A cura di Valeria Tassinari

Vita e scultura si somigliano, ma non è per la solita storia bohémien del legame tra arte e vita.

Che fare spazio e farsi spazio siano condizioni necessarie all’esistenza – nella scultura come nella vita – è un dato oggettivo.

Il ruolo soggettivo dell’artista sta, piuttosto, nella scelta del funambolo, che decide di muoversi tra essere e fare, in bilico sul tragitto, fermandosi negli istanti in cui la tensione diventa forma.

“In bilico sempre” è un verso rubato a una poesia1 di Alessandra Bonoli, artista la cui scrittura risuona di vento e cammino, come la sua scultura e i suoi disegni, ai quali la parola corrisponde narrativamente a una voce fuori campo, nell’intenso libro Una vita in viaggio, che ha da poco pubblicato. C’è, nel suo lavoro, una dimensione ordinata, una misura ponderata con la stessa bilancia di precisione per i versi e per le opere, terre emerse per decantazione dell’amore, della nostalgia, della scoperta felice, dell’assenza dolorosa. C’è, nel suo lavoro, una materia instabile e tumultuosa, ma ricondotta all’equilibrio e riordinata in forme, colori e parole nitide, con una disciplina che governa la consapevolezza dell’instabilità come condizione del fare. Una misura classica, in fondo.

Nella scultura, Alessandra ha fatto la scelta radicale dell’astrazione, una strada austera che ha piegato al sentimento, battuta e ribattuta esercitandosi a non cadere nella maniera, nella replica, nella citazione, schivando il minimalismo, il monumentalismo e ogni sorta di presunzione di eternità, tentazioni che le rimangono estranee, anche quando lavora sulle grandi dimensioni, o con materie persistenti come il ferro e il cemento. Nelle grandi sculture urbane e negli interventi ambientali (quelli realizzati e quelli solo desiderati, restituiti attraverso innumerevoli progetti) geometrie imperfette si aprono in vortici e fughe, forme affini si cullano e si inseguono, correndo verso l’alto come architetture d’oriente, o scorrendo al suolo, come linee geomantiche.

Ma anche nella scultura da interno vibra un’energia tesa “tra stare e andare”, e mi pare che quest’ idea di movimento nella stasi, che ci spinge a parlare di scultura a se “stante”, abbia certamente una storia arcaica, ma riverberata da esperienze non troppo lontane.

Trentacinque anni fa, nel dicembre 1987, al Castello di Rivoli, allora da poco aperto, la mostra Standing Sculture poneva al centro della riflessione critica una certa tipologia di scultura, presentandola come un’ arte plastica capace di farsi spazio ovunque, indipendentemente dall’ambiente circostante. In quel periodo il contesto (urbano, architettonico, sociale o naturale) era ormai considerato il riferimento fondativo di ogni progettualità, dato che tra gli anni Sessanta e Settanta ogni forma d’ espressione d’avanguardia sviluppata nella terza dimensione aveva stretto un legame di irresolubile

In bilico sempre in Una vita in viaggio. Disegni e scritti di Alessandra Bonoli, Imola, Editrice La Mandragora, 2022simbiosi con l’ambiente. Ma esattamente quando il trionfo del site specific – pratica intorno alla quale si erano aggregati fenomeni come Earth Art, Land Art, Environment, scultura “sociale” e le molte altre declinazioni di area concettuale – sembrava aver ormai reso totalmente anacronistica l’idea di scultura “indipendente”, il gruppo curatoriale di quella storica mostra – Rudi Fuchs, Johannes Gachnang e Francesco Poli – aveva deciso di rilanciare l’ipotesi di una “lotta per l’oggetto pesante e consolatorio, la lotta per i tempi lunghi e la stabilità” (così scriveva Fuchs2). L’idea di fondo, supportata da un’ampia selezione di nomi internazionali, non era proposta in chiave provocatoria, come in verità a molti apparve, ma piuttosto nella prospettiva di un’apertura a tutte le forme espressive, comprese quelle che desideravano riprendersi lo spazio di un proprio supporto; era, in fondo, il riscatto di una ricerca indipendente e persino solitaria che, uscendo dalla dimensione ideologica che aveva guidato le più estreme sperimentazioni del Novecento, consentiva di riconciliarsi con l’idea di scultura “stante”, dotata di una propria identità, che l’avrebbe resa autentica in qualunque contesto. Quel clima, che suggeriva il valore di una possibile rilettura “atipica” della tradizione, come già stava avvenendo con la Transavanguardia e altri movimenti internazionali riguardo alla pittura, può essere utile a capire la libertà e il rigore che guidano l’istanza creativa di Alessandra Bonoli, che proprio negli anni Ottanta ha messo a fuoco la sua poetica, intraprendendo il percorso di estrema coerenza e continuità che prosegue ora.

