Elena Grossi (Montecchio Emilia, 1994) è laureata in Pittura e successivamente in Arti Visive presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Interessata a diversi sistemi di rappresentazione con particolare attenzione alla fotografia e al riuso poetico di quest’ultima, nei suoi lavori riflette sui concetti di illusione, memoria e distanza. La continua ricerca della lontananza, spesso affidata al processo metaforico del “come se”, dà vita ad un ribaltamento percettivo in cui i frammenti del microcosmo quotidiano diventano visioni “altre”, portatrici di un senso dell’inaspettato, dell’inesplorato e di nuove letture dei fenomeni circostanti. Attraverso pochi elementi sempre capaci di diffondere un clima dal carattere interiore e parallelamente universale, il mondo si scompone e si ricompone ogni volta in modo tanto imprevedibile quanto sensibile.

Il suo lavoro è stato esposto in varie sedi sia in Italia che all’estero. Mostre selezionate: Digital Jokes, Die Digitale Festival, Weltkunstzimmer, Düsseldorf, Germania (2021); V Bad Video Art Festival, Khodynka Gallery, Mosca, Russia (2021); Light, CICA Museum, Gimpo, Corea del Sud (2021); The Herbarium as a place for storing ideas, Sofia Arsenal – Museum for Contemporary Art (SAMCA), Sofia, Bulgaria (2021); Note di sguardi, Largo Trebbo Poetico, Cervia / Giardino Lavinia Fontana, Bologna / Bibliothek am Wasserturm/Museum Pankow, Berlino (2020); In 24-Hours, The Wall Space, Falkirk, Regno Unito (2020); Neighbourhood, Sct. Peders Kirke, Randers, Danimarca (2020); Kunst im Wohnzimmer 04 – Elena Grossi, Das Provisorium, Monaco di Baviera, Germania (2019), Geografie della memoria, Istituto Storico Parri, Bologna (2019); MYSELF, spazio microLive, Milano (2019); Ai piani intimi, Lavì! City, Bologna / Spazio Lavì!, Sarnano (2018); I cieli in una stanza, Fotografia Europea, Chiostri di San Pietro, Reggio Emilia (2016).

Presentazione di Alessandra Fontanesi

È bastato un soffio perché la memoria sollecitata dalle immagini di Elena Grossi mi portasse in un paesaggio lontano. La tentazione di svelare il luogo per avvicinarsi con la visione agli oggetti comporta uno sguardo audace che invita ad entrare, ma la messa a fuoco dell’occhio non basta. Nelle fotografie, l’uso della polvere che ha rivestito le scene di questa dimora ha sottratto con riserbo l’interiorità delle stanze ritrovate, in cui lo strato di fine pulviscolo della materia era divenuto, come dispositivo del tempo, l’abito della casa. Il suggerimento offerto dal mantenimento dell’involucro mi conduce oltre il momento presente verso la terra vista nella sua nudità, quale corpo attraversato dalle esperienze fissate come tracce nelle fotografie di Timothy O’Sullivan. Una semplicità che riporta alle origini, in spazi deserti dove non è rappresentata la sembianza umana, e la terra è la prima casa, archetipo dell’abitare con tutte le insidie che l’identificazione con la parte negativa del distacco emotivo può comportare.

Nel racconto per immagini della casa dei natali di Elena affiora il sentimento dell’abitare, della memoria della vita passata attraverso la testimonianza di quello che resta con una qualità impersonale, e si fa strada la necessità dell’affetto di arrivare a noi, che lo riceviamo nell’espressione tenue delle sagome incipriate degli oggetti. La polvere sembra dimostrare il vuoto della presenza di vita all’interno di ogni alloggio, l’assenza di cura che con gesti ripetitivi trasmette la memoria delle forme alle mani e radica il mobilio al suo ambiente, ma al contempo l’uso che l’artista ne fa consente alle immagini di “rimuovere la rimozione” di nullità e inesistenza per rendere familiare il ritorno dell’oggetto e del modo di poterlo guardare.

Le parole di Elena hanno descritto lo spazio delle cose e del rapporto tra l’essere umano e il mondo, un intreccio disponibile a farsi luogo, a trasformarsi nella costruzione del suo immaginario, disponibile al suo gioco e al suo capriccio. E forse è così che la nostra continua erranza, la capacità di vagare e di ritornare all’origine si ripropone ogni volta che dobbiamo rinnovare l’incontro con l’alterità: da un ampio guardaroba scegliamo la pelle della polvere più appropriata alla nostra persona. E la fotografa ricomincia dall’altra parte dell’obiettivo.

