Gaia Volonterio è nata e cresciuta in Italia. Attualmente vive nella Svizzera italiana, dove si occupa sia di pittura che di architettura. La sua formazione artistica si è svolta prima ad Arezzo, poi presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Le sue opere sono state esposte in spazi privati in Italia e Svizzera.

A cura di Pippo Ciorra

Nella storia dell’arte l’autoritratto è un esercizio nobile e intenso. Nel corso dei secoli lo hanno praticato con passione e severità pittori talmente importanti che si esita a evocarne il nome, ma anche scultori, fotografi, artisti astratti, perfino architetti (Carlo Aymonino era tra i patiti del genere) o musicisti (la Terza di Beethoven come autoritratto). “L’autoritratto – afferma Volonterio – è un pozzo profondo”. Oltre a una forma di introspezione e di riflessione sul senso e le tecniche della rappresentazione – basta pensare a Piet Mondrian – l’autoritratto è un motore di ricerca a intensità crescente: da sempre la possibilità di avere a disposizione un modello a buon mercato, un esperimento facilmente ripetibile, infine una scelta efficace per costruire un livello ulteriore di rapporto tra l’opera e l’autore e il mondo. Vale per Raffaello, che si inserisce come “comparsa” nella Scuola di Atene, per gli autoritratti performativi di Claude Cahun (forse un precedente interessante per Volonterio), come per per Cindy Sherman, che invece fa del proprio ritratto un dispositivo concettuale ossessivo. Di recente alcuni architetti particolarmente eco-sensibili fanno circolare il loro termo-autoritratto, una scansione termografica che mette in evidenza le zone calde e fredde del loro corpo (probabilmente in vista di un’azione di riscaldamento mirato). Nel caso di Gaia Volonterio, anche lei non estranea a conoscenze di architettura alla scala dell’intérieur, l’autoritratto sembra essere uno di quei punti di riferimento ai quali alcuni artisti amano tornare ripetutamente lungo il loro percorso, come una specie di termometro del rapporto con il proprio lavoro (e ovviamente con sé stessi). Non è un caso quindi se per la mostra Her Self Gaia Volonterio abbia scelto di tornare ed espandere quest’area specifica della sua ricerca sul corpo e sul ritratto, arricchendo notevolmente la sua già cospicua collezione di autoritratti. Lo spazio ridotto della galleria, la sua propensione all’intimità spaziale, la consapevolezza di presentarsi a un pubblico nuovo sono condizioni importanti. Da un lato esprimono bene quella concitazione interiore che si scatena quando dobbiamo auto-rappresentarci; dall’altro fanno sì che la potenza introspettiva del “ritratto di sé” appaia come un dispositivo immediato e ad alta intensità per trasmettere le idee di Volonterio sulla pittura e sull’arte in generale. Attraverso l’autoritratto si risale a opere di varie fasi del percorso della giovane artista, nel quale la propria immagine sembra essere il terminale dialettico del rapporto con la propria storia, lo spazio, il paesaggio. La galleria bolognese sembra lo spazio ideale per questo approccio, un luogo dove le opere si guardano da vicino, in cui tecnica e dimensioni hanno un’importanza speciale, in cui il viso del visitatore si avvicinerà pericolosamente alla superficie dipinta o disegnata.

Raramente i dipinti di Gaia, perché di dipinti in genere si tratta, hanno un contesto. Il close-up sul viso è assoluto e si con-fonde con toni e sfondo che ricordano la pittura barocca. Quando lo sguardo si allarga è per proiettarci immediatamente all’esterno, nel paesaggio reale o in quello della memoria. Questo è di certo uno dei caratteri più evidenti dei suoi lavori, la capacità di connettere il paesaggio interno e quello esterno, generare inquietudine nell’avvicinarsi al soggetto, allargare il respiro quando l’occhio si allontana e guarda anche all’esterno, nei luoghi o nei ricordi.

Una buona parte del lavoro di Volonterio, come si è detto, è opera di pittura, a olio: “La pittura ad olio mi permette di lavorare a più riprese. È plasticità, è materia mobile e forse da la possibilità proprio di rappresentare quella figura che non si può fermare”. Alla base, osservando l’insieme dei suoi lavori, emerge anche un interesse forte per il disegno, essenziale nella comprensione/rappresentazione dei paesaggi interiori ed esteriori. Insomma, il suo tracciato di crescita è ampio e pieno di possibilità, grazie alla sensibilità e al talento cristallino che emergono già in questi lavori. Personalmente, dato che in fondo al mio petto batte un cuore da architetto, non succede spesso che mi avvicini a una forma così legittima di pittura. La natura processuale e installativa rende alcuni lavori più accessibili alla mia anima semplice di appassionato di progetti. La natura grafica ne avvicina altri in maniera ancora più ovvia alla sensibilità di chi deve occuparsi a tempo pieno di rappresentazione. Ma i lavori di Volonterio perforano senza fatica queste barriere culturali e disciplinari. Non appartengono all’ennesimo ritorno della pittura (tutti gli artisti sono pittori, diceva Kounellis) o a un rinnovato bisogno di figuratività. Non rientrano insomma, nell’alternanza dei gusti. Trasudano invece significati intimi e collettivi, si nutrono direttamente della forza del loro oggetto, del cortocircuito scatenato all’interno del triangolo magico tra soggetto, autore e medium utilizzato. La ricerca di Gaia si muove così come un pendolo tra i due estremi della figurazione, il ritratto e il paesaggio, il realismo e la sua dissoluzione vagamente onirica, o nella memoria. Sia la rappresentazione del paesaggio che quella della figura umana avvengono sempre attraverso una visione filtrata e imprecisa, che ribadisce la presenza dell’occhio dell’artista e della sua consapevolezza tecnica, concettuale e introspettiva. Soprattutto quella del volto, è una meta-rappresentazione, nella quale i soggetti arrivano alla tela non direttamente dalla realtà, ma attraverso l’intermediazione di una fotografia, uno specchio, una pagina di libro o di giornale, un sogno o un ricordo.

Chiudo confessando l’impazienza di vedere la mostra allestita nello spazio piccolo e compatto di Lavì! City, con i molti volti di Gaia Volonterio che assediano i visitatori e danno loro l’impressione di essere entrati in un caleidoscopio che riflette la loro immagine e la distorce in cento modi diversi. Confido, e aspetto conferma, che si tratti di una di quelle situazioni ideali nelle quali l’opera, o meglio l’insieme delle opere, coincide con l’allestimento, un luogo ideale nel quale lo sguardo dell’autore (o i suoi cento sguardi) si confonde con quello di chi guarda, come in un approccio low-tech all’interattività.