marzo all’1 aprile 2013

Spazio Lavì! – Sarnano

A cura di Sara Marini

 

Con cento case popolari Fabio Mantovani racconta sette progetti – Rozzol Melara a Trieste, Gallaratese a Milano, Forte Quezzi a Genova, Pilastro+Virgolone e Barca a Bologna, Corviale a Roma, Villaggio Matteotti a Terni – o forse, più precisamente, registra attraverso cento scene come le persone attraversano e vivono oggi architetture costruite per essere pezzi di città.

Cento scatti compongono un affresco atopico e relazionale: la posizione delle fotografie non è tesa a raccontare i singoli luoghi, ma una stagione precisa dell’architettura – in buona parte dettata dal Piano Fanfani del 1949 – apparentemente indifferente alle posizioni geografiche. All’osservatore è chiesto prima di perdersi nella grande scena e di ricomporre solo in un secondo momento, attraverso i singoli frammenti, l’immagine dei quartieri.

Lo sguardo di Mantovani insiste lucidamente, senza indecisioni, sul rapporto tra corpo e spazio: non ci sono protagonisti, ci sono relazioni a distanza. Si tratta di architetture legate da un’idea di città, da una politica, soprattutto da un pensiero moderno comune; e poi ci sono gli ospiti di queste strutture, chi si è trovato per scelta o suo malgrado a viverle ed abitarle. Anche l’affresco dei cento scatti invita alla costituzione di una presenza attiva da parte del visitatore, che non assiste passivamente all’esposizione ma può ritrovare attinenze, ricostruire appartenenze, oppure decidere consapevolmente di accogliere lo spaesamento, la moltiplicazione degli sguardi.

 

 

Ambiguamente un pezzo di città e un’architettura

 

La ricerca cento case popolari di Fabio Mantovani è un viaggio che muterà “contenuto” nel suo farsi: le cento case trovate ora nei sette progetti diventeranno nel tempo ancora cento sguardi ma su un numero sempre maggiore di situazioni, fino a far coincidere un unico scatto con un unico luogo. La possibilità di trovare cento case dentro un numero anche variabile di edifici, tutti appartenenti però al momento in cui le città italiane hanno costruito i propri monumenti all’abitare ensemble, sostiene il valore dello spazio, delle situazioni dell’oggi, oltre la testimonianza storica delle opere raccontate. Fabio Mantovani esplora quella che a distanza di quarant’anni possiamo definire una stagione eroica dell’edilizia pubblica o dell’edilizia per tanti. È possibile affermarlo guardando a quello che in seguito è stato il destino progettuale e costruttivo delle case: se si supera la distinzione tra investimento pubblico e privato, il tema dell’abitare, dopo questa vicenda, ha accolto o la via del buonsenso o quella della speculazione edilizia, perdendo tensione verso la ricerca di un senso, di un sogno, di una visione. Non c’è moralismo però negli scatti: l’architettura è lì a raccontarsi per quello che è oggi, colta nel suo essere nostalgicamente e ambiguamente eroica, nel suo voler essere brano di città. I progetti sono carichi di pensiero, un pensiero introverso, attestato sulle questioni dell’architettura e per questo poco interessato ai luoghi. Un pensiero volto a sancire posizioni che, se lette a posteriori e oltre alcuni distiguo evidenti, fanno di queste esperienze un’unica esperienza protagonista di una storia. Questi progetti testimoniano un’interpretazione del mestiere dell’architetto generosamente teso ad interpretare la città, volonterosamente atto a dettarne le direzioni, a volte dimentico di accogliere complessità e contraddizioni.

 

 

Una pacifica convivenza

 

Se l’architettura è sorpresa nel suo attestare un’assoluta fiducia in se stessa, nelle regole della razionalità, ma anche nella forza dell’invenzione, le persone che commentano la scena normalizzano ogni tensione, argomentano una pacifica convivenza. Oltre le polemiche che hanno reso note queste architetture al grande pubblico come condensatori di problemi sociali – attacchi spesso inconsapevoli del peso che ha la collocazione urbana periferica, la maggior parte di questi manufatti nascevano quali porte della città, o dell’incompletezza dell’opera – Fabio Mantovani ritrova una vita normale costruendo un elogio dell’ordinario capace di addomesticare i cosiddetti edifici-mostri nostrani. La vita scorre tra le pieghe dell’architettura in un copione in cui si intrecciano la storia del progetto e la sua quotidiana occupazione. Gli spazi più metafisici sono accolti quali rifugi per la solitudine, l’intreccio dei percorsi disegna modi d’incedere diversi, gli spazi verdi sembrano riflettere la personalità di chi li cura. Siamo di fronte ad una scoperta: quell’architettura – non tutta sicuramente: fa eccezione ad esempio il Villaggio Matteotti, frutto di un processo di partecipazione efficace – che, nel suo ripetersi su grandi estensioni, voleva tutti uguali, anche perché fondata su un’idea di corpo ideale, astratto, solo da misurare, guardata così si trasforma nella misura della diversità umana. Emergono le diverse sfumature degli abiti, le imprecisioni del corpo, il suo movimento, contrapposti ad architetture fondate sulla ripetizione, sul colore come codice per definire l’uso degli spazi e non come modalità di personalizzazione, sulla regola geometrica figlia degli strumenti della rappresentazione, sulla staticità del segno. Non è possibile parlare di sfondo e figura, non si tratta nemmeno di un set per mettere in mostra i diversi mode d’emploi de la vie come decretava Perec. I cento scatti hanno tutti due protagonisti: l’architettura colta nel suo persistere sia come manufatto sia come pensiero e le persone fissate nell’immagine mentre sono in viaggio, cariche di storia che ne disegna i volti, desiderose di attraversare la scena con le proprie cangianti diversità.