Roberta Zucchini è nata a Bologna, dove vive e lavora.
Nel 1987 consegue una Laurea in D.A.M.S. – Arte, Università di Bologna e, dopo aver lavorato per anni nell’ambito del restauro e della conservazione dei beni artistici, inizia ad occuparsi di arti visive. Nel 2020 si diploma in Pittura-Arti Visive, Accademia di Belle Arti di Bologna.

Ha partecipato alle seguenti mostre:

  • marzo 2006, Bambolse: l’arte di abbellire i muri, Sala Museale del Baraccano, Bologna
  • marzo 2013, La Certosa con gli occhi di Dickens, mostra collettiva, Associazione Amici della Certosa, Bologna, Palazzo d’Accursio, Sala d’Ercole
  • dicembre 2014, Arte a Palazzo, mostra collettiva, Galleria Farini Concept, Bologna, Palazzo Fantuzzi
  • maggio 2015, Ferrara Festival, Diari di Viaggio, 3° Edizione, mostra collettiva, Associazione Autori di Diari di Viaggio, Ferrara, Palazzo della Rocchetta
  • aprile-settembre 2016, Esther e le altre, Bologna, Libreria Trame
  • gennaio-febbraio 2017, Still leben, Bologna, Libri Liberi
  • giugno 2017, Open Tour 2017, Accademia di Belle Arti, Bologna
  • giugno 2018, Open Tour 2018: Ai piani intimi(a cura di Luca Caccioni e Irene Fenara), Lavì! City, Bologna
  • agosto 2018, Ai piani intimi (a cura di Luca Caccioni e Irene Fenara), Spazio Lavì!, Sarnano (MC)
  • giugno 2019, Geografie della Memoria (a cura di Katia Baraldi), Istituto Parri-Museo della Resistenza, Bologna

Presentazione di Valeria P. Babini

 

Ho sempre pensato che la memoria di chi tesse o cuce i suoi ricordi, tutti i ricordi, anche le parole che ci hanno attraversato, le frasi che scrittori e poeti hanno lasciato nei nostri cuori, le sensazioni, sì nostre, ma che inspiegabilmente si sono accompagnate da sé, mano nella mano, a un’immagine, a una fotografia, a una parola, ma anche a un filo rosso per il cucito, o ad esempio a un rocchetto, ho sempre pensato che la memoria di chi intende in qualche modo fermarla o esprimerla o esporla, come fa con grande delicatezza Roberta Zucchini nelle sue sette stazioni e nei suoi quindici ex-voto, quella memoria porti con sé, più ancora che un carico di contenuti di cui sembrerebbe voler lasciare traccia, la ragione profonda del suo senso.

A cosa serve la memoria? Le risposte posso essere e sono state molte; e si potrebbe anche dire che la domanda è capziosa. Tuttavia, lo sappiamo tutti, c’è una memoria che, ritrovata, ci è ritornata dentro, grazie al desiderio, prima ancora che alla volontà che ben presto a quel desiderio si asservisce. È il desiderio di trattenere ciò che non vogliamo lasciare andare: e a tenerlo in serbo è proprio lei, è la memoria che non serve, se non a ridare spazio e respiro all’essere che ci anima e attraversa il nostro vivere. Ecco perché Roberta Zucchini tanto si preoccupa che chi guarderà i suoi manufatti non si limiti ad attribuire loro un significato squisitamente autobiografico. Credo abbia ragione: perché anche quando il ricordo parte da noi, dai nostri vissuti famigliari, dalle nostre radici, culturali, collettive, è l’atto della memoria a caricarli di un senso capace di coinvolgere emotivamente e suscitare un sentimento di condivisione. È ciò che Roberta, con le sue opere, riesce a evocare in noi.

