familiare

Elena Giustozzi

dal 23 maggio al 2 giugno 2014

Spazio Lavì! – Sarnano

A cura di Piero Orlandi

 

1
Queste non sono foto di viaggio. Le foto di viaggio cercano di interpretare i luoghi, esplorandone la diversità, l’eccezionalità. Qui sembra piuttosto che siano i luoghi a esplorare la persona che li attraversa, riflettendone lo sguardo carico di interrogativi, perfino di apprensione.

 

2
Elena è una pittrice che spesso ha usato la fotografia di archivio, traendone degli appunti, degli spunti per la sua pittura. In questo caso invece non usa le fotografie che produce, ma si esprime direttamente con esse. Non fa ciò che fecero l’urbanista Gordon Cullen o lo storico dell’arte Federico Zeri, che relegarono la fotografia in un ruolo ancillare delle loro proprie discipline, sfruttandola come strumento, di riproduzione delle pitture in un caso, di sfondo per gli schizzi urbanistici nell’altro. Elena transita dalla pittura alla fotografia, entra nel campo della fotografia cercando di avere da lei qualcosa di diverso da ciò che le dà la pittura.

 

3
Prima di essere una pittura, quel paesaggio c’è, è là, aspetta di essere ritratto. Nel caso delle fotografie, di queste fotografie, il paesaggio non aspetta, è subito ritratto, è subito qui, dentro il nostro occhio-pancia che è la macchina fotografica. E’ già entrato in noi prima che lo vedessimo davvero, prima che ne avessimo il tempo. E adesso lo guardiamo in fotografia, è adesso che lo guardiamo veramente. O meglio, è lui che ci guarda, che sente il nostro umore, la nostra temperatura emotiva, e la modifica, la trasforma in un’altra, diversa da quando gli eravamo davanti e lo fotografavamo.

 

4
A volte è a fuoco il vetro del bus, a volte è a fuoco il paesaggio lontano, l’orizzonte, a volte quello vicino, lungo la strada. A volte è in movimento, a volte fermo. Il paesaggio che sfreccia è il contrario della veduta e del paesaggio incorniciato caro ai giardini cinesi. Là ci sono valori fissi, qui valori mobili, effimeri, transeunti, instabili.

 

5
Vediamo luoghi brumosi, un po’ inospitali, poco densamente popolati, luoghi in un lembo imprecisato della Turchia. C’è poco compiacimento estetico, gli antecedenti di ciò che Elena ci mostra non sono nella letteratura, nell’arte, ma nella geografia, nella politica, nell’antropologia, nella storia. Non posso porre le vedute di Vermeer come antenati di questi paesaggi, né i le prose d’arte dei grandi viaggiatori da Goethe a Stendhal a Piovene; posso invece trovare la stessa necessità di indicare che sta in una carta geografica, la stessa necessità di informare che sta in un manuale di storia: questo luogo è così perché non è mai stato abitato e le ragioni sono queste, gli uomini che lo popolano saltuariamente vivono in questo modo, hanno questi caratteri.

 

6
Elena ha voluto intitolare “familiare” questo lavoro. Perché? Cosa c’è di familiare in un viaggio in Turchia per chi – come lei – non c’è mai stato in precedenza? C’è la ricerca di un punto di luce, di un riflesso, di un’erba, di un sasso che vediamo lì, ma sappiamo che potrebbe anche essere a casa nostra, mille o duemila chilometri lontano, nel nostro Appennino marchigiano che ci manca, da cui veniamo, che portiamo nel cuore, che ci è così familiare. La familiarità vogliamo trovarla a tutti i costi in questi scorci, per sopravvivere in seno a loro, per non averne paura. L’assenza di familiarità spinge alla ricerca di familiarità.