A quel decennio, che per la scena artistica bolognese è stato il più vitale dell’età contemporanea, è dunque significativo riportare l’attenzione, perché nei suoi esiti attuali rivela la complessità di ricerche che, come questa, sanno stare nel tempo in una rara permanenza di intenti.

In bilico, certo, ma proprio per questo in equilibrio.

A cura di Sergio Rossi

Il Viaggio di Carlo
Monica Manfrini

Non era necessario un pretesto per ricordare la vita di Carlo, il suo “viaggio” alle persone che lo hanno amato, ma se l’occasione è un libro scritto da sua nipote Elena che lo inserisce tra i personaggi principali, allora il pretesto mi è sembrato importante da cogliere. Carlo avrebbe compiuto cento anni quest’anno. Ha avuto una vita come tante: una famiglia d’origine molto legata alla terra, alla natura, cinque fratelli, un padre insegnante, ma anche pittore, una madre casalinga, modesta cuoca, ma con l’inclinazione alla poesia. Avrebbe voluto studiare ingegneria meccanica, ma una brutta pleurite quando frequentava il liceo convinse sua madre a farlo studiare in un istituto agrario e poi avviarlo alla Facolta di Agraria per farlo stare più “all’aria aperta”. Mi accorgo di avere scritto molti ma in questo inizio, non è una gran prova di scrittura, però spiegano bene le alternative che nella vita si sono spesso presentate a Carlo che ha accettato, più che scelto i cambiamenti, con un ingrediente meraviglioso, trasmesso più avanti nel tempo ai suoi figli: la capacità di affrontare gli imprevisti, le incognite, le fatiche sempre con un atteggiamento ottimistico, direi creativo e pronto all’evoluzione e alla trasformazione positiva degli eventi.

Carlo è passato attraverso due secoli, e la prova più difficile sicuramente è stata affrontare da giovanissimo la seconda guerra mondiale. Aveva diciannove anni quando fu inviato militare in Russia al seguito di un esercito sgangherato che faceva dormire i soldati in accampamenti di fortuna, tende e baracche di legno costruite nella steppa, poco lontano da Rossosch, vicino al Don.

Era partito con due compagni di viaggio, la macchina fotografica e la fisarmonica. Con la macchina fotografica aveva già documentato molte gite fatte in bicicletta con gli amici più sportivi sulla Marmolada e poi le scalate, i boschi, le cime più impervie in varie zone alpine, gli era sembrato quindi naturale scattare foto durante il percorso in treno verso la Russia e poi in tutti i momenti della vita militare. I campi, gli addestramenti, il lavoro, gli abitanti delle città e delle campagne russe, i mercati, il treno, i convogli militari, gli aerei sono fermati dagli scatti in un bellissimo bianco e nero. La fisarmonica che aveva imparato a suonare da bambino gli fu compagna e amica di lavoro e di sopravvivenza, infatti nel tempo che la vita militare gli lasciava andava nelle isbe contadine a suonare in occasione di feste, matrimoni e battesimi e così poteva sfruttare il calore di una vera casa e forse mangiare un pasto caldo, migliore del rancio distribuito ai soldati. Tornato in Italia in maniera fortunosa, poco prima della disfatta e della tragica ritirata dell’esercito italiano, alla fine della guerra riprese gli studi in Agraria e la passione per la natura torna prepotente a manifestarsi anche nell’attività professionale,. Prima come insegnante di materie tecnico-agrarie poi come sperimentatore di fertilizzanti in vari tipi di colture in Italia, Francia e Germania ha registrato con la fotografia tutto il suo lavoro.

