Presentazione di Valeria Tassinari

Pierluigi Vannozzi ha l’occhio intuitivo. Non credo sia una categoria che esiste scientificamente, come ad esempio l’occhio clinico, l’orecchio assoluto e altre capacità di decifrazione del mondo che ci piacerebbe avere. Si tratta, piuttosto, di un addestramento a catturare velocemente l’essenza dell’immagine, una particolare abilità di guardare, cercando le relazioni tra ciò che si vede e ciò che si sa.

La sua autentica raffinatezza intellettuale – alimentata dalle letture e dall’appassionata frequentazione di mostre, musei, cinema e teatri – non basta a spiegare questa sensibilità, che in fondo è una forma di sensualità onnivora, di sguardo intelligente e desiderante dell’artista, sempre in cerca di rispecchiamenti in ciò che lo circonda. C’è, in lui, un felice abbandonarsi alle sorprese del visibile ma anche una posizione di rigore concettuale, che gli impone di scegliere il filtro di tecniche fotografiche dall’apparente aleatorietà per disciplinarsi, per darsi il tempo di ragionare sugli effetti della visione, e per tenere sotto controllo l’impulso di mettere a nudo le cose. La fotografia, dopo una lunga stagione di ricerca visiva fondata sulla sperimentazione radicale, per lui ora è una procedura per sublimare la contemplazione delle immagini, una ricercatezza che sconfina in declinazioni pittoriche; solo così, nel filtro della luce che sceglie per lui cosa trattenere, Vannozzi si concede di cedere alla seduzione di un’estetica dagli echi antichi, e di divertirsi con il gioco di libere associazioni, con il quale può costruire un racconto dei suoi viaggi, scegliendo strutture narrative non convenzionali.

Il museo parigino dedicato al più passionale degli scultori non poteva non accendere l’intuizione che lo ha portato subito al di là della visione, amplificando quel sentimento del corpo 4 che in Rodin pulsa sotto la pelle, come un’entità divina in un reliquiario. Negli scatti fotografici realizzati durante la visita, spesso deviati sulle finestre per cercare i riflessi delle anatomie scolpite, tutto diventa meno nitido e più chiaro.

Il filtro della foto impone di tenersi un pochino a distanza da quella bellezza che lascia attoniti, da quella maestria tecnica perturbante, da quel marmo dalle seduzioni tattili, perché funziona da spazio mentale di decantazione. Ma una volta in studio, dopo le rapide alchimie della stampa, la foto restituisce comunque bellezza, e allora è lei a prendere la mano, a guidare verso un nuovo scenario, dove i muscoli in torsione richiamano altre immagini in sovraimpressione, evanescenti e tuttavia potenti, di un’evidenza evocativa che non si riesce a respingere.

L’eco erotico e disperato della pittura di Bacon, che qui è arrivato per intuizione, si è aggrappato subito alla materia, al punto che ormai è difficile scindere i due livelli. Allora meglio tenersi tutto e costruire una nuova narrazione parallela, come talvolta nel cinema si montano frammenti di due storie per crearne una sola senza esplicitarne le relazioni; una storia possibile, proprio perché mai vera.

C’è, in questa ricerca, un lavoro di rilettura critica e abbandono emozionale che coglie così bene l’essenza di due poetiche distanti e apparentemente antitetiche da metterci di fronte alla possibilità di pensarle insieme, in una dimensione fulminea e atemporale.

Presentazione di Federico Cano Correa, Francesco Carofiglio

“Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”

Così scriveva Italo Calvino nelle “lezioni americane” ed è questo l’intento e lo scopo dell’arte di Andrea Serio.

I suoi lavori, realizzati a pastello e matite colorate, ci fanno sentire esattamente così: leggeri.

In questa mostra sono esposte le intense tavole originali realizzate da Serio per la riedizione ad opera di Feltrinelli de “Il peso della Farfalla” racconto del 2009 di Erri De Luca.

Ad accompagnare le tavole definitive ci sono anche alcuni dei numerosi bozzetti preparatori.

Attraverso questi schizzi si può apprezzare e capire più da vicino il lavoro che c’è dietro ad un immagine finale, frutto di vari tentativi, di fallimenti e di successi.

“In ogni specie sono i solitari a tentare esperienze nuove” scrive De Luca e si può dire che anche Andrea Serio sia un solitario, un disegnatore che preferisce stare lontano dai riflettori, che si muove in punta di piedi, in maniera silenziosa.