Quando sono entrata nella sala espositiva per fare la conoscenza del suo lavoro, ho avvertito da subito un’emozione carica di rispetto: come entrassi in un tempio, nell’anima di una vita, ma meglio sarebbe dire nel cuore della vita: perché una vita non è mai qualcosa di solamente personale e autobiografico, perché porta in sé quell’alito umano a cui tutti sentiamo di appartenere, anche se non tutti riusciamo a restituirlo o esprimerlo, come fa Roberta, con il suo prezioso lavoro di composizione artistica, dove ciò che più domina è proprio il sentimento del rispetto, e l’amore che senza di quello non è amore. Così, a scorrere davanti ai nostri occhi di spettatori è l’amore per le cose che dalla vita sono state toccate o attraversate: che siano abiti, persone, immagini, materiali, stoffe, fili, o semplicemente “ciò che resta degli strumenti di lavoro di una sarta”. È vero: si ha sempre timore che si perda ciò che, salvatosi magicamente, è rimasto nonostante lo scorrere del tempo nello spazio o nella mente di qualcuno: in un cassetto di un vecchio comò, dentro una scatola di fotografie, nel ricordo istantaneo di una immagine, nello struggimento di una emozione. C’è qualcosa di salvifico in quell’atto di ricomposizione artistica delle cose con cui Roberta Zucchini ci restituisce il valore della memoria; guardando il prodotto del suo lavoro, di una cosa diventiamo immediatamente consapevoli: che gli oggetti hanno vita, sono intrisi di pensieri di noi umani, sono rimasti nostri compagni di viaggio, ci testimoniano. Non sono solo il prolungamento o le appendici delle nostre mani e del nostro corpo, utensili di cui ci siamo serviti; sono anche cose che ci hanno accompagnato nel corso dell’esistenza, cose che abbiamo accarezzato con lo sguardo (i quadri appesi alle pareti, le nostre fotografie del passato, le parole stampate nei libri), cose su cui abbiamo lasciato l’impronta del calore del nostro corpo (gli abiti, le stoffe, il velluto delle poltrone, i cuscini su cui abbiamo sognato o pianto), cose che hanno tenuto impegnate le nostre mani mentre dovevamo far passare il tempo o placare il dolore della vita (le stoviglie con cui abbiamo cucinato, i bicchieri dei nostri brindisi, le stoffe cucite, i fili arrotolati, i ricami), cose che ci hanno aiutato a rallegrarci nelle ore felici (un monile, un rossetto, un pettine, un nastro per i capelli). Senza gli oggetti che strada avrebbe fatto l’essere umano?

Questa memoria (non i singoli ricordi) in cui ci riporta l’opera di Roberta Zucchini, è anche contagiosa, trova eco in chi sa guardare ed ascoltare, e tiene gli occhi aperti sull’umano che abita ciascuno di noi. Così indugiare con lo sguardo su questi manufatti costruiti a partire da pezzi di vita che noi non abbiamo mai conosciuto, è percorrere una strada, poetica, che ci fa entrare in contatto con il nostro mondo interiore, di noi esseri umani. Grazie ai lavori artistici di Roberta, ognuno può farlo. È questa la magia della memoria che lei ci aiuta a ritrovare.

La delicata cura che si scorge nella costruzione dei suoi manufatti artistici, la cucitura più che il ricamo con cui l’autrice, con un gesto lento delle mani, ha inteso fermare per noi tutti le parole e le immagini fotografiche che le sono per così dire andate incontro attraverso la sua memoria, veicolano un amore rispettoso delle cose che vuole “rendere impossibile la loro dispersione”, ma, fissandole con un filo da cucire, anche sottrarle al destino di semplici istantanee; e, perché no, nasconderle un poco, e proteggerle, sotto quel filo che le cuce, come fossero reliquie da conservare. Il cucito è un gesto antico, mette insieme, tiene stretto; il filo è ciò che consente al gesto del cucire il suo operato, ma è anche ciò da cui nasce il discorso che lega le parole: quelle che accompagnano e riaprono alla vita ciò che la fotografia potrebbe avere chiuso troppo frettolosamente in uno scatto.

A cura di Luca Caccioni e Irene Fenara

 

Ai piani intimi è una mostra che ruota attorno all’idea di intimità rivelata su differenti strati narrativi, nei confronti della memoria, del corpo e del paesaggio. La fotografia viene sperimentata nelle sue stratificazioni e trasparenze, tramite lo sguardo di quattro artiste che si confrontano nel sovrapporre le loro esperienze. La stratificazione di immagini è elemento comune che svela un desiderio di accumulazione e raccoglimento, quasi a voler far convivere più realtà sullo stesso piano nel tentativo di non perdere o non dimenticare la maggior quantità di forme possibili. La stratificazione di memoria e di ricordi, nel tentativo di colmare un’assenza, è forte nei lavori di Alessandra Brown e Roberta Zucchini, mentre è più materica la sovrapposizione di liquidi nel lavoro di Elena Grossi, e di macerie e crepe nel lavoro di Lucrezia Roncadi che accumula le ferite e i segni di un territorio scosso.  