L’allestimento di questa mostra ha al centro le belle tavole disegnate da Giulia Tassi che sono ispirate a momenti della vita di Carlo, quando, già pensionato ha continuato a seguire la vita nei campi nel suo podere a vigneto sulle colline di Dozza. Podere dove una casa di campagna, molto amata, ospitava le vacanze della famiglia, la moglie con i tre figli e più avanti anche i nipoti. Le foto che “incorniciano” i disegni sono state scattate da Carlo in vari momenti della sua vita di lavoro, in Italia e all’estero. Le cartoline illustrate sono un corollario simbolico al tema viaggio, cuciono e ricuciono i luoghi visitati per lavoro e per svago, ma sono solo “cartoline”, il vero racconto è quello delle foto scattate con il sistema analogico, pensate nel momento del clic, ma poi viste dopo ore, giorni e scelte per commentare articoli di lavoro o momenti della vita, del suo viaggio.

A cura di Paola Binante

In occasione di Opentour 2022 la Galleria Lavi City presenta Ogni piccola cosa che resta è una vittoria contro il nulla a cura di Paola Binane 22 al 25 Giugno. La mostra presenta le opere di due allieve del corso di Fotografia dell’ Accademia di Belle Arti di Bologna.

Julija Tioli, Qui, 2022

La fusione di due stati fisici opposti, ovvero la morte ¢ la nascita, equivale ad un evento surreale, innaturale, e crea complicanze emotive e sociali. Cid che viene considerato un inizio diventa una fin. l bambino morto nel grembo materno “è esistito” solo per i genitori, e il loro lutto perde significato perché non vissuto liberamente.

Sulla restituzione di tali sensazioni indaga Julija Tioli nel progetto installativo Qui.

Un lavoro che trova corrispondenze nella tendenza della fotografia contemporanea al tono diaristico che meglio corrisponde al desiderio di vicinanza emotiva alla storia raccontata. Nella nostra società postmoderna assistiamo a una fluttuazione liquida dei sentimenti,caratterizanti la modernità concettualizzata da Zygmunt Bauman. Lo scatto dal respiro breve, ma intenso, contrasta la precarietà delle relazioni umane. La logica del frammento si sostituisce, così al grande racconto. La pratica fotografica assume così una funzione rituale, ben lungi dagli usi sociali ricostruiti a metà anni Sessanta da Pierre Bourdieu. L’esito è un diario visivo che mescola, come in un album di famiglia, oggetti, ambienti, volti e corpi, assumendo tuttavia una dimensione collettiva.

Julja Tioli predilige inquadrature ravvicinate, focalizzando la sua attenzione sulle tracce della limitatezza esistenziale della vita quotidiana. La narrazione visiva, evidenzia la stessa autrice, diviene fondamentale per la costruzione dell’identità genitoriale. E la forma che assume questa narrazione è il montaggio rivelatore delle nuove configurazioni che acquistano nella composizione le singole immagini.

Il dato di partenza è il materiale visivo che proviene da archivi familiari sul quale l’autrice interviene con metodologie sperimentali. La restituzione di questo intenso e coinvolgente lavoro si esprime appieno nella pratica espositiva. Gli archivi di famiglia sono accolti in scatole appositamente create. Appaiono simili a contenitori idonei alla conservazione delle fotografie, quasi a simboleggiare la cura con la quale sono trattate le testimonianze visive delle perdite subite dalle famiglie di cui si narra la storia. Queste scatole, però, ci rammentano desuete modalità di raccolta di fotografie familiare, ben prima dell’affermazione del digitale.