Questo modo di essere credo si rispecchi anche nei suoi lavori e nel suo modo di interpretare il ruolo di illustratore.

La sua è una tecnica “classica”, un modo di lavorare lento, per il quale occorrono pazienza, tempo e quiete.

Al di là della bravura e dell’incredibile padronanza della tecnica, all’interno dei suoi lavori (ai quali mi piace pensare come fossero quasi degli esercizi meditativi) ci sono alcuni aspetti che spiccano su altri e sono la capacità di giocare con la luce e le ombre, coi pieni e coi vuoti, la capacità di cogliere anche le più piccole sfumature di colore che la natura offre solo a chi ha pazienza di guardarla davvero, infine la maestria del restituire allo statico foglio bianco il movimento della vita e della natura.

Federico Cano Correa

Presentazione di Valeria P. Babini

 

Ho sempre pensato che la memoria di chi tesse o cuce i suoi ricordi, tutti i ricordi, anche le parole che ci hanno attraversato, le frasi che scrittori e poeti hanno lasciato nei nostri cuori, le sensazioni, sì nostre, ma che inspiegabilmente si sono accompagnate da sé, mano nella mano, a un’immagine, a una fotografia, a una parola, ma anche a un filo rosso per il cucito, o ad esempio a un rocchetto, ho sempre pensato che la memoria di chi intende in qualche modo fermarla o esprimerla o esporla, come fa con grande delicatezza Roberta Zucchini nelle sue sette stazioni e nei suoi quindici ex-voto, quella memoria porti con sé, più ancora che un carico di contenuti di cui sembrerebbe voler lasciare traccia, la ragione profonda del suo senso.

A cosa serve la memoria? Le risposte posso essere e sono state molte; e si potrebbe anche dire che la domanda è capziosa. Tuttavia, lo sappiamo tutti, c’è una memoria che, ritrovata, ci è ritornata dentro, grazie al desiderio, prima ancora che alla volontà che ben presto a quel desiderio si asservisce. È il desiderio di trattenere ciò che non vogliamo lasciare andare: e a tenerlo in serbo è proprio lei, è la memoria che non serve, se non a ridare spazio e respiro all’essere che ci anima e attraversa il nostro vivere. Ecco perché Roberta Zucchini tanto si preoccupa che chi guarderà i suoi manufatti non si limiti ad attribuire loro un significato squisitamente autobiografico. Credo abbia ragione: perché anche quando il ricordo parte da noi, dai nostri vissuti famigliari, dalle nostre radici, culturali, collettive, è l’atto della memoria a caricarli di un senso capace di coinvolgere emotivamente e suscitare un sentimento di condivisione. È ciò che Roberta, con le sue opere, riesce a evocare in noi.

Quando sono entrata nella sala espositiva per fare la conoscenza del suo lavoro, ho avvertito da subito un’emozione carica di rispetto: come entrassi in un tempio, nell’anima di una vita, ma meglio sarebbe dire nel cuore della vita: perché una vita non è mai qualcosa di solamente personale e autobiografico, perché porta in sé quell’alito umano a cui tutti sentiamo di appartenere, anche se non tutti riusciamo a restituirlo o esprimerlo, come fa Roberta, con il suo prezioso lavoro di composizione artistica, dove ciò che più domina è proprio il sentimento del rispetto, e l’amore che senza di quello non è amore. Così, a scorrere davanti ai nostri occhi di spettatori è l’amore per le cose che dalla vita sono state toccate o attraversate: che siano abiti, persone, immagini, materiali, stoffe, fili, o semplicemente “ciò che resta degli strumenti di lavoro di una sarta”. È vero: si ha sempre timore che si perda ciò che, salvatosi magicamente, è rimasto nonostante lo scorrere del tempo nello spazio o nella mente di qualcuno: in un cassetto di un vecchio comò, dentro una scatola di fotografie, nel ricordo istantaneo di una immagine, nello struggimento di una emozione. C’è qualcosa di salvifico in quell’atto di ricomposizione artistica delle cose con cui Roberta Zucchini ci restituisce il valore della memoria; guardando il prodotto del suo lavoro, di una cosa diventiamo immediatamente consapevoli: che gli oggetti hanno vita, sono intrisi di pensieri di noi umani, sono rimasti nostri compagni di viaggio, ci testimoniano. Non sono solo il prolungamento o le appendici delle nostre mani e del nostro corpo, utensili di cui ci siamo serviti; sono anche cose che ci hanno accompagnato nel corso dell’esistenza, cose che abbiamo accarezzato con lo sguardo (i quadri appesi alle pareti, le nostre fotografie del passato, le parole stampate nei libri), cose su cui abbiamo lasciato l’impronta del calore del nostro corpo (gli abiti, le stoffe, il velluto delle poltrone, i cuscini su cui abbiamo sognato o pianto), cose che hanno tenuto impegnate le nostre mani mentre dovevamo far passare il tempo o placare il dolore della vita (le stoviglie con cui abbiamo cucinato, i bicchieri dei nostri brindisi, le stoffe cucite, i fili arrotolati, i ricami), cose che ci hanno aiutato a rallegrarci nelle ore felici (un monile, un rossetto, un pettine, un nastro per i capelli). Senza gli oggetti che strada avrebbe fatto l’essere umano?

