Rinascimento

Matilde Piazzi

dal 30 dicembre al 9 gennaio 2014

Spazio Lavì! – Sarnano


A cura di Paolo D’Alonzo

 

Non c’è viso che non celi un paesaggio sconosciuto, inesplorato, non c’è paesaggio che non si popoli di un viso amato o sognato, che non sviluppi un viso a venire o già passato (Gilles Deleuze e Félix Guattari).

 
Il problema affrontato da queste immagini è quello del rapporto tra viso e paesaggio. Dunque dal punto di vista dell’analisi si tratterà di comprendere la natura di questo rapporto, considerato così come esso si presenta in queste fotografie.
Cosa abbiamo difatti sotto gli occhi, concretamente? Innanzitutto tre elementi: alcuni ritratti, alcuni paesaggi e un montaggio dei primi con i secondi. In che rapporto si trovano tali elementi? La prima impressione è che essi siano messi in rapporto solo estrinsecamente, ovvero a partire dalla loro eterogeneità. In effetti osserviamo che i ritratti sono realizzati in condizioni artificiali, mentre i paesaggi sono colti nell’assenza totale della figura umana. Inoltre il montaggio dei due si riduce a un semplice accostamento, ovvero alla forma più povera del rapporto, quella che agisce meno profondamente su entrambi i termini, rimanendo loro esterna e indifferente. E in questa indifferenza del rapporto rispetto a ciò che vi è ricompreso viene sottolineata e rafforzata a sua volta l’indifferenza reciproca dei due termini. Si osservi ad esempio come lo sguardo dei soggetti sia rivolto altrove: come innamorati in litigio, viso e paesaggio non si guardano. In un primo momento avremmo quindi due elementi eterogenei, volti senza paesaggi e paesaggi senza volti, e un rapporto debole, estrinseco, tra di essi.
Tuttavia, man mano che l’occhio percorre le immagini, inizia a profilarsi qualcosa come un rapporto intrinseco tra viso e paesaggio. Dal punto di vista tecnico ciò è ottenuto da un lato mediante l’impiego e il montaggio dei dettagli, dall’altro attraverso l’associazione e il contrasto tra i tratti espressivi del viso e quelli del paesaggio, e in particolar modo attraverso la definizione di rapporti cromatici ben determinati. Si produce così un doppio divenire incrociato: il viso diventa paesaggio, il paesaggio diventa viso.
Il viso viene steso come una mappa affinché possa mostrarci la sua orografia organica, che siamo invitati a leggere come si leggono le linee di una mano. Dal di sotto di esso emerge un paesaggio: barba e sopracciglia assumono una consistenza quasi vegetale, di arbusto, la superficie della pelle è accidentata e aggrumata come un suolo terroso, la fantasia del vestito presenta una regolarità di stampo organico.
Inversamente, il paesaggio fissa su di noi il suo sguardo inumano. Così l’hotel inclinato è un bastimento sospeso nel bel mezzo di un rollio immaginario, la luce in fondo al sotterraneo e la vegetazione nel riquadro di cemento si spandono appena poco più in là, quasi a portata di mano, in un’invocazione silenziosa che ricorda il giallo dei limoni montaliani. Il paesaggio è raccolto in una postura sempre peculiare, come fosse teso nello sforzo di realizzare un’impossibile espressività inorganica, un richiamo muto. Proprio il colore qui è il segno di un’apertura, di una fiducia che il mondo stesso ci prega di riporre in lui. Occorre notare che il paesaggio qui non è naturale ma perlopiù urbano, o meglio è una «natura urbana»: non si avverte alcuna nostalgia di un passato idealizzato ma solo il sentore di un potenziale tecnico-umano ancora in attesa di realizzazione.
Da un rapporto estrinseco tra viso e paesaggio, dall’iniziale divorzio dei due elementi, a un rapporto intrinseco in cui la materialità naturale del viso e l’espressività muta del paesaggio si richiamano a vicenda, comunicandosi il bisogno che hanno l’uno dell’altro. Perché così come ciascun viso vagheggia il suo paesaggio, ciascun paesaggio vagheggia il suo viso, c’è una fantasticheria materiale, un desiderio o un appello inorganico attraverso cui la natura reclama una presenza umana come completamento o estensione della sua natura: l’uomo come natura della natura. È questo sentimento di convergenza, questo richiamo reciproco che attesta che l’esilio è terminato, e che il Rinascimento può avere inizio.