Agli antichi rituali funebri rinvia invece la straordinaria invenzione dei calchi in pasta di sale di alcuni oggetti legati al piccolo Gabriele, “venuto al mondo con gli occhi chiusi che non ha mai voluto aprire”, conservati dai genitori come ricordo. I calchi in pasta di sale richiamano alla mente la tecnica utilizzata negli scavi archeologici, più spesso mediante gesso o cemento, per recuperare la forma di oggetti,o, come a Pompei, la forma di esseri umani. Tioli utilizza la pasta di sale, un materiale che parla del gioco dei bambini, mentre le fotografie dei calchi sono montati sulla parete a comporre una griglia aperta, che moltiplica, ampiifica le letture possibili.

Matilde Collinassi, Out of Sight, 2022

Matilde volge lo sguardo verso la complessità emotiva dell’individuo, l’universalità delle emozioni e dei sentimenti. Il suo lavoro ha come fulcro la sospensione del momento nato da un primo incontro. Quanto racconta e quanto nasconde di noi uno sguardo? Il progetto libro di Matilde Collinassi, nella sua complessita, si apre alla riflessione sulla natura delle immagini, riflette sull’interattività della narrazione e sulle possibili future applicazioni e collaborazioni tra fotografia e il mondo videoludico.

La narrazione è frammentaria come i processi della memoria. La ricerca di Matilde è un’occasione per esaminare la natura delle immagini “digitali”, vertendo quindi sulla metafotografia. Prende in esame la condizione post-mediatica della contemporaneità dove fotografia e immagine sembrano sempre più essere assimilabili.

Gli aspetti principali di questa ricerca sono la natura della In-game photography, il particolare tipo di rimediazione del linguaggio fotografico messo in atto, la pratica di appropriazione (e manipolazione). Il dato di partenza sono tre videogiochi, Call of duty: World War II (Activision), Grand Theft Auto V (Rockstar Games) e The Last Of Us Part 2 (Naughty Dog). L’operazione consiste nella “cattura” di alcune immagini, rielaborate nel progetto editoriale. L’autrice offre uno spazio alle potenzialità espressive e concettuali dell’incerto confine tra fotografia e immagine. La sua ricerca possiamo affermare interroghi le modalità di fruizione delle immagini e le diverse forme di ibridazione. La particolare narrazione e interattività, tipica dei videogame, viene rivisitata e modificata per mostrare le potenzialità che questo tipo di immagine digitale, interamente composta da codici, può portare nella pratica contemporanea della fotografia. Le due sequenze presentate all’interno del progetto sono accuratamente studiate per interagire tra di loro e dare Ia possibilità all’ osservatore di creare delle associazioni visive sempre diverse.

Out of Sight è una storia di dolore e perdita, passato e presente e, allo stesso tempo, uno studio sulle diverse pratiche e applicazioni della fotografia in-game. L’atto di appropriazione e manipolazione di questi screenshot video-ludici sono solo una parte del ben più complicato processo di decontestualizzazione, distruzione e ricostruzione della narrazione.

La scelta curatoriale di avvalersi dell’oggetto libro, perseguendo quindi uno spazio visuale caratterizzato dalla forte sperimentazione di nuovi media, palesa l’intenzione di indagare il tema della memoria nelle sue diverse forme e nei diversi dispositivi che ne mediano la conoscenza. Ne comprende le sfaccettate forme, le storie reali o immaginarie di cui si nutre la nostra memoria nell’epoca post-mediale. Assembla ricordi di persone percepite attraverso un video, parte ormai del nostro quotidiano, a tal guisa delle relazioni che intratteniamo con i nostri simili. Infine, dunque, il progetto di Collinassi sembra riflettere sulla costruzione della propria identità.