Molti scatti testimoniano il girovagare dello spirito mercuriale di Elena nella grande casa di campagna, abitata dalla famiglia da tre generazioni ed ora destinata solo in parte agli eredi. Nuove persone sono venute a vivere nella tenuta dei trisavoli, ma alcuni ambienti privati e diverse aree comuni non hanno ricevuto lo stesso destino. E proprio questi vani interni, passaggi e perimetri esterni all’edificio attendono la sua presenza, per imprimere nella memoria della carta stampata il simbolo del focolare domestico, consacrato dalla vecchia generazione in questa residenza alla quale, con coscienza condivisa, l’autrice desidera dare continuità. In un soffio l’anima di questi luoghi riprende vita e illumina tutte le cose. E noi intuiamo le forme nelle immagini monocromatiche, a tratti sbiadite con un bianco bruciato e velate con la polvere della loro presenza.

Con la concentrazione focalizzata sul compito che la figura di Estia nel mito dedica al tempo della cura, la scelta di Elena delle immagini esposte nella mostra insiste sulla congiunzione dei luoghi. Nella circolarità che unisce gli ambienti, con le scale a pioli delle cantine fino alle scalinate con balaustre finemente realizzate in marmo da una mano sapiente e familiare, si arriva al centro della casa. Qui il mobilio occupa la scena della sala da pranzo, e mostra che la segretezza appartiene ad altri contenitori. Elena sa che non basta togliere la polvere da queste superfici e accumularla con attenzione per velare il fantasticare del tempo passato. Le piace ricordare “Le mueble” di CharlesCros in cui esseri immaginari nascono dal mistero di un mobile amorosamente intarsiato […] e nel silenzio della notte il poeta sorprende i complicati intrighi tramati […].

In questo gioco di andata e ritorno, le riprese di questi paesaggi interiori fatti di spogli scantinati di mattoni e cemento e, via via a salire, di piani un tempo abitati che conservano suppellettili in apparente disuso, mi proiettano di nuovo all’esterno, e il ricordo va ad alcuni lavori fotografici di Marina Ballo Charmet. Qui il dispositivo di richiamo al presente, di interruzione di uno sguardo disabitato, divenuto cieco per troppa abitudine, non è più il punto di vista della polvere ma quello del bambino. Da una diversa altezza, che è anche distanza da un Io incapace di estraniarsi, ci è dato un senso nuovo, un sovrappiù di spazio, nella visione di piazza del Duomo a Milano. Un progetto intitolato milanopiazzaduomo ideato con Gabriele Basilico in cui la sfida dell’autrice di abitare la piazza è assegnata alla vista dal basso, instabile e decentrata, dell’occhio di un io bambina.

Nella poetica di Gaston Bachelard, lo ricordo con le parole di Elena, lo spazio è un sé come il miele nell’alveare. Ecco allora che i due spazi, dell’intimità e del mondo, si toccano, si confondono, diventano consonanti. E noi, portati in tal modo al centro delle immagini fotografiche di questo ciclo di lavoro di Elena Grossi, possiamo scegliere quale sguardo vogliamo abitare per avvicinare, come estranei incuriositi, gli oggetti carichi di casalinga intimità.

A cura di Luca Caccioni e Irene Fenara

 

Ai piani intimi è una mostra che ruota attorno all’idea di intimità rivelata su differenti strati narrativi, nei confronti della memoria, del corpo e del paesaggio. La fotografia viene sperimentata nelle sue stratificazioni e trasparenze, tramite lo sguardo di quattro artiste che si confrontano nel sovrapporre le loro esperienze. La stratificazione di immagini è elemento comune che svela un desiderio di accumulazione e raccoglimento, quasi a voler far convivere più realtà sullo stesso piano nel tentativo di non perdere o non dimenticare la maggior quantità di forme possibili. La stratificazione di memoria e di ricordi, nel tentativo di colmare un’assenza, è forte nei lavori di Alessandra Brown e Roberta Zucchini, mentre è più materica la sovrapposizione di liquidi nel lavoro di Elena Grossi, e di macerie e crepe nel lavoro di Lucrezia Roncadi che accumula le ferite e i segni di un territorio scosso.  

