A cura di Valeria Tassinari
Vita e scultura si somigliano, ma non è per la solita storia bohémien del legame tra arte e vita.
Che fare spazio e farsi spazio siano condizioni necessarie all’esistenza – nella scultura come nella vita – è un dato oggettivo.
Il ruolo soggettivo dell’artista sta, piuttosto, nella scelta del funambolo, che decide di muoversi tra essere e fare, in bilico sul tragitto, fermandosi negli istanti in cui la tensione diventa forma.
“In bilico sempre” è un verso rubato a una poesia1 di Alessandra Bonoli, artista la cui scrittura risuona di vento e cammino, come la sua scultura e i suoi disegni, ai quali la parola corrisponde narrativamente a una voce fuori campo, nell’intenso libro Una vita in viaggio, che ha da poco pubblicato. C’è, nel suo lavoro, una dimensione ordinata, una misura ponderata con la stessa bilancia di precisione per i versi e per le opere, terre emerse per decantazione dell’amore, della nostalgia, della scoperta felice, dell’assenza dolorosa. C’è, nel suo lavoro, una materia instabile e tumultuosa, ma ricondotta all’equilibrio e riordinata in forme, colori e parole nitide, con una disciplina che governa la consapevolezza dell’instabilità come condizione del fare. Una misura classica, in fondo.
Nella scultura, Alessandra ha fatto la scelta radicale dell’astrazione, una strada austera che ha piegato al sentimento, battuta e ribattuta esercitandosi a non cadere nella maniera, nella replica, nella citazione, schivando il minimalismo, il monumentalismo e ogni sorta di presunzione di eternità, tentazioni che le rimangono estranee, anche quando lavora sulle grandi dimensioni, o con materie persistenti come il ferro e il cemento. Nelle grandi sculture urbane e negli interventi ambientali (quelli realizzati e quelli solo desiderati, restituiti attraverso innumerevoli progetti) geometrie imperfette si aprono in vortici e fughe, forme affini si cullano e si inseguono, correndo verso l’alto come architetture d’oriente, o scorrendo al suolo, come linee geomantiche.
Ma anche nella scultura da interno vibra un’energia tesa “tra stare e andare”, e mi pare che quest’ idea di movimento nella stasi, che ci spinge a parlare di scultura a se “stante”, abbia certamente una storia arcaica, ma riverberata da esperienze non troppo lontane.
Trentacinque anni fa, nel dicembre 1987, al Castello di Rivoli, allora da poco aperto, la mostra Standing Sculture poneva al centro della riflessione critica una certa tipologia di scultura, presentandola come un’ arte plastica capace di farsi spazio ovunque, indipendentemente dall’ambiente circostante. In quel periodo il contesto (urbano, architettonico, sociale o naturale) era ormai considerato il riferimento fondativo di ogni progettualità, dato che tra gli anni Sessanta e Settanta ogni forma d’ espressione d’avanguardia sviluppata nella terza dimensione aveva stretto un legame di irresolubile
In bilico sempre in Una vita in viaggio. Disegni e scritti di Alessandra Bonoli, Imola, Editrice La Mandragora, 2022simbiosi con l’ambiente. Ma esattamente quando il trionfo del site specific – pratica intorno alla quale si erano aggregati fenomeni come Earth Art, Land Art, Environment, scultura “sociale” e le molte altre declinazioni di area concettuale – sembrava aver ormai reso totalmente anacronistica l’idea di scultura “indipendente”, il gruppo curatoriale di quella storica mostra – Rudi Fuchs, Johannes Gachnang e Francesco Poli – aveva deciso di rilanciare l’ipotesi di una “lotta per l’oggetto pesante e consolatorio, la lotta per i tempi lunghi e la stabilità” (così scriveva Fuchs2). L’idea di fondo, supportata da un’ampia selezione di nomi internazionali, non era proposta in chiave provocatoria, come in verità a molti apparve, ma piuttosto nella prospettiva di un’apertura a tutte le forme espressive, comprese quelle che desideravano riprendersi lo spazio di un proprio supporto; era, in fondo, il riscatto di una ricerca indipendente e persino solitaria che, uscendo dalla dimensione ideologica che aveva guidato le più estreme sperimentazioni del Novecento, consentiva di riconciliarsi con l’idea di scultura “stante”, dotata di una propria identità, che l’avrebbe resa autentica in qualunque contesto. Quel clima, che suggeriva il valore di una possibile rilettura “atipica” della tradizione, come già stava avvenendo con la Transavanguardia e altri movimenti internazionali riguardo alla pittura, può essere utile a capire la libertà e il rigore che guidano l’istanza creativa di Alessandra Bonoli, che proprio negli anni Ottanta ha messo a fuoco la sua poetica, intraprendendo il percorso di estrema coerenza e continuità che prosegue ora.
A quel decennio, che per la scena artistica bolognese è stato il più vitale dell’età contemporanea, è dunque significativo riportare l’attenzione, perché nei suoi esiti attuali rivela la complessità di ricerche che, come questa, sanno stare nel tempo in una rara permanenza di intenti.
In bilico, certo, ma proprio per questo in equilibrio.