A cura di Pippo Ciorra

Nella storia dell’arte l’autoritratto è un esercizio nobile e intenso. Nel corso dei secoli lo hanno praticato con passione e severità pittori talmente importanti che si esita a evocarne il nome, ma anche scultori, fotografi, artisti astratti, perfino architetti (Carlo Aymonino era tra i patiti del genere) o musicisti (la Terza di Beethoven come autoritratto). “L’autoritratto – afferma Volonterio – è un pozzo profondo”. Oltre a una forma di introspezione e di riflessione sul senso e le tecniche della rappresentazione – basta pensare a Piet Mondrian – l’autoritratto è un motore di ricerca a intensità crescente: da sempre la possibilità di avere a disposizione un modello a buon mercato, un esperimento facilmente ripetibile, infine una scelta efficace per costruire un livello ulteriore di rapporto tra l’opera e l’autore e il mondo. Vale per Raffaello, che si inserisce come “comparsa” nella Scuola di Atene, per gli autoritratti performativi di Claude Cahun (forse un precedente interessante per Volonterio), come per per Cindy Sherman, che invece fa del proprio ritratto un dispositivo concettuale ossessivo. Di recente alcuni architetti particolarmente eco-sensibili fanno circolare il loro termo-autoritratto, una scansione termografica che mette in evidenza le zone calde e fredde del loro corpo (probabilmente in vista di un’azione di riscaldamento mirato). Nel caso di Gaia Volonterio, anche lei non estranea a conoscenze di architettura alla scala dell’intérieur, l’autoritratto sembra essere uno di quei punti di riferimento ai quali alcuni artisti amano tornare ripetutamente lungo il loro percorso, come una specie di termometro del rapporto con il proprio lavoro (e ovviamente con sé stessi). Non è un caso quindi se per la mostra Her Self Gaia Volonterio abbia scelto di tornare ed espandere quest’area specifica della sua ricerca sul corpo e sul ritratto, arricchendo notevolmente la sua già cospicua collezione di autoritratti. Lo spazio ridotto della galleria, la sua propensione all’intimità spaziale, la consapevolezza di presentarsi a un pubblico nuovo sono condizioni importanti. Da un lato esprimono bene quella concitazione interiore che si scatena quando dobbiamo auto-rappresentarci; dall’altro fanno sì che la potenza introspettiva del “ritratto di sé” appaia come un dispositivo immediato e ad alta intensità per trasmettere le idee di Volonterio sulla pittura e sull’arte in generale. Attraverso l’autoritratto si risale a opere di varie fasi del percorso della giovane artista, nel quale la propria immagine sembra essere il terminale dialettico del rapporto con la propria storia, lo spazio, il paesaggio. La galleria bolognese sembra lo spazio ideale per questo approccio, un luogo dove le opere si guardano da vicino, in cui tecnica e dimensioni hanno un’importanza speciale, in cui il viso del visitatore si avvicinerà pericolosamente alla superficie dipinta o disegnata.

Raramente i dipinti di Gaia, perché di dipinti in genere si tratta, hanno un contesto. Il close-up sul viso è assoluto e si con-fonde con toni e sfondo che ricordano la pittura barocca. Quando lo sguardo si allarga è per proiettarci immediatamente all’esterno, nel paesaggio reale o in quello della memoria. Questo è di certo uno dei caratteri più evidenti dei suoi lavori, la capacità di connettere il paesaggio interno e quello esterno, generare inquietudine nell’avvicinarsi al soggetto, allargare il respiro quando l’occhio si allontana e guarda anche all’esterno, nei luoghi o nei ricordi.