La stratificazione del ricordo nel lavoro di Alessandra Brown è delicata ma definita, le carte da lucido sovrapposte svelano un trascorso familiare ormai passato. I familiari dell’artista sono infatti fasciati come oggetti che si trovano nelle zone balneari d’inverno. Una protezione rigida e plastica, resistente abbastanza da non farsi corrodere dalla salsedine che stagione dopo stagione affievolisce i colori e la memoria. Una copertura che protegge e allo stesso tempo soffoca le figure umane come il ricordo intimo di un luogo. La sovrapposizione fisica delle due fotografie, quella del passato e quella del presente, è accentuata da una distanza fisica che rappresenta una lontananza emotiva.

Altrettanto emotive e legate ai ricordi sono le fotografie di Roberta Zucchini. Un abito vuoto, dismesso, è quasi sempre traccia dell’intimità di una perdita. L’artista sembra cercare e non trovare al proprio posto qualche cosa. Si tratta di un vuoto che cerca di essere colmato tramite l’appropriazione di una serie di cappotti appartenenti alla madre dell’artista e alle sue sorelle. Gli abiti lunghi come ombre si sovrappongono nelle fotografie, moltiplicandosi e specchiandosi nei loro stessi negativi. I cappotti neri si fanno bianchi fantasmi, assenze che sembrano prendere vita e movimento a partire dai vestiti appesi e fotografati come testimonianza di qualcuno che è stato.

Il corpo invece diventa visibile nel lavoro di Lucrezia Roncadi che sovrappone la sua figura alle pareti di una struttura appartenuta alla sua famiglia e colpita dal sisma del 2012 in Emilia. L’idea di casa che si pensa possa durare una vita si frantuma così come il corpo giovane dell’artista che si fa portatore dei segni e della pelle del suo territorio. Il crollo fisico rappresenta il crollo delle certezze e il dolore che ci segna nel corpo. Lucrezia mette in relazione, tramite le stratificazioni delle fotografie, la durata di una vita con la durata di un’abitazione, distruggendo l’illusione che le cose, soprattutto quelle grandi, non mutino mai nel tempo così come l’idea della giovinezza. Quando si è giovani sembra che le cose non cambieranno mai, il cambiamento e il dolore sono sempre una sorpresa, finchè tutto non crolla, per la prima volta, sotto ai nostri occhi.

La stratificazione di Elena Grossi è invece materica, di liquidi che vanno a modificare la componente chimica della fotografia. L’acqua dello stagno rappresentato collabora a modificare l’aspetto dello stagno stesso, lasciando una traccia di sé, della propria esistenza e del proprio passaggio. Le fotografie, infatti, immerse nell’acqua stagnante concorrono a raffigurare un autoritratto della natura stessa.

 

Irene Fenara

La giuria di Art Up, il premio istituito in occasione di Opentour 2018, composta da Lorenzo Balbi, artistic director del Mambo, dalla collezionista Gaia Rossi Vacchi e da Andrea Viliani, direttore generale del museo MADRE di Napoli, ha deciso di segnalare la mostra di Lavì! City “Ai piani intimi”, per la qualità dell’allestimento e dei singoli lavori esposti.

Pertanto, a richiesta di molti, è prevista un’apertura straordinaria di finissage il giorno mercoledì 27 giugno, dalle 17,30 alle 20,00.

 

In occasione di Opentour 2018

 

A cura di Luca Caccioni e Irene Fenara

 

La mostra ruota attorno all’idea di intimità rivelata su differenti strati narrativi nei confronti della memoria, del corpo e del paesaggio. La fotografia viene sperimentata nelle sue stratificazioni e trasparenze, tramite lo sguardo di quattro artiste che si confrontano nel sovrapporre le loro esperienze. La stratificazione di immagini è elemento comune che svela un desiderio di accumulazione e raccoglimento, quasi a voler far convivere più realtà sullo stesso piano nel tentativo di non perdere o non dimenticare la maggior quantità di forme possibili. La stratificazione di memoria e di ricordi, nel tentativo di colmare un’assenza, è forte nei lavori di Alessandra Brown e Roberta Zucchini, mentre è più materica la sovrapposizione di liquidi nel lavoro di Elena Grossi, e di macerie e crepe nel lavoro di Lucrezia Roncadi, che accumula le ferite e i segni di un territorio scosso.