Questa memoria (non i singoli ricordi) in cui ci riporta l’opera di Roberta Zucchini, è anche contagiosa, trova eco in chi sa guardare ed ascoltare, e tiene gli occhi aperti sull’umano che abita ciascuno di noi. Così indugiare con lo sguardo su questi manufatti costruiti a partire da pezzi di vita che noi non abbiamo mai conosciuto, è percorrere una strada, poetica, che ci fa entrare in contatto con il nostro mondo interiore, di noi esseri umani. Grazie ai lavori artistici di Roberta, ognuno può farlo. È questa la magia della memoria che lei ci aiuta a ritrovare.

La delicata cura che si scorge nella costruzione dei suoi manufatti artistici, la cucitura più che il ricamo con cui l’autrice, con un gesto lento delle mani, ha inteso fermare per noi tutti le parole e le immagini fotografiche che le sono per così dire andate incontro attraverso la sua memoria, veicolano un amore rispettoso delle cose che vuole “rendere impossibile la loro dispersione”, ma, fissandole con un filo da cucire, anche sottrarle al destino di semplici istantanee; e, perché no, nasconderle un poco, e proteggerle, sotto quel filo che le cuce, come fossero reliquie da conservare. Il cucito è un gesto antico, mette insieme, tiene stretto; il filo è ciò che consente al gesto del cucire il suo operato, ma è anche ciò da cui nasce il discorso che lega le parole: quelle che accompagnano e riaprono alla vita ciò che la fotografia potrebbe avere chiuso troppo frettolosamente in uno scatto.

La città e la solitudine: un tema antico, frequentato da secoli. A Venezia, poi, parlare di solitudine è una doppia scommessa. Non esiste infatti città più descritta, raccontata, parlata. Il tema della Venezia decadente, culla della solitudine, è uno dei filoni più attivi della retorica sulla sua storia. D’altra parte Venezia è immediatamente associabile alla dimensione diametralmente opposta, quella della folla. Venezia è (o perlomeno era: abbiamo tutti negli occhi gli ammalianti reportage lagunari durante i vari lockdown dell’ultimo anno, con il ritratto di una città inquietantemente deserta) la città delle folle turistiche, dell’invasione delle orde giornaliere di visitatori. Pensare la città come luogo della solitudine sembrava fino ad oggi quasi un ossimoro mentale.

La solitudine come chiave interpretativa della città serve a riflettere su molte tematiche di stringente attualità per comprendere la sofferente identità della Venezia contemporanea. Ovviamente, in primis, sul rapporto fra turisti e residenti. La signora ritratta con il suo carrello della spesa, seduta su un vaporetto, gli occhi socchiusi come a voler prendere tregua per un po’ dalla visione del mondo attorno a sé, parla di una città abitata da persone anziane, spesso circondate da un bolla di solitudine non necessariamente cercata, ma più spesso subita. In quella efficace immagine, perfino il cane che fa capolino nell’angolo in basso a sinistra appare assorto in una solitaria meditazione.

Nelle fotografie di Wienand le persone ritratte di schiena, in solitudine, “fanno subito” quadro di Caspar David Friedrich. Anziché gli scenari naturali, montagne, scogliere, marine scelti dal pittore romantico tedesco, qui vi sono i celeberrimi sfondi urbani della città lagunare: le calli, i campielli, le fondamenta. L’effetto è straniante, curiosamente stimolante: Venezia assume in questa prospettiva la potenza di una forza naturale, di fronte alla quale i solitari pensatori e le solitarie pensatrici ritratte da Wienand sono intenti a riflettere filosoficamente.