Abecedario minimo

Roberta Zucchini

16 – 30 ott 2021
inaugurazione 16 ottobre, ore 17.30
tutti i giorni 17.30 – 19.30

Lavì! City – Bologna

Presentazione di Valeria P. Babini

 

Ho sempre pensato che la memoria di chi tesse o cuce i suoi ricordi, tutti i ricordi, anche le parole che ci hanno attraversato, le frasi che scrittori e poeti hanno lasciato nei nostri cuori, le sensazioni, sì nostre, ma che inspiegabilmente si sono accompagnate da sé, mano nella mano, a un’immagine, a una fotografia, a una parola, ma anche a un filo rosso per il cucito, o ad esempio a un rocchetto, ho sempre pensato che la memoria di chi intende in qualche modo fermarla o esprimerla o esporla, come fa con grande delicatezza Roberta Zucchini nelle sue sette stazioni e nei suoi quindici ex-voto, quella memoria porti con sé, più ancora che un carico di contenuti di cui sembrerebbe voler lasciare traccia, la ragione profonda del suo senso.

A cosa serve la memoria? Le risposte posso essere e sono state molte; e si potrebbe anche dire che la domanda è capziosa. Tuttavia, lo sappiamo tutti, c’è una memoria che, ritrovata, ci è ritornata dentro, grazie al desiderio, prima ancora che alla volontà che ben presto a quel desiderio si asservisce. È il desiderio di trattenere ciò che non vogliamo lasciare andare: e a tenerlo in serbo è proprio lei, è la memoria che non serve, se non a ridare spazio e respiro all’essere che ci anima e attraversa il nostro vivere. Ecco perché Roberta Zucchini tanto si preoccupa che chi guarderà i suoi manufatti non si limiti ad attribuire loro un significato squisitamente autobiografico. Credo abbia ragione: perché anche quando il ricordo parte da noi, dai nostri vissuti famigliari, dalle nostre radici, culturali, collettive, è l’atto della memoria a caricarli di un senso capace di coinvolgere emotivamente e suscitare un sentimento di condivisione. È ciò che Roberta, con le sue opere, riesce a evocare in noi.

Quando sono entrata nella sala espositiva per fare la conoscenza del suo lavoro, ho avvertito da subito un’emozione carica di rispetto: come entrassi in un tempio, nell’anima di una vita, ma meglio sarebbe dire nel cuore della vita: perché una vita non è mai qualcosa di solamente personale e autobiografico, perché porta in sé quell’alito umano a cui tutti sentiamo di appartenere, anche se non tutti riusciamo a restituirlo o esprimerlo, come fa Roberta, con il suo prezioso lavoro di composizione artistica, dove ciò che più domina è proprio il sentimento del rispetto, e l’amore che senza di quello non è amore. Così, a scorrere davanti ai nostri occhi di spettatori è l’amore per le cose che dalla vita sono state toccate o attraversate: che siano abiti, persone, immagini, materiali, stoffe, fili, o semplicemente “ciò che resta degli strumenti di lavoro di una sarta”. È vero: si ha sempre timore che si perda ciò che, salvatosi magicamente, è rimasto nonostante lo scorrere del tempo nello spazio o nella mente di qualcuno: in un cassetto di un vecchio comò, dentro una scatola di fotografie, nel ricordo istantaneo di una immagine, nello struggimento di una emozione. C’è qualcosa di salvifico in quell’atto di ricomposizione artistica delle cose con cui Roberta Zucchini ci restituisce il valore della memoria; guardando il prodotto del suo lavoro, di una cosa diventiamo immediatamente consapevoli: che gli oggetti hanno vita, sono intrisi di pensieri di noi umani, sono rimasti nostri compagni di viaggio, ci testimoniano. Non sono solo il prolungamento o le appendici delle nostre mani e del nostro corpo, utensili di cui ci siamo serviti; sono anche cose che ci hanno accompagnato nel corso dell’esistenza, cose che abbiamo accarezzato con lo sguardo (i quadri appesi alle pareti, le nostre fotografie del passato, le parole stampate nei libri), cose su cui abbiamo lasciato l’impronta del calore del nostro corpo (gli abiti, le stoffe, il velluto delle poltrone, i cuscini su cui abbiamo sognato o pianto), cose che hanno tenuto impegnate le nostre mani mentre dovevamo far passare il tempo o placare il dolore della vita (le stoviglie con cui abbiamo cucinato, i bicchieri dei nostri brindisi, le stoffe cucite, i fili arrotolati, i ricami), cose che ci hanno aiutato a rallegrarci nelle ore felici (un monile, un rossetto, un pettine, un nastro per i capelli). Senza gli oggetti che strada avrebbe fatto l’essere umano?

Questa memoria (non i singoli ricordi) in cui ci riporta l’opera di Roberta Zucchini, è anche contagiosa, trova eco in chi sa guardare ed ascoltare, e tiene gli occhi aperti sull’umano che abita ciascuno di noi. Così indugiare con lo sguardo su questi manufatti costruiti a partire da pezzi di vita che noi non abbiamo mai conosciuto, è percorrere una strada, poetica, che ci fa entrare in contatto con il nostro mondo interiore, di noi esseri umani. Grazie ai lavori artistici di Roberta, ognuno può farlo. È questa la magia della memoria che lei ci aiuta a ritrovare.

La delicata cura che si scorge nella costruzione dei suoi manufatti artistici, la cucitura più che il ricamo con cui l’autrice, con un gesto lento delle mani, ha inteso fermare per noi tutti le parole e le immagini fotografiche che le sono per così dire andate incontro attraverso la sua memoria, veicolano un amore rispettoso delle cose che vuole “rendere impossibile la loro dispersione”, ma, fissandole con un filo da cucire, anche sottrarle al destino di semplici istantanee; e, perché no, nasconderle un poco, e proteggerle, sotto quel filo che le cuce, come fossero reliquie da conservare. Il cucito è un gesto antico, mette insieme, tiene stretto; il filo è ciò che consente al gesto del cucire il suo operato, ma è anche ciò da cui nasce il discorso che lega le parole: quelle che accompagnano e riaprono alla vita ciò che la fotografia potrebbe avere chiuso troppo frettolosamente in uno scatto.