Sip e BUS

Giovanni Zaffagnini

dall’ 8 al 12 agosto 2012

Spazio Lavì! – Sarnano

A cura di Piero Orlandi

 

“Che inquietudine se sento, che disagio se penso, che inutilità se voglio!”. Le parole sono di Pessoa, o forse di Tabucchi che le ha scelte tra le migliori del suo amato, ma sono anche del fotografo che guarda, e dunque sente, e pensa su ciò che sente, provando un disagio da cui vuole liberarsi, di lì a poco ricadendovi, più spossato di prima. Questa, secondo Giovanni Zaffagnini, è la condanna del guardare. Qualunque sia la cosa che si guarda, anche – e forse di più – se filtrata attraverso i vetri sporchi delle fermate degli autobus e delle cabine telefoniche (quando ci si andava per telefonare). Stiamo lì, assorti, e tra noi e il mondo c’è un fragile schermo, sul quale però facciamo un grande affidamento: lo schermo ci illude di poter difenderci da ciò che vediamo, dagli effetti del sentire, del sentimento. Un sentimento di sconforto per la bruttezza, l’insignificanza di ciò che ci circonda, che sono poi – la bruttezza, l’insignificanza – una specie di condanna che ci colpisce: di non poter trovare salvezza, speranza, appigli per ripartire. Di essere costretti a navigare a vista in un mare di ovvietà, di sciatteria, come quello che sembra coprire e sommergere sempre di più i nostri paesaggi, soprattutto quelli urbani. Che inquietudine vederli! Anche così annebbiati come appaiono attraverso questi schermi dietro i quali ci troviamo, telefonando, rincasando, attraversando la città, anche così sono brutti, non riescono ad avvicinarsi neanche un po’ alla dimensione del sogno, della leggerezza. Restano incombenti, e per sfuggirli l’occhio mette a fuoco – e la lente fotografica fa la stessa cosa – ciò che sui vetri qualcun altro ha provato a sfogare con frasi, parole, post-it per il fratello che leggerà: appunti, richieste d’aiuto, maledizioni, imprecazioni, sospiri d’amore…

E poi, dice Zaffagnini – ce lo dice con queste foto sempre in bilico tra la disperazione e quell’ironia che funge da estrema possibilità di riscatto – questi schermi polverosi, ingrommati, scaracciati, somigliano così tanto all’effetto reale della combinazione tra retina e cervello che agisce nella nostra fisiologia: la retina, che pensiamo registri tutto, e il cervello, che crediamo decodifichi, alla ricerca di una verità oggettiva, una verità dove bianco è bianco, sopra è sopra, davanti è il contrario di dietro, e così via. Fortunatamente ci capita di crederci, attimo dopo attimo. E’ una fortuna, perché solo così ci è concesso di sopravvivere. Anche se non è vero. Anche se i punti di vista, i sentimenti, i condizionamenti agiscono attimo dopo attimo per deformare quella idea, quella speranza di verità che sempre si distrugge e che sempre proviamo a ricomporre, pezzo dopo pezzo, e di nuovo sempre ci sfuggirà di nuovo, e non è crto colpa della nebbiolina di quei vetri sporchi. Che semmai sono una metafora di ciò che ci accade nel quotidiano.