Una buona parte del lavoro di Volonterio, come si è detto, è opera di pittura, a olio: “La pittura ad olio mi permette di lavorare a più riprese. È plasticità, è materia mobile e forse da la possibilità proprio di rappresentare quella figura che non si può fermare”. Alla base, osservando l’insieme dei suoi lavori, emerge anche un interesse forte per il disegno, essenziale nella comprensione/rappresentazione dei paesaggi interiori ed esteriori. Insomma, il suo tracciato di crescita è ampio e pieno di possibilità, grazie alla sensibilità e al talento cristallino che emergono già in questi lavori. Personalmente, dato che in fondo al mio petto batte un cuore da architetto, non succede spesso che mi avvicini a una forma così legittima di pittura. La natura processuale e installativa rende alcuni lavori più accessibili alla mia anima semplice di appassionato di progetti. La natura grafica ne avvicina altri in maniera ancora più ovvia alla sensibilità di chi deve occuparsi a tempo pieno di rappresentazione. Ma i lavori di Volonterio perforano senza fatica queste barriere culturali e disciplinari. Non appartengono all’ennesimo ritorno della pittura (tutti gli artisti sono pittori, diceva Kounellis) o a un rinnovato bisogno di figuratività. Non rientrano insomma, nell’alternanza dei gusti. Trasudano invece significati intimi e collettivi, si nutrono direttamente della forza del loro oggetto, del cortocircuito scatenato all’interno del triangolo magico tra soggetto, autore e medium utilizzato. La ricerca di Gaia si muove così come un pendolo tra i due estremi della figurazione, il ritratto e il paesaggio, il realismo e la sua dissoluzione vagamente onirica, o nella memoria. Sia la rappresentazione del paesaggio che quella della figura umana avvengono sempre attraverso una visione filtrata e imprecisa, che ribadisce la presenza dell’occhio dell’artista e della sua consapevolezza tecnica, concettuale e introspettiva. Soprattutto quella del volto, è una meta-rappresentazione, nella quale i soggetti arrivano alla tela non direttamente dalla realtà, ma attraverso l’intermediazione di una fotografia, uno specchio, una pagina di libro o di giornale, un sogno o un ricordo.

Chiudo confessando l’impazienza di vedere la mostra allestita nello spazio piccolo e compatto di Lavì! City, con i molti volti di Gaia Volonterio che assediano i visitatori e danno loro l’impressione di essere entrati in un caleidoscopio che riflette la loro immagine e la distorce in cento modi diversi. Confido, e aspetto conferma, che si tratti di una di quelle situazioni ideali nelle quali l’opera, o meglio l’insieme delle opere, coincide con l’allestimento, un luogo ideale nel quale lo sguardo dell’autore (o i suoi cento sguardi) si confonde con quello di chi guarda, come in un approccio low-tech all’interattività.

Presentazione di Alessandra Fontanesi

È bastato un soffio perché la memoria sollecitata dalle immagini di Elena Grossi mi portasse in un paesaggio lontano. La tentazione di svelare il luogo per avvicinarsi con la visione agli oggetti comporta uno sguardo audace che invita ad entrare, ma la messa a fuoco dell’occhio non basta. Nelle fotografie, l’uso della polvere che ha rivestito le scene di questa dimora ha sottratto con riserbo l’interiorità delle stanze ritrovate, in cui lo strato di fine pulviscolo della materia era divenuto, come dispositivo del tempo, l’abito della casa. Il suggerimento offerto dal mantenimento dell’involucro mi conduce oltre il momento presente verso la terra vista nella sua nudità, quale corpo attraversato dalle esperienze fissate come tracce nelle fotografie di Timothy O’Sullivan. Una semplicità che riporta alle origini, in spazi deserti dove non è rappresentata la sembianza umana, e la terra è la prima casa, archetipo dell’abitare con tutte le insidie che l’identificazione con la parte negativa del distacco emotivo può comportare.

Nel racconto per immagini della casa dei natali di Elena affiora il sentimento dell’abitare, della memoria della vita passata attraverso la testimonianza di quello che resta con una qualità impersonale, e si fa strada la necessità dell’affetto di arrivare a noi, che lo riceviamo nell’espressione tenue delle sagome incipriate degli oggetti. La polvere sembra dimostrare il vuoto della presenza di vita all’interno di ogni alloggio, l’assenza di cura che con gesti ripetitivi trasmette la memoria delle forme alle mani e radica il mobilio al suo ambiente, ma al contempo l’uso che l’artista ne fa consente alle immagini di “rimuovere la rimozione” di nullità e inesistenza per rendere familiare il ritorno dell’oggetto e del modo di poterlo guardare.