La stratificazione del ricordo nel lavoro di Alessandra Brown è delicata ma definita, le carte da lucido sovrapposte svelano un trascorso familiare ormai passato. I familiari dell’artista sono infatti fasciati come oggetti che si trovano nelle zone balneari d’inverno. Una protezione rigida e plastica, resistente abbastanza da non farsi corrodere dalla salsedine che stagione dopo stagione affievolisce i colori e la memoria. Una copertura che protegge e allo stesso tempo soffoca le figure umane come il ricordo intimo di un luogo. La sovrapposizione fisica delle due fotografie, quella del passato e quella del presente, è accentuata da una distanza fisica che rappresenta una lontananza emotiva.

Altrettanto emotive e legate ai ricordi sono le fotografie di Roberta Zucchini. Un abito vuoto, dismesso, è quasi sempre traccia dell’intimità di una perdita. L’artista sembra cercare e non trovare al proprio posto qualche cosa. Si tratta di un vuoto che cerca di essere colmato tramite l’appropriazione di una serie di cappotti appartenenti alla madre dell’artista e alle sue sorelle. Gli abiti lunghi come ombre si sovrappongono nelle fotografie, moltiplicandosi e specchiandosi nei loro stessi negativi. I cappotti neri si fanno bianchi fantasmi, assenze che sembrano prendere vita e movimento a partire dai vestiti appesi e fotografati come testimonianza di qualcuno che è stato.

Il corpo invece diventa visibile nel lavoro di Lucrezia Roncadi che sovrappone la sua figura alle pareti di una struttura appartenuta alla sua famiglia e colpita dal sisma del 2012 in Emilia. L’idea di casa che si pensa possa durare una vita si frantuma così come il corpo giovane dell’artista che si fa portatore dei segni e della pelle del suo territorio. Il crollo fisico rappresenta il crollo delle certezze e il dolore che ci segna nel corpo. Lucrezia mette in relazione, tramite le stratificazioni delle fotografie, la durata di una vita con la durata di un’abitazione, distruggendo l’illusione che le cose, soprattutto quelle grandi, non mutino mai nel tempo così come l’idea della giovinezza. Quando si è giovani sembra che le cose non cambieranno mai, il cambiamento e il dolore sono sempre una sorpresa, finchè tutto non crolla, per la prima volta, sotto ai nostri occhi.

La stratificazione di Elena Grossi è invece materica, di liquidi che vanno a modificare la componente chimica della fotografia. L’acqua dello stagno rappresentato collabora a modificare l’aspetto dello stagno stesso, lasciando una traccia di sé, della propria esistenza e del proprio passaggio. Le fotografie, infatti, immerse nell’acqua stagnante concorrono a raffigurare un autoritratto della natura stessa.

 

Irene Fenara

La giuria di Art Up, il premio istituito in occasione di Opentour 2018, composta da Lorenzo Balbi, artistic director del Mambo, dalla collezionista Gaia Rossi Vacchi e da Andrea Viliani, direttore generale del museo MADRE di Napoli, ha deciso di segnalare la mostra di Lavì! City “Ai piani intimi”, per la qualità dell’allestimento e dei singoli lavori esposti.

Pertanto, a richiesta di molti, è prevista un’apertura straordinaria di finissage il giorno mercoledì 27 giugno, dalle 17,30 alle 20,00.

 

In occasione di Opentour 2018

 

A cura di Luca Caccioni e Irene Fenara

 

La mostra ruota attorno all’idea di intimità rivelata su differenti strati narrativi nei confronti della memoria, del corpo e del paesaggio. La fotografia viene sperimentata nelle sue stratificazioni e trasparenze, tramite lo sguardo di quattro artiste che si confrontano nel sovrapporre le loro esperienze. La stratificazione di immagini è elemento comune che svela un desiderio di accumulazione e raccoglimento, quasi a voler far convivere più realtà sullo stesso piano nel tentativo di non perdere o non dimenticare la maggior quantità di forme possibili. La stratificazione di memoria e di ricordi, nel tentativo di colmare un’assenza, è forte nei lavori di Alessandra Brown e Roberta Zucchini, mentre è più materica la sovrapposizione di liquidi nel lavoro di Elena Grossi, e di macerie e crepe nel lavoro di Lucrezia Roncadi, che accumula le ferite e i segni di un territorio scosso.