Le parole di Elena hanno descritto lo spazio delle cose e del rapporto tra l’essere umano e il mondo, un intreccio disponibile a farsi luogo, a trasformarsi nella costruzione del suo immaginario, disponibile al suo gioco e al suo capriccio. E forse è così che la nostra continua erranza, la capacità di vagare e di ritornare all’origine si ripropone ogni volta che dobbiamo rinnovare l’incontro con l’alterità: da un ampio guardaroba scegliamo la pelle della polvere più appropriata alla nostra persona. E la fotografa ricomincia dall’altra parte dell’obiettivo.

Molti scatti testimoniano il girovagare dello spirito mercuriale di Elena nella grande casa di campagna, abitata dalla famiglia da tre generazioni ed ora destinata solo in parte agli eredi. Nuove persone sono venute a vivere nella tenuta dei trisavoli, ma alcuni ambienti privati e diverse aree comuni non hanno ricevuto lo stesso destino. E proprio questi vani interni, passaggi e perimetri esterni all’edificio attendono la sua presenza, per imprimere nella memoria della carta stampata il simbolo del focolare domestico, consacrato dalla vecchia generazione in questa residenza alla quale, con coscienza condivisa, l’autrice desidera dare continuità. In un soffio l’anima di questi luoghi riprende vita e illumina tutte le cose. E noi intuiamo le forme nelle immagini monocromatiche, a tratti sbiadite con un bianco bruciato e velate con la polvere della loro presenza.

Con la concentrazione focalizzata sul compito che la figura di Estia nel mito dedica al tempo della cura, la scelta di Elena delle immagini esposte nella mostra insiste sulla congiunzione dei luoghi. Nella circolarità che unisce gli ambienti, con le scale a pioli delle cantine fino alle scalinate con balaustre finemente realizzate in marmo da una mano sapiente e familiare, si arriva al centro della casa. Qui il mobilio occupa la scena della sala da pranzo, e mostra che la segretezza appartiene ad altri contenitori. Elena sa che non basta togliere la polvere da queste superfici e accumularla con attenzione per velare il fantasticare del tempo passato. Le piace ricordare “Le mueble” di CharlesCros in cui esseri immaginari nascono dal mistero di un mobile amorosamente intarsiato […] e nel silenzio della notte il poeta sorprende i complicati intrighi tramati […].

In questo gioco di andata e ritorno, le riprese di questi paesaggi interiori fatti di spogli scantinati di mattoni e cemento e, via via a salire, di piani un tempo abitati che conservano suppellettili in apparente disuso, mi proiettano di nuovo all’esterno, e il ricordo va ad alcuni lavori fotografici di Marina Ballo Charmet. Qui il dispositivo di richiamo al presente, di interruzione di uno sguardo disabitato, divenuto cieco per troppa abitudine, non è più il punto di vista della polvere ma quello del bambino. Da una diversa altezza, che è anche distanza da un Io incapace di estraniarsi, ci è dato un senso nuovo, un sovrappiù di spazio, nella visione di piazza del Duomo a Milano. Un progetto intitolato milanopiazzaduomo ideato con Gabriele Basilico in cui la sfida dell’autrice di abitare la piazza è assegnata alla vista dal basso, instabile e decentrata, dell’occhio di un io bambina.

Nella poetica di Gaston Bachelard, lo ricordo con le parole di Elena, lo spazio è un sé come il miele nell’alveare. Ecco allora che i due spazi, dell’intimità e del mondo, si toccano, si confondono, diventano consonanti. E noi, portati in tal modo al centro delle immagini fotografiche di questo ciclo di lavoro di Elena Grossi, possiamo scegliere quale sguardo vogliamo abitare per avvicinare, come estranei incuriositi, gli oggetti carichi di casalinga intimità.